Thursday, October 30, 2014

volevo scrivere un post sulla terza via. però ne ho appena letto uno simile. quindi scrivo dei nei.

la terza via era qualcosa che avevo vagamente e nebuolosamente in testa da quando ho scritto l'ultimo post. [poi la manifestazione l'ho seguita per radio. e faticavo a non percepirne l'afflato emotivo e  simbolico. ma è un altro discorso.].

resta il fatto che io non mi sento tanto rappresentato dalla camusso. così come non mi sento rappresentato da renzi.

e al netto della mia sociopatia, o snobbismo morettiano, o tafazismo catoblepico, o civatianismo vestigiale, ci sono dentro un po' di cose.

tipo.

in questi tempi, ci sarebbe bisogno di quante più istanze construens possibili: invece che lo screditamento reciproco, gli slogan idioti che aizzano le pance, e affumicano il ragionamento. che la necessità di costruire cose nuove è altrettanto importante che tenere la barra dritta su alcuni diritti: che non sono quelli a zavorrare questo paese, e che - soprattuttamente - non sono concessioni, perché altrimenti cesserebbero di essere diritti. e sarebbe un vulnus pericoloso.
che nel contempo si sono difese situazioni piuttosto indifendibili - perché essere un lavoratore non evita il fatto di essere anche emerita teste di cazzo - e che il nuovo non è automaticamente il meglio - però non basta chiamare imprenditori gli imprenditori, acciocché questo impedisca loro di essere di essere cinici o avidi padroni, o speculatori merdosissimi.
che alcune istanze che permetterebbero a questo paese pezzottatissimo di  progredire, sono idee di un paio di secoli fa.

che coll'aifòn si ha solo la possibilità di far cose fichissime, ma mica è detto che poi riescano così fiche: perché possono anche sminchiarsi le sinapsi a chendicrassshhh o comunicare con la persona che accanto con uotsapp. e che i paradossi sono parte della vita di ciascuno. così se un telefono pubblico - colla monetina - ti permette di chiamare il 118, che l'aifòn ti si è sminchiato quando ti sei cappottato, allora capisci perché la rete fissa è asset di una nazione.

[in effetti poi il post mi è venuto diverso. perché non parlo di nei. quelli del viso, soprattutto. cioè: volevo parlare dei nei sulla faccia. però se ne parlo in questo post poi viene troppo lungo. e allora lo scriverò poscia. sulla storia dei nei, intendo, e della mia ossessione contra a riguardo].

Saturday, October 25, 2014

la manifestazione del sindacato alla leopolda

la sinistra spaccata, anche dal punto di vista geografico, topologico.

che faccio? dove vado?

a firenze alla stazione leopolda? oppure me ne vo' a roma alla manifestatia singolaconfederata?

e pensare che a tratti starei da una parte, e forse anche dall'altra. a tratti, ovvio. 'ché avrei parecchie cose da dire, o meglio criticare, ad entrambi. che poi non le scrivo, anche per la solita storia che in fondo non interessano quasi neppure più nemmeno me. o non paiono così interessanti.

o forse c'è pure il fatto che è sempre più difficile trovare un posto dove poggiare, figurativamente, il culo. o picchiare la testa.

perché il cielo, o quella cosa lì, sa quanto mi piacerebbe vedere cambiare le cose. ma non sono così convinto basti annunciare di voler cambiare, acciocché sia necessariamente per il meglio.

perché difendere i diritti dei lavoratori è cosa sacrosanta. è che se non stai dietro come cambia il mondo, e quindi anche il lavoro, poi di lavoratori, ne difenderai sempre di meno. e peggio: anche perché non si sentiranno quasi più rappresentati.

perché alcuni dei nuovi paradigmi non mi convincono. perché la necessità dell'uomo solo carismatico al comando è qualcosa che mi irrita antropologicamente. e la parola partito, significa scelta. e il partito della nazione è una contraddizione in termini, oltre che idea proprio per un cazzo nuova. e a me piace scegliere, in taluni ambiti.

