Wednesday, September 30, 2015

il tributo bimestrale al senso di percezione merdosa là dentro

oggi è stata una pessima giornata, proprio nel mezzo della testing-week.

è successo quel che mi aspettavo succedesse, ad un certo punto.

la notizia buona è che, nei primissimi momenti, ho reagito bene: con atarassica resilienza.

la notizia cattiva è che, post i primissimi momenti, la frustrazione, il senso di pieno, la nausea e la tentazione di mollar tutto si è fatta largo. e mi ha travolto. col cazzo resilienza.

ed ora sono marosi interiori. seppur piccole fluttuazioni quantiche, negli oceani siderali delle ingiustizie e tristezze che l'umanità esperisce.

c'è la nevrosi di non riuscir a far le cose come vorrei. c'è la percezione della pochezza [frustrata] di alcuni interlocutori. c'è il senso di straniamento per un qualcosa che vorrei lasciar dietro un angolo, per sempre. non solo lavorativamente.

sono stato colto da piccoli conati d'anzia. avrei voluto comunicare a voce tutto questo a qualcuno. la classica voce amica, per provar a riscaldar l'animo inquieto in sommovimenti spastici. avrei voluto sentir financo matreme, ma non è il caso la carichi di alcunché.

non ho chiamato nessuno, ovviamente. per rimuginar la solitudine. né per non disturbare [questa, peraltro, l'ho sentita giusto poche ore fa, con tanto di rimbrotto - affettuoso - da parte mia: come non siamo reciproci, a volte. illuminati a consigliar gli altri, pessimi razzolatori verso se medesimi].

cercherò di scioglier qualche lacciuolo con la realtà opprimente della serata con una birra. che sta giustappunto raffreddandosi nel freezer. nel mentre posto l'ennesimo post giaculante, senza distrazioni alcolemiche alcune. in fondo l'aspetto auto-terapico dello scrivere è dovuto al fatto ci si riesca a porre e a porsi. quello che ho percepito misconosciuto, nella melma generale, in questa giornata di metà testing-week.

vado a cenare. con la birra. avrei voglia di un abbraccio e di abbozzi di consolazioni. altresì impugnerò la lattina di una doppio malto scadente. e qualche pagina di libro.

fanculo.

Sunday, September 27, 2015

queste specie di re-inizi alla fine di settembre

due anni fa come in questi giorni si chiudeva l'ufficio. l'ultimo giorno che vi ci andai a recuperar alcune delle mie cose mi sentii pervadere da una specie di gioia. una cosa tipo liberazione. quelle piccole epifanie lungo viale legioni romane. sentivo che si chiudeva un qualcosa di poco positivo. però ero financo vicino ad un concetto di felicità. ricordo che volli condividere quel momento con l'amico luca, mentre guardavo calar il sole, per l'ultima volta, in quella fottuta e claustrofobica stanzetta. c'era qualcosa di struggente, di fuggevole: come la luce che imporporava il palazzo di fronte. me ne andavo da quel posto. ero un poco più libero. non avevo ancora realizzato del tutto quanto gli altri fossero due zavorre. non che non me l'avessero già suggerito, o suggestionato. anzi, ne era nata pure un'assurda discussione. assurda per il fatto che ora la cosa mi appaia così acclarata. ognuno ha un po' i suoi tempi.

comunque. chiudavamo l'ufficio ed io intuii che qualcosa di importante era successo. e che avrei potuto fare un sacco di altre cose, nel mentre portavo avanti la baracca e la sempre più pezzottata aziendina. pensai addirittura di chiedere ad un paio di amiche come vedevano l'idea di posar in foto di nudo. "perché non provar anche quello?" mi chiesi.

non feci nessuna foto. non riuscii a far quasi nulla di tutto quello che mi ero titillato. ritrovai il piacere-peso di lavorar da casa. creativamente ad inventarmi i modi per non dar fuori di testa.

poi di lì a qualche mese non solo realizzai la storia delle zavorre. ma si sgretolò un po' tutto il resto. fui sul punto di mandar tutti afffffanculo, con tanto di insulti di cui avrei dovuto poi chiedere scusa. iniziarono mesi piuttosto bui. affogato nel rovello di cos'altro avrei potuto fare. con un sacco di dubbi verso tutto e molta apatia verso troppo.

davvero. periodo di merda. e completamente con le finanze sminchiate.


un anno fa come in questi giorni, un lunedì mattina, decisi che quel contatto, quel compagno di corso così tanto in carriera, quello che ne aveva passate, ma ne era sempre uscito meglio, colui cui mi vergognavo un po' raccontar il mio fallimento, quello che pensavo fosse sensato sentire almeno già da qualche mese, quello che già mi aveva fatto lavorare in passato: sì, era il caso di chiedere a lui. anche solo per dirgli: sono di nuovo in circolazione.

