Thursday, August 21, 2014

antropologie de noartri: il senso nel rito del funerale

sono stato ad un altro funerale.

durante la messa pensavo che, in effetti, è il motivo più probabile per cui debba assistere ad una messa. gli amici si son quasi tutti sposati. e quelli che, al limite, lo fanno una seconda volta - c'è chi mi doppia - non lo fanno ovviamente in chiesa. quindi niente più messe, da quel punto di vista.

quindi ci sono, appunto, i funerali. uno degli effetti collaterali di essere passato in mezzo ad un lutto importante è che poi, paradossalmente, gli altri lutti impressionano di meno. nel senso che il proprio è venuto, lo si è gestito, probabilmente superato: qualcosa che fa parte del bagaglio esperito spaventa meno.

quindi, ultimamente, osservo con distaccato coinvolgimento - per fortuna. e soprattutto osservo con curiosa atarassicità il rito. quello che si fa in chiesa, appunto, durante la messa. visto che, appunto, ormai a messa ci vado quasi solo per i funerali.

a parte i personalissimi esercizi di memoria a breve, di quando si elencano le litanie dei santi. quelle dove si dovrebbe rispondere "intercedi per lei/lui". oggi sono stati sedici, la volta scorsa diciannove. si comincia sempre con "santa maria" [madonna uberalles] e poi forse un giorno mi spiegheranno perché il secondo è san michele, quindi san giovanni [battista]. solo quarto san giuseppe, che zeppole a parte, non se l'è mai filato nessuno. poi c'è l'abbinata pietro e paolo, e ci sta. poi sant'andrea [apostolo?] e santo stefano che come primo martire sta lì, in posizione comunque importante. poi dovrebbe esserci l'abbinata, sconosciuta ai più, gervaso-protaso, che si ricorda facile per l'assonanza, oppure vengono le altre donne: santa tecla [che boh?], oggi sant'anna in loco di sant'agnese. poi l'elenco credo si sfilacci. si infila il nome del santo del defunto/a, quindi san francesco che non guasta e che è il mio preferito. a seguire da qualche parte dovrebbe arrivare l'altra abbinata assonante martino-galdino. e poi, nella chiesa ambrosiana, l'inchino del rito a san carlo [che il rito, nella sua organicità ha istituito, nella sistematizzazione della controriforma, tra una condanna al rogo e l'altra] e quindi sant'ambrogio: protovescovo milanese, si è un po' a casa sua.

vabbhè.

in realtà non è questo che mi incuriosisce. al netto dell'allungamento del post. bensì è la sensazione, netta, percepita del senso di tutta l'impalcatura della religione. e quindi, forse, delle religioni, tutte. il trovar un senso trascendente al fatto molto immanente, e soprattutto molto destabilizzante per l'uomo dacché è uomo: che, prima o poi, ce ne dobbiamo andare da questo mondo. appunto, questo: quindi ne viene suggestionato un altro. per placare quel senso di angoscia di finitezza: cenere torneremo ad essere.

a vederla asetticamente non è una minaccia, ma una necessità. per l'intera umanità, per l'equilibrio del sistema nel suo insieme. bisogna lasciar posto, e soprattutto risorse, a quelli che verrano dopo. in effetti l'evoluzione e la natura, qualsiasi cosa sia o significhi, ha messo in piedi un bel calembour. nasci, porti il tuo contributo adattativo-evolutivo, e poi ti levi di torno, per dar libero sfogo al contributo adattativo-evolutivo che hai contribuito ad ammonticchiare.

ecco.
metti un pomeriggio in cui sei quel filo più sereno del solito [grazie agli amici che hanno dato un bel contributo acciocché]. la temperatura milanese è gradevole. la panca della chiesa quasi comoda. lasci nell'altra panca il coinvolgimento emotivo - entrare in chiesa a funzione iniziata aiuta.
ecco.
questa cosa che la tua dipartita, quando sarà, sia un evento necessario e naturale ti suona quasi rassicurante. se ti percepisci un qualcosa di completamente organico al fluire di questo calembour. sono quelle cose che durano qualche istante. perché poi quel pensiero che non possiamo permetterci di pensare troppo, sennò daremmo fuori di testa [o ci suicideremmo, ma è un'altra storia], riprende a far il suo lavoro per cui è installato giù giù nella nostra percezione consapevole. anzi, forse è uno degli elementi fondanti della nostra percezione consapevole. del nostro essere senzienti e raziocinanti. anzi, mi spingo a blaterare che è il primo tra gli elementi fondanti [non so se sia effettivamente così, sono speculazioni da bigino del pacchetto di patatine. e poi io sono perito, nel senso di perito elettronico-telecomunicazionista [ci sarebbe un doppio senso per sdrammatizzare, se non si era capito]. sarebbe interessante sentire che ne pensa qualcuno di studiato].