perché nell'istanza, sacrosanta, di tutelare chi lavora, è una confusione esiziale porsi pavlovianamente dalla parte di quello che non è il padrone. perché il mondo è molto vario, e quindi anche i lavoratori. e ci sono quelli che subiscono ingiustizie dal padrone, e chi fa i cazzi suoi alle spalle del datore di lavoro. e il discernimento, soprattutto in periodi di vacche molto magre, diventa essenziale.

perché se questo paese merita di fallire, fatico a non vederci nessun nesso causale tra la classe dirigente - tutta- che ha portato questo paese sul bordo del precipizio. e quindi è fondamentale cambiarla. e come sarebbe altrettanto vitale cambiare i comportamenti. ma se non la si cambia nel profondo, o nelle cose che sfuggono ai tweet dell'acclamazione, o parte della nuova classe dirigente sono talune mediaticamente belle presenze, e poco più: allora il precipizio rimane lì, qualche passo oltre. e chissà che farà il sacco di gente, fiumana rapita, qualche passo indietro [cit. makkox]

perchè se questo paese fallisce, pur meritandolo, poi ci sono gli ultimi che ne vanno fottutamente di mezzo. e per questo è meglio non fallisca. e se non è ancora fallito, però falliscono aziende, imprese. e dove non falliscono imprese ci sono imprenditori che fanno i furbi. perché esser furbo è degli uomini: lavoratori/collaborari o padroni/responsabili che siano. ma se sono quelli che comandano a far i furbi il riverbero è ancora peggio. e può capitare che sacco di lavoratori rimangono col culo per terra, qualcuno che porti avanti lo loro istanze è cosa buona ci sia.

domani non so dove andare. nel senso che farei molta fatica a stare a firenze, e mi spiace. così come farei fatica a starmene a roma, e mi spiace molto. perchè se è la sinistra che si divide, io mi sento ancora più diviso [e forse inutile] poiché proprio di sinistra mi sento. nel senso di partito, che ho scelto, o mi ci sono ritrovato.

farò qualcos'altro. non vado da nessuna delle due parti. ci sono quelli ancora più ultimi. o ci sarà pure un qualche diritto, sacrosanto, per cui metterci la faccia, gambe, presenza. ecco, proverò far quello. è simbolico quanto piccolo. però, piccolo più piccoli...

Tuesday, October 21, 2014

che cos'è la psicanalisi, e sticazzi. [e cronaca di una seduta destabilizzante]

ho testé finito un libercolo. si intitola "che cos'è la psicanalisi", di pier dacò, psicanalista di fama mondiale mi racconta la quarta di copertina.

l'avevo intravisto nella vetrinetta della biblioteca dell'hometown, sezione saggi. stavo registrando la mia dose compulsiva di prestiti, più overdosica del solito: dovevo partir per la vacanza sicula, pensavo avrei letto molto. - fermo lì - ho intimato al mio spacciatore di fiducia - piglio anche questo, anche se in copertina ci sta freud e non jung - . sguardo perplesso dell'amico bibliotecario.

naturalmente ho cominciato a leggerlo con avidità. anche se con sentimenti contrapposti, anzi diciamolo: zeligghianamente schizofrenici. già perché io divento un po' zelig quando fruisco i libri. mi immedesimo esistenzialmente nella cifra stilistica-evocativa dell'autore. il fatto è che coi romanzi la cosa funziona in un certo modo. sui saggi in un altro. sui saggi in ambito psicologicoEtAlter è un gran casino. e quindi a 'sto giro ero quello che contemporaneamente:
  • si sentiva addosso tutte le nevrosi che leggevo raccontare;
  • inspirava l'odore d'ambrosia del paziente che scopre la sua personalità e libera le energie psichiche;
  • partecipava in distaccata e commossa emozione ad ammirare l'aura dell'analista, ruolo complicatissimo, tremendissimo e altissimo allo stesso tempo.
poi per fortuna ogni tanto tornavo nella vita reale, ricordando la mia congiuntura strutturale, scetticamente fiduciosa e nel contempo psicopipponicaappppallla [e non sarà schizofrenia, però...]
  • da una parte non avevo ben chiaro cosa avrei potuto trovarci di così epifanico, anzi;
  • dall'altra [piuttosto che] cercavo il grimaldello che avrebbe potuto aprirmi lo scrigno di quel che stavo facendo, nel mio piccolo, con odg ed il percorso analitico con lei.
e quindi è stato un susseguirsi di letture intervallate da momenti di una cosa che può approssimar bene la riflessione. poi, il mare, la vacatio, il caldo coccolante, l'idea di una cena con un qualche manicaretto pescioso ha fatto il resto. naturalmente ho continuato a pensare a che punto fossi nella mia analisi, dei punti da sbloccare, e quel che ne sarebbe venuto.

