Wednesday, September 17, 2014

polistrumentismi [ma è solo un viaggio nella mia mente satura di minchiate]

l'applicazione mappe dello smartfòn dice che quello che vedo scorrere a pochi passi da me è il lambro. è un rigagnolo incementato, stretto quanto una corsia di una strada nemmeno troppo importante. ad occhio e croce non mi torna. il lambro sta verso est. qui siamo verso ovest. navigli a parte qualcosa non va.

però so di essere arrivato, lì all'angolo, dall'altra parte del rigagnolo incementato, che scorre verso est, da ovest che proviene. ho acceso l'applicazione mappe e mi guardo lo smartfòn per pura formalità: so dove mi trovo - nome del rigagnolo a parte - e so abbastanza dove dovrei andare. e quindi forse lo tengo in mano per riflesso condizionato, una specie di coperta di linus ex-ante. perché ora che sono arrivato devo pur entrare in questo posto che pensavo al chiuso, invece è un giardino all'aperto. scopro che lì c'era una discarica a cielo aperto, ed invece hanno riconquistato il verde che c'era sotto la discarica. e quindi leggo l'elenco delle piantumazioni, delle florodiversità. leggo tutto in una bella mappa da progettazione di giardini, scala uno a qualche-centinaia. lì accanto scorre l'olona, c'è scritto per inquadrare nella toponomastica circostanziata quel fazzolettone di verde. ecco. appunto. che sia l'olona mi torna, decisamente. continua ad essere un rigagnolo incementato, ma in quel disegno pare abbia tutt'altra dignità.

ecco. sì. i cartelli appesi, delicatamente, tra un albero e l'altro li ho letti. ora bisognerà aspettare che inizino a suonare. perché non so mica bene perché sono arrivato lì. c'era un invito ad un evento feisbuch cui sono stato invitato dalla cuggggggina. e per la seconda volta in due giorni vorrei farle la sorpresa. ed arrivare senza dirle nulla. e per la seconda volta in due giorni lei non c'è. e questa volta non risponde neppure al messaggino uotsappinico. quindi sono solo, senza sapere bene perché. o meglio: a dirla tutta trovo una sottilissima soddisfazione. sono uscito di casa senza nemmeno una titubanza. senza sincerarmi di nulla tranne dell'indirizzo e dell'orario. senza nessuna considerazioni a margine di quello che avrei potuto fare altrimenti, delle altre persone che avrei potuto invitare. ma che ovviamente non avrei invitato.

quindi son solo.

anche senza scorrere le notifiche di feisbuch mi pare che tutti gli altri siano serenamente soddisfatti, e lì a passare in compagnia una serata. io mi sento estraneo. e solo poco perché non conosco nessuno. ed è comunque abbastanza buio per non riconoscere di vista qualcuno, posto che ci sia. mi sento estraneo perché mi sembrano tutte persone che - mi son fissato - fanno cose e gli riescono, cose che sento oltremodo inattuabili per me. non c'è più nemmeno il senso di inferiorità. non c'è mai stata invidia. è proprio un senso di alterità. loro sono quelli delle istanze che sono negate a me [o mi sono negato]. tutto molto serenamente. tanto che non mi sento financo nemmeno troppo a disagio. come se tutti sapessero più o meno qual è, se non il senso, la propria condizione, e la vivessero senza particolare preoccupazione. a me spetta quella un po' solinga, ontologicamente. non butto nemmeno l'occhio alle fanciulle. tanto non sono in grado di costruire un rapporto. figurarsi mantenerlo, in senso ampio. e so che le luisnghe della fase lisergica è solo un espediente. perché passa, come le farfalline nello stomaco. e quindi c'è l'incomprensibile quotidianità: questa è la mia condizione. ma ormai mi trovo a mio agio nella mia alterità percepità, tanto che potrei esser scambiato per uno di loro. di quelli degli altri, con una vita dove riescono quelle cose lì, "normali". dove per normale bisogna intenderla con tanto, tanto, tanto, tanto rispetto. è vero son lì da solo, che giocherello col bicchiere di plastica che prima c'era dentro del vino bianco. un'altra piccola coperta di linus. ma forse non sono nemmeno l'unico, lì solo. devono esserci alcune signore, verosimilmente oltre che coeve di matreme.

poi inizia la musica.

e tutto trascolora. perché ne vengo assorbito. anche se ovviamente non ballo, e farlo su alcuni brani di pizzica è una specie di evento contro-naturale. e quindi ascolto. ascolto, provo immergermi e sintonizzarmi con il trasporto armonico-ritmico che stanno ammaestrando a seguirlo quelli sul palco. mi colpisce la vibranonista dell'altro gruppo, quello che osa delle belle sintesi sincritche tra musica popolare meridionale [d'italia] e sonorità e modi di quella della madre africa [centro, centralissima, quella nera, da dove un po' veniamo tutti. razzistixenofobidimmmmmerda compresi]. è il gruppo che osa. la vibravonista esegue e suona, dalle retrovie, peraltro: non so quanto osi lei, però saranno i capelli un po' ricci, e non fa nulla se non è proprio giovanegiovanissima. tanto posso solo osservarla con il distacco rassegnato della mia alterità. scoprirò più tardi che probabilmente la cugggggina la conosce. perché è tutto un grosso paesone questo qui, in questi contesti.

ecco. per fortuna che c'è stata la musica. forse è per quello che ci sono andato. per ascoltarla, con involontario richiamo dell'esecuzioni dal vero. e a dirla tutta il post voleva essere sui pensieri guardando quelli che suonavano. poi è uscito diverso, il post. più o meno come tutto quello che pensavo dovesse venire in questo punto di questa situazione, dove alla fine vivo, con la serena rassegnazione, questa condizione di alterità.

stop.

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