la consapevolezza della finitezza non è mai stata presa bene, e ci mancherebbe. in fondo è come il pulsante rosso protetto dalla placca trasparente di plastica con sopra l'avviso perentorio: se schiacci questo ti autodistruggi. e quindi io la sensazione che la necessità di immaginare [inventarsi?] una via d'uscita, che riequilibrasse quell'abisso dell'inconosciuto, sia una specie di salvagente per non finire in un trip auto-alimentato ed autocircolante ed andare a fondo. perché se fai una fatica fottuta ad arrivare a capire che sei, cazzo mica ci si può affrontare tanto facilmente l'idea che prima o poi non sarai più.

quindi occhei la divinità, perché se sei, ci sarà qualcuno che ha più o meno supervisionato. un nesso anticasuale al fatto che tu sei. ma già che ci siamo qualcosa che spiegasse che succede quando, immanentemente, non si è più.

ecco. io sarò pur preso dalla mia furia un po' vestigialmente iconoclasta, e quindi sono suggestionato male. ma oggi, di nuovo, ho avuta nettissima quella sensazione. che quel rito, litanie dei santi comprese, sia l'ammonticchiarsi di strutture simboliche e archetipe di qualche decina di secoli. e che su, su, su, arrivano fino a quella panchina di una chiesa, in un pomeriggio col sole e di un caldo gentile. e che mantenga un sottilissimo filo che da su, su, su, è annodato giù, giù, giù a quella fottutissima paura che ci coglie da quando sappiamo di essere. senza sapere bene il perché finiremo per non esserlo più. saperlo dentro, nel profondo, al di sotto del nostro ammonticchiamento di cose di qualche decina di secoli che ci hanno preceduto. e di cui siamo fatti, polvere di stelle a parte.

l'ughetto foscolo nei "sepolcri" [ebbene sì, qualche poema l'ho studiato pure io], lo ricorda che col nascere del culto e del rito di congedo dalle persone morte nasce la civiltà dell'uomo che sa di essere, e quindi anche che non sarà.

forse la questione delle risorse e del calembour della natura è un po' troppo esile. non basta per trovare ragione per un qualcosa che ci spaventa, archetipamente, così tanto. un paura così enorme figurarsi se può placarsi con la storiella che non c'è trippa per tutti.

eppure forse basterebbe applicare il rasoio di occam. o forse ci saranno altri millemigLioni di motivi. ["ehhhh... mo me lo segno" cit]. non so che cosa c'è delllà, e ci mancherebbe. non lo so anche nel senso agnostico del termine, che non ho la gnosi [anche] di questo, e ci mancherebbe.

nel dubbio provo a far quello di buona volontà deqqqua. ma mica perché mi aspetto chisssàacchè delllà. anzi, tecnicamente, non mi aspetto proprio nulla, al momento: la si chiude qui e morta lì [c'è un doppio senso ironico-esiziale, se non si era capito]. è proprio per questo che, anche col gentile contributo del mio superio, penso sia cosa decente far del quasi mio meglio finché sono. cose così. [i refusi non inficiano, comunque].

Tuesday, August 12, 2014

sulle possibili logistiche esistenziali advenienti. sperando di non complicar[me]le troppo.

elenco non esaustivo delle possibili vie di sblocco di questa situazione inediosa nonché [auto]paralizzante. roba che per un po' comunque, finanziariamente, non si sciallerà. però magari una birra mi sentirò di offrirla senza sentirmi per forza mantenuto da qualcuno. unitamente all'elenco i pro e i contra di ogni singola possibilità. cosicché si possa mettere sul tappeto gli elementi per orientare una scelta. oppure, nel mio specifico caso, palate di carbone nella caldaia a vapore della locomotiva delle mie nevrosi decisorie. che è il modo per bloccarsi nel decidere, quindi nell'agire. e poi, a dire il vero, pro e contra un po' buttati a muzzo e mischiando le discaliche pere con le didascaliche mele. sperando non venga fuori l'effetto macedonia, che poi può succedere di tutto.