e poi c'è stata la seduta. quella vera. quella dove mi son messo sulla mia sediolina, e non il classico ed iconografico lettino. ed odg non stava alle mie spalle acciocché io non potessi coglierne le reazioni [l'analista è apparentemente neutro, e non deve farsi travolgere dall'impeto emozionale del paziente, né tanto meno darne evidenza, per questo se ne sta alle spalle], bensì di fronte e me, con la scrivania importante di legno lavorato, come sempre. e difatti quando ho cominciato e le ho detto: "sto leggendo un libro, l'ho intravisto nella vetrinetta della biblioteca dell'hometown, sezione saggi. stavo registrando la mia dose compulsiva di prestiti, più overdosica del solito: dovevo partir per la vacanza sicula, pensavo avrei letto molto. - ferma lì - ho intimato al mio spacciatore di fiducia - piglio anche questo, anche se in copertina ci sta freud e non jung - . sguardo perplesso dell'amico bibliotecario" [[auto]cit]... ecco, lei ha inequivocabilmente fatto una faccia da "occcazzzo, ti sei lasciato abbindolare di nuovo. ci sei cascato come una pera cotta che cade dall'albero". d'altro canto se lei ce l'ho davanti, mica alle spalle, le reazioni le colgo. e penso per ragione della mia componente femminile elevata ["al di qua dell'eterosessualità" ho sempre affermato "avrò mica una omosessualità latente?" ho pensato durante la lettura] certe cose mi appaiono chiare, chiarissime. e forse ella stessa, odg dico, si fa carico di nascondere le sue reazioni, ma fino ad un certo punto.

e difatti la prima cosa che ha sottolineato è stata una mia sottolineatura. io non sto facendo psicanalisi, ma della psicoterapia. la psicanalisi è altra roba. a partire dal fatto ci vada ogni quindici giorni. e non almeno due volte la settimana: cazzo pretendi? [parentesi 1: non ha detto esattamente "cazzo, pretendi", però la sensazione del "ciccio, quella è roba diversa, io faccio altro" me la son sentita addosso, per quanto forse legata ad una mia difficoltà a far certe figure un po' barbine, unitamente la mia ossessione perfezionistica. parentesi 2: ecco perché in quel libro non emergesse mai la difficoltà, da parte dei racconti dei pazienti, ad affrontar la spesa dell'analista, che invece io sento eccome. e per forza, in analisi ci va chi è ricco, e ha un sacco di tempo a disposizione. io ho solo quest'ultimo, mentre posso andarci, appunto, ogni quindici giorni, di più diventerebbe oltremodo oneroso]. dopo tutti questi millemila mesi insomma è confortante aver le idee così chiare: lo sto dicendo con amara ironia, se non si era colto. e poi lei ha proseguito, altre considerazioni di grande buon senso sulla mia congiuntura che s'innesta in qualcosa di decisamente più pragmatico, fattuale, legato all'agire, al mettersi in gioco. qualcosa che pareva essere il punto nodale su cui lavorare: il mio sentirmi bloccato a non capire che cazzo far della mia vita, a valle di questa specie di sferragliante disastro aziendalino mio. mentre io pensavo fosse quello che invece bloccava il lavoro psicanaliticocheinrealtàerapsicoterapico.