è un po' come la storia del chiodo in "novecento". quello che regge il quadro. all'improvviso, senza dar preavviso, cede. e vien giù tutto. vvvvvramm. quel lunedì mattina gli mandai un sms. vvvvvvraammm. finiva con "appena riusciamo ti spiego".

mi chiamò quella sera. mi aveva giusto pensato quel mattino. prima di ricevere l'sms. credo, nel mio fottuto razionalismo, che le coincidenze siano solo - appunto - coincidenze. però quella, di coincidenza, mi aiutò a raccontar con molto meno peso, il perché del mio ri-farmi vivo.

mi butto lì un qualcosa di molto sporadico, ma che poteva iniziar subito. non mi parve qualcosa di così entusiasmante. ma era un qualcosa. ed in fondo c'era financo da scrivere. "ne parliamo davanti ad una birra", ci promettemmo.

e davanti a quella birra ebbi la mia piccola epifania. il baluginio in fondo al tunél. tornar a far il libero professionista. differenziare attività e clienti. a milano. fu un attimo. il momento più felice di tutto quell'anno complicato [al netto di altri piccoli acme]. perché nella nebulizzazione delle cose che potevo fare se ne era, finalmente, congrumata una. e si poteva passar al fare, oltre che ipotizzare. e perché la naturalezza che percepivo in quella scelta significava che avevo come scavallato. avevo cominciato a smettere l'onta del fallimento e del non esser "degno" di trovar clienti. ma di potermi porre davanti a costoro e con convinzione propor loro il mio tempo, le mie capacità, prestar loro, la mia intelligenza.

per uno con ontologici problemi di autostima son conquiste mica da ridere.

poi arrivò, d'un tratto la proposta: analista, consulente a tempo pieno, una dipendenza mascherata e tutto quello che ne seguiva. a partir dal fatto non poter più disporre del mio tempo. e finir, di nuovo, sotto un qualche "capo" che - già lo sapevo - difficilmente si sarebbe rivelato all'altezza.

però c'era la possibilità di uscir dallo sminchiamento finanziario. fattura tutti i mesi. e pagamento assicurato. fieno in cascina. possibilità di rientrar coi debiti con matreme [la mia personalissima nevrosi]. ed avrei ritrovato il mio amico omar.

accettai, con molto timore. ma con l'idea di giocarmela. anche solo per [ri]mettermi alla prova.

sono seguiti - e seguono - dieci mesi tecnicamente duri, molto duri. un po' perché poi alla fine i lavori son diventati due per troppe settimane. un giorno di vacanze. ambiente venefico. la qualità della vita in picchiata. troppo impegnato a. nemmeno il tempo né il desiderio di goderseli un po' quei due spicci che potrei ora pur spendere. perché fatturo, assssì se fatturo. e forse ho financo imparato a scoprirmi molto più abile di quanto immaginassi in ambiti non solo tecnici.

è la dicotomia di questa esperienza. è molto positiva e ne ho una specie di rigetto continuo.


in questi giorni sento la nausea montare. come non mai. ma non è più nemmeno rigetto. è la sensazione che forse è il caso di far cambiar qualcosa. anche alla luce delle [auto]scoperte di questi mesi. domani inizia una settimana in cui, oltre la fattura di fine mese, cercherò di capir meglio questa sensazione. se è come la storia dell'irreversibilità dell'entropia e siamo allo sb[r]occo finale, lungo quel che servirà. oppure se è riassorbibile: quindi poter pensar di starmene buono ancora per qualche mese e fatturare.

sento le rotelline girare. la pulsione proattiva a cominciar a ragionare in altri termini e possibilità. e - paradosso per paradosso - proprio in questi giorni in cui il brio esistenziale pare essere essersi evaporato. tipo la birra lasciata in frigo, aperta, per giorni.

sono curioso. vediamo che suggestioni ne verranno fuori [tanto, di scopare, non se ne parla nemmeno questa settimana, uichend incluso].