  • status quo ad libitum [che renda uno stipendio]. nella metropoli ambrosiana afffà er frilens tra il giic, il nerd, e il para-creativo. consulenzio dove trovo, al prezzo che riesco a spuntare.
    • pro. lo conosco, rimango nel mio appartamentino che mi piace, non timbro cartellini, lavoro agli orari che stabilisco, niente padroni - in prima istanza. libero e professionista, nonché spruzzatine di bohemien 2.0: per capire se è una cosa che mi piace o meno. odg, a centro metri da casa.
    • contra. lo conosco, lavoro prevalentemente in solitaria. self marketing fondamentale e continuo: mi devo procacciare e far pagare il lavoro. orari con picchi che possono essere insostenibili. autore - solingo - delle evoluzioni lavorative e dello stipendio: o vendo a caro prezzo il mio tempo, oppure stipendi mediocri con conseguente tempo di rientro dei debiti, elevato.
  • variante di cui sopra relativamente una consulentia in parte all'estero [ie, sopra o sotto ceneri nella vicina confederazione].
    • pro. tutto il resto di cui sopra, però stipendio molto più interessante
    • contra. più sbadtimento di trasferimenti, ma vabbhé. soprattutto difficile da realizzare: non son lì ad aspettar il professionista che è in me [che a dire il vero si porta dietro il caso umano, ma si può anche non dirglielo esplicitamente].
  • status quo logistico ma dipendente. nella metropoli ambrosiana, più o meno assunto in una qualche più o meno azienda, con orari più o meno fissi, divise di lavoro più o meno definite [anche giacca e cravatta lo è, per dire], con stipendio più o meno fisso.
    • pro. oltre i vantaggi di cui sopra, per la logistica - odg compresa - lo stipendio più o meno fisso, e che quindi sia più sia sul fisso che su quanto riesco a spuntare. tutto quello che è evoluzione del mio lavoro - compiti, stipendio - non è da inventare da capo in ogni situazione: la leva al cambiamento la fanno altri. ho la responsabilità di far bene, impegnarmi, dimostrare quel che posso valere: so, ormai di esserne capace
    • contra. il cartellino più o meno da timbrare, anche solo figurativamente, con la più o meno regolarità che mi aliena ex-ante [forse pure troppo, quando è accaduto ai tempi ero una persona comunque molto diversa]. tutto quello che è evoluzione del mio lavoro - compiti, stipendio è deciso in ultima istanza da altri. sensazione sia tutto troppo "fisso".
  • rivoluzione logistica medium, verosimilmente da dipendente. lascio la metropoli ambrosiana, me ne torno in hometown, divento frontaliere: in ordine di tempo il quinto, di cinque, tra i nipoti di mio nonno paterno a percepire lo stipendio in franchi svizzeri, pur essendo il primogenito nonché quello che per prima si è laureato ma che soprattutto per primo ha cominciato a concorrere a creare il PIL nazionale.
    • pro. lo stipendio, roba che ripago i debiti e posso pure permettermi di offrire una cena oltre la birra. probabilmente una "facilità" nella gestione della complessità meta-lavorative, se rapportato allo stanzino da dove son riuscito ad evadere, per consunzione dello stanzino medesimo, quasi un anno fa [cazzo, mi pare una vita, ma è passato tutto troppo in fretta]. nonché le situazioni allucinoggggene in cui mi sono infilato, mio malgrado e paziale insaputa, fino alla parziale consapevolezza.
    • contra. a chi cazzo la offro la cena oltre la birra? una certa tarpatura sociale in questa hometown che "bel posto, peccato la gente". una logistica un po' immediatamente complicata a tornar, stabilmente con matreme: affittar da qualche altra parte, pronti via, non mi convince. dovrei cambiar forse paesino, allontandomi dal confine. pietra quasi tombale al fatto possa provar a costruire una relazione [ho questa sensazione, più autosuggestionata, che nesso-causata]. ed altra sensazione suggestionata: lasciar così la metropoli ambrosiana per tornarmene all'hometown, è un il suggello tornacasalessie piuttosto fallimentare, un capitolo che si chiude con il proverbiale pugno di mosche. odg decisamente più complicata da continuare.
  • rivoluzione logistica hard, verosimilmente da dipendente. lascio la metropoli ambrosiana e me ne vado all'estero, verosimilmente europeo/occidentale. baibai paese meritocratico de li me cojoini. un altro cervello [per quanto bacatissimo] in fuga.
    • pro. forse lo stipendio. forse uno stile di vita meno soffocantemente italiota [poi se però continuo a leggere repubblica.it e mantenermi virtualmente in contatto, l'acido mi sale uguale]. forse un'altra percezione di senso civico diffuso. forse lo stimolo per aver voglia a ri-cominciare dei progetti.
    • contra. solo, solissimo, al limite del disperante: ma che cazzo ho fatto? con la lingua da imparare/perfezionare. complicato da costruire logisticamente, soprattutto con la siccità finanziaria in cui mi sono infilato/sono finito. niente più odg.
  •  rivoluzione logistica stong-hard, da dipendente. lascio la metropoli ambrosiana e vado lontano, in situazioni più estreme, per soldi e per un tempo limitato.
    • pro. lo stipendio, che sarebbe - nel caso molto, molto, molto invitante: ripago tutti i debiti e mi metto un po' di fieno in cascina. il tempo limitato [potenziale]
    • contra. si acuiscono quelli precedenti. complicatissimo da realizzare: dove? a far cosa? aspettano me? dubbi sul fatto possa reggere emotivamente, nonostante il tempo limitato [potenziale]. sarebbe un vivere in una sorta di stato "alterato" e artefatto: per quanto per un tempo limitato [potenziale]
  • semi status quo logistico e rivoluzione hard d'impiego. cambio totalmente genere di attività, qualcosa che - intuisco - possa dare veramente un senso all'esistere: occuparsi degli altri, in siuazioni financo o preferibilmente fuori dal mio ordinario
    • pro. trovare un senso, oltre me medesimo. suggestione di completezza e ragione d'essere
    • contra. la lingua, forse il coraggio che a parole son buoni un po' tutti. complicato da realizzare, a brevissimo tempo
insomma.