a dire il vero non ha detto esattamente così. ma d'altro canto non è il caso riporti precisamente cosa accade in uno studio, al terzo piano di un palazzo, ad una cinquantina di metri da casa mia.

però il succo, concentrato, è stato un po' quello: smetti di farti le psicopippe. delle pippe senza psico non parleremo probabilmente mai, perché non è questo il punto. si tratta di scendere pragmaticamente al livello della strada delle cose che bisogna fare. insomma, un meno suggestivo muovere il culo. e sentirsi dare dello rococochissimo psicopipponico dalla propria terapista di scuola psicodinamica son soddisfazioni per nulla da ridere [senza dimentiacare il fatto sia terapista, mica analista: coglioncello [il coglioncello è mio, ovvio. un po' di sarcastica reprimena. che il sarcasmo è sopportabile, se non è fatto con cattiveria]].

è stata una seduta complicata. tanto  che la testa ha riverberato per un bel po'. la sera mi sono stordito a birra e saccottino con dentro lo spinacio. perché ho percepito una sensazione di spingimento al bordo. come se fossi giunto ad una specie di estremale, e più in là non si potesse andare. che quel che si poteva fare si è fatto. ed ora sono istanze pragmatiche che devo sbrigarmi io. e che la psicopippa, con la suggestione dei miti e degli archetipi junghiani, serve solo a dilazionar il tempo e il momento della scelta. e che però mi sparo addosso come falso bersaglio, oppure ottimo diversivo. forse sono giunto, veramente, ad un punto importante: da cui non c'è insconcio con rimozioni e nevrosi conseguenti che tengano. non ci interessano più: ora si gioca su di un altro campo di gioco. dev'esser questo che mi ha fatto stringere - figurativamente - il buco del culo dallo spavento.

il fatto è che ci sono arrivato con l'ennesima psicopippa, esalata in un logorroico post, a fronte di un libro che - dopo quella seduta, ça va sans dire - ho finito con un distacco un po' annoiato, roba da inversione ad U su strada con doppia linea continua. e allora vuoi dire che quel cazzo di libercolo qualcosa di epifanico, seppure in maniera sui generis e in collaborazione con odg ed una succosa fattura a fine seduta, ha prodotto?...

Thursday, October 9, 2014

il compleanno di enzo [anche se è tecnicamente non fattibile]

mattina. stavo andando a roma da ostia, sul trenino dei pendolari di fine agosto. leggevo "la nauesa" di sartre. la sera prima avevo avuto una mezza discussione pre-teologica per giustificare il mio agnosticismo. la cosa più sgradevole era che mi ci aveva trascinato con poco garbo da ospitante il mio ospite, per pura coincidenza anche vice questore a roma, nonché con quel fare paternamente ieratico verso i figli, financo un po' sottomessi: era uno di questi ad avermi invitato. mi cavò dall'impiccio e dall'imbarazzo che si era creato la moglie, che gli confermò che agnostico è colui che non ha la gnosi: quindi, nell'esprimere le mie non-risposte alle mie domande, non stavo canzonando il loro credere.

era il 2004. l'ultimo anno compiutamente sereno. solo che ovviamente non lo sapevo, allora. anche perché ovviamente mi sentivo non realizzato e comunque giaculavo. non lo sapevo cosa potesse venire dopo. poi l'ho scoperto. ora giaculo, ma con più cognizione di causa, e quindi più serenamente.

era quel mattino, ed il passeggero davanti a me aprì il giornale. mi si spalancò la prima pagina. così seppi che enzo baldoni era morto. mi ricordo la frustrata che provai. perché era stato tutto così veloce, il rapimento solo pochi giorni prima, i tentativi per capire come interloquire coi rapitori. naturalmente lo conoscevo appena e quel poco che sapevo lo avevo appreso dalle notizie dopo il suo sequestro. però, il solo vederlo in foto, mi aveva colpito. il suo essere omone, che ispirava la sensazione dovesse essere nient'altro che placidamente buono. il suo viso il capello riccio, il pizzetto, l'occhialetto tondo. mi ispirava simpatia a prescindere. e poi [mi è tornato alla mente da poco] quelli di libero lo dileggiavano "cazzo ci vai a fare, giù là, che se ti rapiscono poi è il tuo paese che deve cavarti fuori dai guai". ci si può scoprir empatici anche nella reazione di chi lo sbeffeggiava, con la melma della trivia vulgata di quell'ammasso di banalità a mezzo stampa.