Sunday, September 6, 2015

aylan e me

[premessa. post iniziato due giorni fa. riscritto. riletto [refusi a parte]. ri-riletto. ri-meditato. difficile, insomma]

questa sera facevo autostopppe. non mi ha caricato nessuno. ma sapevo di avere la figurata rete di protezione del busse che sarebbe arrivato, da lì a svariati minuti.

ed ho pensato ad aylan. che a chiamarlo per nome fa una cosa diversa da il-bambino-siriano-affogato-sulle-coste-turche-che-tanto-ha-scosso-le-coscienze-che-non-è-giusto-o-forse-sì-metterlo-in-prima-pagina-di-un-giornale.

anzi. ho pensato al suo significato per me. e la storia di una foto: lui senza più vita, dove la terra inizia e finisce il mare - visto che nel mare è morto - metre io ancora in vita, col mio bel pugno nello stomaco. e cosa è successo dopo.

ad essere quisquiglianti io non ho condiviso la foto, per quanto abbia contribuito anch'io a renderla virale. la viralità: nel contempo epic vuiin o fffeil del susseguirsi di cose epiche che svaporano come l'afflato dell'alcool con cui si puliscono le nostre scrivanie, da dove si rende virali le foto, e si pensa di esser nel centro del divenir del mondo, basta la connessione internettara.

dicevo.

non l'ho condivisa. l'ho messa come coverimmeig del profilo feisbucchiano. prima l'ho photoshoppata un poco, giusto per renderla più "mia". per lavorarla quel minimo e metterci dentro un ulteriore afflato di non so bene cosa.

già.

non so bene cosa. perché tutto è avvenuto in maniera quasi da stato di trance. come fosse lancinantemente necessario mi presentassi così, nel micromondo de li soscciall. photoshoppavo e ogni volta guardando la foto per valutare il risultato sentivo una specie di botta, un urto, uno stringermi il petto [figurativamente], all'emozione, alle lagrime sublimate. non volevo metterci parole. solo l'immagine e provar a comunicare una del tipo: questa è la cosa più cogente, voglio mi rappresenti. poi ci ho messo a compendio un post di marco bracconi di repubblica [che val la pena leggere], appena sotto la foto che avevo appena guardato, scaricato, photoshoppato e che volevo mi facesse da copertina. niente parole mie. un'immagine: quella.

e me ne sono andato a dormire. scosso. ho sognato, nel turbinio dei sogni, di bambini piccoli, ma non piccolissimi, da passeggino. potevano essere come aylan.

la mattina dopo ho cominciato ad ascoltar del ciarlare sulle foto. sul fatto di pubblicarle. sul senso. sul perché ed il percome fossero così lancinanti. su come potessero scuotere l'inedia politica e/o di come risultassero digerite ed ormai ignorate. sul fatto fosse giusto pubblicarle e sul senso fosse giusto non pubblicarle.

ma non mi hanno poi affascinato più di tanto, nonostante la speculazione ed il ragionamento, intuivo, potessero essere interessanti. ma come eco confuso e soprattutto lontano. di certo non mi hanno appassionato. asetticamente e tecnicamente credo che foto e titolo de "il manifesto" siano state impeccabili. ho letto che in redazione c'è stata discussione se e come uscir in quel modo. ma penso siano in parte validi anche i ragionamenti di coloro che hanno criticato quella scelta, e ne hanno fatta un'altra. ognuno, in un ambito così complesso, ha un pezzo di ragione, se ragionata.

non mi hanno appassionato e me le son fatte scivolare un po' via - a parte la suggestione dell'amico itsoh, ma soprattutto perché a lui voglio bene. mi son sottratto dal ragionarci e/o prendere posizione perché, dal mio personalissimo punto di vista, poteva aver senso solo quel pugno nello stomaco che avevo provato. a prescindere dalle prime pagine dei giornali. senza che mi si dovesse spiegare il perché, proprio a 'sto giro, la cosa mi ha effettivamente lasciato così interdetto.

della complessità del fenomeno epocale della migrazione di popoli penso di non essere così sprovveduto, o utopista. ci ho già ragionato, ho provato ad informarmi, razionalizzare, capire, financo - pomposamente - quasi studiare. è un fenomeno che non si esaurirà nei prossimi mesi, se va bene anni. è cosa epocale, punto. essere d'accordo o meno serve tanto quanto sciacquar la tazza di dove si abbevera il cane, o grattarsi la testa senza nemmeno accorgersene. non sentivo così impellente la necessità di farmi spiegare ancora. mi bastava guardare quel che restava di aylan, di quel bimbo.