roba piuttosto variegata, quasi una macedonia dolce-salato. posto che magari l'elenco non è del tutto esaustivo. e posto che - quando succederà - succederà qualcosa che magari non è elencato.

c'è un po' di tutto. forse troppo. a buttar troppe opzioni è il modo per non venirne a capo. e quindi indulgere nell'inazione. che genera inedia ed apatia. che genera demoralizzazione e annichilisce l'autostima che manco l'insulina con la glicemia nel sangue. che alimenta l'inazione. 'sti giri qui, insomma.

e nel frattempo il tempo passa. l'ieri non è più e scappa via pure l'oggi. magari con la personalissima dose di piaceri che mi sono negato: quasi a volermi punire per il fatto sia così bambo e lento nell'agire, nonché mi percepisca con quest'aura fallimentare che non m'evapora via.

oltre i post. così lunghi. tediosi. refuseschi. sono lo specchio del personalissimo zeitgeist. oltre al fatto che non so come chiuderlo, 'sto post, e quindi mi sto ritualizzando, imbellettando la chiosa finale. che però non mi viene.

quindi tronco qui, d'amblè, [il post, ovvio].

Tuesday, August 5, 2014

post un po' foscoliano ex-ante, o forse foscolo non c'entra per nulla

oggi sono andato ad un funerale.

paesino vicino alla hometown, solo che è ancora più piccolo dell'hometown. una donna, che se n'è andata troppo presto.

ci sono andato perché conosco la figlia. oddio: conoscere è un verbo forse un po' sproporzionato. diciamo che abbiamo interloquito solo negli ultimi anni, sporadicamente, via mail e cose similari.

già. perché per anni avrei voluto conoscerla, ma non ne ho mai avuto l'occasione. a dire il vero è stato uno dei miei timidi pre-deliri da pre-adoloscente, quasi adolescente. prendavamo lo stesso pulmann per andare alle scuole superiori. lei saliva alla fine del paesino dopo la mia hometown. autobusssse pieno: le rimaneva il posto vicino l'autista, in piedi. la notai così. arrivati a destinazione, attraversava la strada e aspettava quello che l'avrebbe portato al liceo classico. sempre sola, forse timida, col ponpon in testa. non era una ragazzetta di quelle che fanno schiantare i futuri maschi alfa-dominanti. difatti colpiva e incuriosiva me, vai a sapere il perché. la osservavo, sempre da lontano. naturalmente non sono mai riuscito a dirle nulla in quegli anni.

mi raccontarono di lei, poi, durante l'università, compagne di classe. io spesso non capivo subito chi fosse e poi mi sovveniva: era la ragazza con il cappello col ponpon, con cui non avevo mai interloquito.

durante il servizio civile la incrociai spesso, io andavo in riviera, passando da milano. lei prendeva il mio stesso treno per fermarsi a pavia. la riconoscevo, probabilmente lei riconosceva di vista me [son paesini piccoli, almeno i visi ce li si ricorda]: nemmeno lì ho mai avuto il coraggio di presentarmi. rimaneva ad essere colei che ai tempi aveva il cappello col ponpon.