scriveva per linus, per il manifesto, per repubblica, per diario, era un creativo. in una delle foto che erano state pubblicate allora era con la pettorina della crocerossa. non credo volesse cambiar il mondo. semplicemente provava a viversi con intelligente e creativa cazzaraggine la sua vita. e forse gli riusciva pure di mettere il suo contributo, in miglionesimi, acciocché si realizzasse l'articolo 11 della Costituzione.

sono passati poco più di dieci anni. ed oggi è il suo compleanno. tecnicamente - mi hanno fatto notare con escatologica puntigliosità - non si può festeggiare il compleanno di un morto. però si è fatto festa ugualmente. quindi non trascurando che poteva essere immortale, ci deve essere stato un qualche errore del Creatore è successo anche a lui di morire, e non so come può essere definta questa serata al teatro dal verme. teatro peraltro, accidenti, pieno fin su in cima in piccionaia. all'ingresso gente che suonava e ritmava copiosamente. un sacco di gente in fila fuori per entrare, che ti vien da pensare che milano non è necessariamente una città di merda [non è mia, cit.].

e poi la musica. anzi no. prima della musica il discorso che però non era un discorso, ma qualcosa tipo le idee e le emozioni che fluivano. gli dedicheranno uno spazio qui a milano - ho firmato pur io, tze - che è un modo per perpetrare quel vizio che si chiama memoria. ma già memoria è una parola troppo retorica, almeno questa sera. e visto che di retorica non ne ho sentita, io che peraltro ne odoro il puzzo da lontano, non vorrei iniziare proprio qui, tra un refsuo e l'altro [resfuo sta per refuso, quindi è esso stesso un refuso. anche se prima avevo scritto refsuo, quindi refuso sul refuso, e non so se è un bi-refuso, o un refuso al quadrato, dubito che si annullino. forse è un meta-refuso]. e quindi [dopo aver ucciso la leggibilità con la parentesi quadra precedente, e pure questa] invece di memoria mi è venuta una cosa che si potrebbe dire verigudvaibrescion.

però di musica ce n'è stata parecchia. a cominciare da tale alessio lega. che ovviamente non conoscevo fino a ieri mattina. quando, alla radio, mi son trovato ad ascoltare una canzocina interessante. talmente interesante che ho appizzato shazam, e gli ho chiesto di dirmi che canzone fosse. ma mentre shazam sciazzzammmannava, la voce un po' nasale della silvia giacomini durante localmente mosso si è frapposta. e shazam mi ha detto che non aveva riconosciuto la canzone. io mi sono un po' microstizzito e microalterato, pescando un briciolo di aggressività da una delle mie nevrosi. per fortuna la silvia giacomini aveva giustappunto incominciato a parlare dell'evento di 'sta sera. e della festa di compleanno. o di quella cosa lì, perché non si può festeggiare un morto. anche se poi alla fine la festa l'abbiamo fatta lo stesso. poi la silvia giacomini ha rimediato con una sciazzammanata old style, dicendo di chi fosse e come si intitolasse quella canzone. per gli annali di questo blogghettino: zolletta.

già, la musica. come peraltro ci si aspetterebbe per non retoricizzare la verigudvaibrescion, in un teatro a far festa. c'era il coro del canto sospeso ed il gemello brasiliano luther king. che ha cantato da brivido, anche se non avevo ancora scoperto che la moglie dell'omone di cui sopra ci cantava dentro. e mi ha emozionato e brividato 'sta cosa. ma a me, agli altri e le loro vaibrescion non saprei. così come suonava il figlio dell'omone qui sopra, la fisa. ma questo lo sapevo già, perché c'era lui a parlare con la silvia giacomini per radio ieri mattina. ed io avevo pensato che deve essere stato un bel giro placidamente lisergico aver un padre del genere. anche se io dovrei scoprire meglio le cose belle di aver avuto il mio.