stesso discorso sulla pietà e/o la solidarietà, o la negazione di questo per i più biechi interessi elettorali immediati. tutto sommato so già da me. nei miei frustrati abbozzi di trovar un senso in questa società mi sono almeno strutturato, quanto basta per sapere come le vivo e la penso. senza che qualcuno o qualcosa possa farmi sentir in difetto per le mie posizioni. semplicemente cambierei interlocutore o compagnia. fine. non avevo bisogno dei pipponcini per convincermene ulteriormente. parole sentite, scandalizzate, provate, commosse, e tutte ovviamente pro-solidarietà, perché gli sciacalli elettoralistici hanno quanto meno subodorato che in questi giorni sarebbe controproducente cavalcare le istanze putrebonde. tanto le tireranno fuori ancora dalle fogne, c'è solo da aspettare.

era come volessi sottrarmi da tutto questo. fottersene delle prime pagine, quasi che il pugno allo stomaco non avesse bisogno di alcun giornale. fottersene dei dibattiti, delle discussioni, delle argomentazioni, non serve la socio-antropologia per capire come mi sentissi. e, rimasto solo col grumo che mi pesava dentro, pensare se e cosa potesse significare, in quel momento - precisamente storico nel mio intimo contesto, non per la Storia di questo fottuto mondo - cosa rappresentasse per me aylan, quel bimbo. e nel ragionamento immediato, e nell'intuir le sensazioni interiori metter come segnale, segno, simbolo, riassunto, icona quella foto a copertina.

ho ripensato a tutto questo, mentre le auto passavano e continuavano, ciascuna, a non essercene con dentro qualcuno disposto a caricarmi.

e naturalmente sono arrivato al punto un po' nodale. forse dirimente. con la quale ho un po' equivocato fin qui, volutamente.

la foto che ho visto, che ho photoshoppato e messo nella mia "copertina" è quella di aylan esanime in braccio a un poliziotto turco. nell'articolo di repubblica.it - che verosimilmente ha deciso di non pubblicare quella più d'impatto - si parlava di altre foto, più crude, più lancinanti. il fatto è che in quella foto il viso di aylan non si vede, nascosto, nella prospettiva dello scatto, dal tronco del poliziotto. è stato quello che mi è rimbalzato prepotentemente dentro. è il gesto del poliziotto per cui sono andato in modalità automatica e quindi di tunneling attraverso il mormogliar di prime pagine sì/no, dibattitti senza la soluzione ma con molta frustrazione.

ecco. io, la foto di aylan disteso sulla battigia faccio ancora fatica a guardarla. per una seria di ragioni che stanno lontanissime dal fatto penso sia stato giusto pubblicarle, e financo farle diventare virali.
no. le mie ragioni sono molto più da debosciamento mio, contestuali al periodo, che - tanto per cambiare è quello che è - sono frustrato di mio: le ingiustizie del mondo continuano a non scivolarmi addosso, ma son troppo stordito e intimorito anche solo per guardare quella foto. anzi, forse è persino vergognoso accostare  le due cose. metter nello stesso ragionamento quel dramma epocale e quella foto che fa da sineddoche, alle mie difficoltà da caso umano, e la poca capacità di tener lo sguardo fisso su quel corpicino.

quindi non so se sarebbe scattato quell'automatismo se avessi visto quest'ultima. quella dove il dramma pare insolubile. penso di no, ma ormai è tardi per tirar fuori una qualche conclusione sensata.

però - pensavo mentre le auto continuavano a scorrer accanto al mio dito pollice sollevato - il fatto abbia visto, nel caso di quella serata, quell'altra deve aver smosso qualcosa. e ritorno sul gesto del poliziotto turco. l'azione che sta compiendo. che sembra concentrar nella posizione delle mani il senso del "la terra ti sia lieve". è una cosa ovvia, scontata, che costui non ha mica ragionato di dover fare in quel modo. però deve esser quello che mi ha fatto scattare il resto. in quel dramma epocale ci può esser un'altra sineddoche: per il fatto si fa qualcosa. si possa far qualcosa. si debba far qualcosa. aylan è morto, la migrazione di popoli è in atto: ci possiamo far poco, ora. è la capacità di reagire con l'umanità e la delicatezza [ferma e decisa] necessaria che è possibile.

come se, di nuovo, intravvedessi una possibilità anch'io. io nel senso di io: quello che si lamenta e che si sente frustrato per tutte le cose che non ha combinato di così funzionanti finora. una possibilità. qualcosa che è in potenza, mica [ancora] atto. effimera come la copertina di un banalissimo soscial.

ma è una possibilità.