si era fatta donna, naturalmente. una bellezza ed un fascino non ostentato, di quelli che non attizzano i maschi alfa-dominanti. e continuava ad incuriosirmi, forse anche per via di quella sicura timidezza che pareva emanare. c'era qualcosa di magnetico in quell'aura molto acquasaponesca. probabilmente è il fenotipo femmineo che non mi inquieta, che non mi spaventa. me lo son chiesto spesso: non per solo per lei, ovvio. ma proprio per quel paradigma di donna. lei inoltre mi dava anche l'impressione, l'intuzione, l'idea potesse essere una persona che valeva la pena conoscere. suggestione, fin lì, mai verificata.

poi ci conoscemmo, un po' per caso, via mail. le raccontai quindici anni di incuriosimenti da lontano, iniziative interlocutorie finite sull'asse immaginario, posti sui treni che erano sempre un sedile più lontano di quel che avrei desiderato. tutto partendo dalla storia del ponpon. in quel periodo ero alla ricerca decisamente nevrotica di una donna con cui metter su famiglia. credo foss'anche una sorta di orologio biologico-formal-istituzionale. o anche un modo per trovar[mi] il senso, mentre stavano implodendo alcuni punti fermi degli anni fin lì. quell'infilata di ricordi, insomma, che non si ricordano come particolarmente lieti, anzi, un periodo di merda, decisamente di merda.

naturalmente non accadde nulla di che. ed io frenai, almeno con lei, la mia nevrosi urticante. poi ci incrociammo un paio di volta su un treno. e fu più semplice presentarmi. lei era già fidanzata, aveva colpito un ragazzo tedesco, che poi avrebbe sposato. però, ecco, quella sensazione fosse una persona valeva la pena conoscere - dal ponpon in avanti - mi si confermò.

la chiesa era piena, oggi, di quelle situazioni pure da paesino, ma dove cogli che le persone non sono lì per caso, o per maniera. è sempre interessante ascoltare il rito [ontologico-consolatorio?] funebre. farlo da fuori, nel rispetto delle fedi di ciascuno, fa percepire in maniera netta la necessità di dar un senso alla fine di una vita, tinteggiandone una eterna. probabilmente è lì l'essenza delle religioni. la speranza di qualcosa che vada oltre, che la coscienza della propria finitezza è blocco complicato da elaborare.

al termine della celebrazione, sua figlia, quella figlia a cui volevo essere a mio modo vicino in quel momento, ha voluto ricordarla, leggendo parte di una lettera che le inviò vent'anni fa. la voce rotta, all'inizio, e quindi la forza mite di una persona probabilmente timida, ma che poi affronta tutto quello che le viene incontro con una volontà ferma e al contempo gentile. ha spiegato il senso di quella lettera, una madre che scrive ad un figlia ventenne, che probabilmente cominciava ad incrociar pezzetti di vita. considerazioni, intuizioni, suggestioni da voler condividere. nulla di eclatante o da testamento spirituale, anzi, l'idea di fuggire le convinte situazioni roboanti di coloro che sanno e che tutto hanno capito. una specie di understatement, leggero, che sa volare alto, e riesce ad andare oltre tutte le situazioni e cose pesanti. io non so, quella figlia, quanto e cosa abbia mai messo in pratica di quella lettera. però ho percepito una sensazione di semplicità, levità che - nebulizzata - ho un po' invidiato, nel turbinio emotivo di costei.

ecco. laicamente - come in fondo "laiche" sono state quelle parole - ho re-intuito quanto cazzo avesse ragione foscolo, sull'eternità delle persone che lasciano l'eredità d'affetti. e che probabilmente quella sensazione su quel ponpon non era una deriva nevrotica basata sul nulla. ma che quelle parole tinteggiassero il solco in cui la madre ha suggerito alla figlia come muoversi. ed anche da quello derivi la suggestione che quella figlia sia una persona che sarebbe valso la pena conoscere. per quanto mai verificata così a fondo, ovvio. ma va bene ugualmente così: m'accontento della sensazione.

sono andata a salutarla al cimitero, ero alla fine della fila. ha impiegato mezzo secondo a capire chi fossi. non foss'altro per il fatto non s'aspettava di vedermi. non ricordavo gli occhi così tendente al verdone [posto che magari sono state le lacrime di questi giorni].