della musica l'ho già scritto vero? sì. insomma. e non parlare poi di quel cantante dell'africa sud occidentale, e la sua bend che tanto picchiava su strumenti a percussione e a corde. un po' troppo riverbero nel microfono, ma una gran cazzo di voce, penetrante, avvolgente, archetipa: non ti serve il riverbero, riesci da solo a vibrar da solo con la tua musica e creare pure tu gran belle verigudvaibrescion. senza dire di come, tolto il riverbero, con il suo italiano francesizzato e ironia transnazionale si è preso per il culo come africano e ha preso per il culo gli europei. l'autoironia unisce i popoli, e ci si prende meno sul serio: abbiamo tutti da guadagnarci.

insomma. gran bella serata. dove ovviamente sono andato da solo, con le mie giaculatorie con cognizione di causa. però poi lì dentro è stato molto più semplice farsi travolgere dalle note, dalle musiche, dai sincretismi degli stili e delle improvvisazioni, dalla profondità della leggerezza che è emersa quando la lella costa leggeva pezzi di cose scritte da lui. insomma. bello, niente lacrime, ma sorrisi, di quelli che vengono dal di dentro più intimo e profondo.

non si può festeggiare il compleanno di uno morto. infatti si è fatto molto di più. un sacco di verigudvaibrescion che sono volate, alte.

[e tra il foscoliano cazzaro e il de andreiano rivisto, e per non prendersi troppo sul serio, ho financo trovato quello che scrisse relativamente il suo funerale. che uno può anche andarsene e lasciar che si spargano le sue ceneri. ma poi contano le verigudvaibrescion. me ne voglio - tra l'altro - portar dietro qualcuna, acciocché verigudvaibrescino per un po', anche quando potrebbe sembrare di no]

Sunday, October 5, 2014

i limiti dei continenti - isolette escluse, i bias[es], il ricciolo furtivo, il mal d'africa [non necessariamente in quest'ordine]

[comunque c'erano un sacco di refusi, forse ero più stanco del solito, o forse un po' confuso. posto che probabilmente ce ne saranno ancora]

la cosa che mi faceva sorridere è che l'amico itsoh un giorno mi scrisse di aver un certo bias verso i siciliani. la cosa curiosa è che me lo scriveva quasi per giustificarsi di un fascino che subiva nonostante mi parlasse di una [fascinossissima, pure lei riccioluta, nivura] ragazza siciliana, prima che pianista decisamente in gamba.

ecco. oltre al ricordo dell'esame di elettronica II, e la controreazione degli amplificatori operazionali, mi piacque quel averci del bias. e quindi me lo segnai. anche per ricordarsi che un nome si porta appresso varie decinazioni di significati.

il fatto è che io il bias, per ragioni contingenti, ce l'ho verso la calabria e il napoletano, intesa come zona. quanto meno mi è scattato recentemente. non che ne vada fiero, ovvio. però non posso negare di sentirmene coinvolto. anzi, penso sia una reazione normale, quanto meno non alimentata da una delle nevrosi che mi porto appresso. anzi: proprio perché qualcuna comincia a sciogliersi, di nevrosi. però sorridevo al fatto che i bias del mio inspiratore biasifero, come modo di dire, ce "l'avesse" coi siciliani. mentre io, laggiù, in sicilia, coi siciliani, mi ci sento molto bene.

non penso sia solo una questione di nomi, come quello di battesimo intendo. una roba da nome- omen. però mi ha fatto un certo effetto entrare in quella basilica. per quanto quel santo, illustre omomino protettore della città e co-protettore della diocesi [mi dissero orgogliosamente], si chiamasse di cognome confalonieri. per quanto da agnostico convinto dovrei un po' fottermene di queste credenze apotropaico-nominative. per quanto la capitale mondiale del barocco, boh, tanto 'st'effetto non mi ha fatto. contrariamente ad altri posti là intorno. e per quanto alcuni si siano addirittura stupiti nel sapere come mi chiamassi. e che mi chiamassi così pur venendo da posti decisamente più antipodali, da così dal nnnnorde. pur essendomi - irrazionalmente, oneiristicamente, a gocce di nebulizzione - di quelle parti.

che poi dici sicilia, e dici un piccolo coacervo di cose. esattamente come se io con uno di ivrea, figurarsi di novi ligure, c'entrassi qualcosa da - tecnicamente - piemontese. a proposito di piemontesi c'è una toponomastica molto risorgimentale, probabilmente più che qui al nnnnorde. e questo potrebbe anche confermare parte della tesi dell'amico luca, che mi ha regalato questa vacanza, con la generosità che gli è propria: proponendo senza insistere per evitare che mi facessi danno in autodafè, rifiutandola. amico luca che non ho voluto contraddire o [almeno] confrontarmi con lui in alcune sue risolute, decise, considerazioni. probabilmente per via di altre nevrosi: che si staranno pure sciogliendo, ma ci vuol tempo.

nel mentre ci siamo visti il sud, che più a sud non si può andare della sicilia, e quindi dell'italia, e quindi dell'europa. a meno non andar sull'isolette, ma sono altri percorsi quelli. siamo finiti più a sud di tunisi, ad un passo dall'isoletta dove più in giù non si può andare. godendo appieno, lui ed io, del concetto di limite di un continente. concetto che il guccio ricama bene usandolo compiutamente verso l'ovest nella sua bambina portoghese. noi ce la siamo sintetizzata andando al suddddde, isolette escluse. il limite - geografico - si porta l'eco di un qualcosa che dà l'effetto del segnar il margine. che per certi versi è rassicurante: perché delinea il perimetro. e quindi si ha l'impressione di poter provar a intuire quel che c'è dentro, perché almeno è stato definito il bordo. e quindi il dentro e il fuori. per quanto, dal mio punto di vista, è illusione che dura poco. perché le terre, coi loro bordi, sono solo il punto d'appoggio delle genti. e quindi quel concetto di perimetro si sminchia. non fosse solo per il fatto che l'uomo e i popoli, dacché son uomini, si spostano. e quindi saremo pure arrivati là, al limite di un continente. ma lì sono arrivati uomini da altri limiti, altri continenti. e quindi l'illusione vien giù facile e affascinante come scorre l'acqua di un mare un po' incazzoso sugli scogli. lo scoglio è pericoloso per la navigazione, ma l'acqua gli si scivola attorno. anche al limite del continente.

[semo tutti migranti, in quanto humankind]

[e, beffardo, poi risuona nell'orecchio pure l'altra di citazione: che quando fu davanti al mare si sentì un coglione, perché più in là [più giù] non si poteva conquistare niente.]


si sono visti posti meravigliosi, calati in realtà poco pregne delle proprie potenzialità. la questione meridionale, immensa, complicatissima, ganglio infiammato e sclerotizzato di una nazione - qualsiasi cosa significhi il termine nazione - la riconosci da piccole cose così, da una specie di cappa che non riesci ad evitare di percepire. magari è una cosa spocchiosa e saccente. quelle cose da piemontese che si cala dai paesi con la nebbia e il freddo, e pretende di  capire qualcosa che si è stratificato in millenni ma che è stato azzoppato negli ultimi venti decenni. e che si pensa di averlo chiaro traversando le due province più a sud d'europa. ma la cosa che mi fa ancora più strano, ogni volta che ci torno giù, è quello che accade dopo la straneità iniziale. quella diversità si mitiga, si scioglie, si riverbera in quel che è lì. non che non mi diano fastidio alcune cose che sento più lontane. però poi, almeno io, mi sento in un qualcosa che sento sempre più coinvolgente, e che sento accogliermi. forse è il sole che scalda la pelle. che poi è lo stesso sole che c'è ovunque. forse il colore del mare, e di come il territorio declini dentro di questo. o il terreno brullo ed incazzoso, dove però "bastano due gocce d'acqua, e la natura sa regalarti frutti e fiori di un colore dalla bellezza insolente" [cit.].

[lo stagliamento dell'amico luca, verso altri limiti di altri continenti]

in realtà ci sono andato perché il regalo me l'ha fatto l'amico luca, ma l'amica liude ha avuto forse una parte ancora più importante. è stato bello conoscere il suo mondo, parte della sua terra, l'esuberanza variopinta e caleidoscopica dei suoi "parenti, ma quelli più stretti". mi ha spiegato, per quanto fossi già meravigliato e spiazzato, il concetto di parente, figurasi quelli più stretti. che io li conto sulle dita di un paio di mani. lei ci ha riempito metà della sala dei ricevimenti del matrimonio. non il suo, ma della sorella. anche quello è stato un bel calembour antropologico. e non solo per gli scout che hanno cantato metà della messa, canzoni che avrei potuto ancora suonare a memoria, nonostante l'età e l'agnosticismo [avrei financo paio di cose da dire al tamburellista, ma son dettagli]. l'altra metà delle canzoni erano roba loro, degli scout, dico: metriche dei versi un po' spericolate comprese. quando, in chiesa, mentre eseguivano quelle canzoni, mi son girato ho visto cantare a macchie di leopardo: ecco come riconoscerli, gli scout. e cantava pure la riccolina che avevo notato piuttosto in fretta. è un buon modo per non farsi coinvolgere emotivamente dal resto del matrimonio: fissare una riccolina che quindi si scopre essere, o esser stata, una scout [che peraltro idiosincrosizzavo già quando ero un bravo et convinto parrinaro-oratoriano]. e per quanto non fossi lì propriamente per guardare le fanciulle agghindate da matrimonio. non so se è stato il ricciolo, l'efelidi sulle spalle, o il fatto fosse agghindata in maniera più elegantemente sobria della media. nonostante fosse [ex?] scout, nonostante se ne stia oggettivamente oltre la mezz'ora di metropolitana che mi sono dato come orizzonte, e soprattutto nonostante la mia congiutural-nevrotica incapacità solo ad immaginare una storia con una fanciulla, mi son divertito financo a rubarle un paio di scatti, nel mentre ne rubavo altri: soprattutto fotografando i fotografi che - in quattro - fotografano gli sposi. come evidente necessità di andar oltre le mie nevrosi mi ero pure messo in testa di andare a dirglielo: guarda, ti ho rubato un paio di scatti, ma la fotocamera non è mia, quindi nemmeno le foto. farlo giusto per prendermi il rischio di farmi coprire di ridicolo e sorriderci sopra. ovviamente non l'ho fatto: ma a 'sto giro non solo per inedia pusillanime, cioè, un po' sì, ma non del tutto. ovviamente  ho poi scoperto esser piuttosto giovane [roba che io avevo già iniziato a sentirmi molto sfigato, quando lei urlava i primi vagiti], piuttosto scout, nonché piuttosto fidanzata. tutto sotto controllo, insomma. per quanto, probabilmente, ho fatto un qualche torto alla sposa. che era la sua giornata, mentre io guardavo una sua amica. anche non penso me ne vorrà. è il mood un po' giocoso-dopaminico che s'è creato - anche - grazie a loro. mi è servito a ricordarmi che ho le emozioni non del tutto sminchiate. funzioneranno anche quando sarò meno incapace, o mi sentirò meno incapace. e financo quando sarà dentro la mezz'ora di metropolitana.

[visto che poi è il giorno della sposa]

sono ripartito con una specie di mal d'africa. che non ho avuto modo di godermi appieno. forse perché sono mesi che sono in vacatio, ed ho voglia di ricominciare: vuoi magari vedere che ci son pure le condizioni per? forse perché pure questo passaggio al limite di un continente è, appunto, un passaggio. e sarebbe faico ripartire [anche] da lì. dal limite, intendo.