Sunday, September 6, 2015

aylan e me

[premessa. post iniziato due giorni fa. riscritto. riletto [refusi a parte]. ri-riletto. ri-meditato. difficile, insomma]

questa sera facevo autostopppe. non mi ha caricato nessuno. ma sapevo di avere la figurata rete di protezione del busse che sarebbe arrivato, da lì a svariati minuti.

ed ho pensato ad aylan. che a chiamarlo per nome fa una cosa diversa da il-bambino-siriano-affogato-sulle-coste-turche-che-tanto-ha-scosso-le-coscienze-che-non-è-giusto-o-forse-sì-metterlo-in-prima-pagina-di-un-giornale.

anzi. ho pensato al suo significato per me. e la storia di una foto: lui senza più vita, dove la terra inizia e finisce il mare - visto che nel mare è morto - metre io ancora in vita, col mio bel pugno nello stomaco. e cosa è successo dopo.

ad essere quisquiglianti io non ho condiviso la foto, per quanto abbia contribuito anch'io a renderla virale. la viralità: nel contempo epic vuiin o fffeil del susseguirsi di cose epiche che svaporano come l'afflato dell'alcool con cui si puliscono le nostre scrivanie, da dove si rende virali le foto, e si pensa di esser nel centro del divenir del mondo, basta la connessione internettara.

dicevo.

non l'ho condivisa. l'ho messa come coverimmeig del profilo feisbucchiano. prima l'ho photoshoppata un poco, giusto per renderla più "mia". per lavorarla quel minimo e metterci dentro un ulteriore afflato di non so bene cosa.

già.

non so bene cosa. perché tutto è avvenuto in maniera quasi da stato di trance. come fosse lancinantemente necessario mi presentassi così, nel micromondo de li soscciall. photoshoppavo e ogni volta guardando la foto per valutare il risultato sentivo una specie di botta, un urto, uno stringermi il petto [figurativamente], all'emozione, alle lagrime sublimate. non volevo metterci parole. solo l'immagine e provar a comunicare una del tipo: questa è la cosa più cogente, voglio mi rappresenti. poi ci ho messo a compendio un post di marco bracconi di repubblica [che val la pena leggere], appena sotto la foto che avevo appena guardato, scaricato, photoshoppato e che volevo mi facesse da copertina. niente parole mie. un'immagine: quella.

e me ne sono andato a dormire. scosso. ho sognato, nel turbinio dei sogni, di bambini piccoli, ma non piccolissimi, da passeggino. potevano essere come aylan.

la mattina dopo ho cominciato ad ascoltar del ciarlare sulle foto. sul fatto di pubblicarle. sul senso. sul perché ed il percome fossero così lancinanti. su come potessero scuotere l'inedia politica e/o di come risultassero digerite ed ormai ignorate. sul fatto fosse giusto pubblicarle e sul senso fosse giusto non pubblicarle.

ma non mi hanno poi affascinato più di tanto, nonostante la speculazione ed il ragionamento, intuivo, potessero essere interessanti. ma come eco confuso e soprattutto lontano. di certo non mi hanno appassionato. asetticamente e tecnicamente credo che foto e titolo de "il manifesto" siano state impeccabili. ho letto che in redazione c'è stata discussione se e come uscir in quel modo. ma penso siano in parte validi anche i ragionamenti di coloro che hanno criticato quella scelta, e ne hanno fatta un'altra. ognuno, in un ambito così complesso, ha un pezzo di ragione, se ragionata.

non mi hanno appassionato e me le son fatte scivolare un po' via - a parte la suggestione dell'amico itsoh, ma soprattutto perché a lui voglio bene. mi son sottratto dal ragionarci e/o prendere posizione perché, dal mio personalissimo punto di vista, poteva aver senso solo quel pugno nello stomaco che avevo provato. a prescindere dalle prime pagine dei giornali. senza che mi si dovesse spiegare il perché, proprio a 'sto giro, la cosa mi ha effettivamente lasciato così interdetto.

della complessità del fenomeno epocale della migrazione di popoli penso di non essere così sprovveduto, o utopista. ci ho già ragionato, ho provato ad informarmi, razionalizzare, capire, financo - pomposamente - quasi studiare. è un fenomeno che non si esaurirà nei prossimi mesi, se va bene anni. è cosa epocale, punto. essere d'accordo o meno serve tanto quanto sciacquar la tazza di dove si abbevera il cane, o grattarsi la testa senza nemmeno accorgersene. non sentivo così impellente la necessità di farmi spiegare ancora. mi bastava guardare quel che restava di aylan, di quel bimbo.

stesso discorso sulla pietà e/o la solidarietà, o la negazione di questo per i più biechi interessi elettorali immediati. tutto sommato so già da me. nei miei frustrati abbozzi di trovar un senso in questa società mi sono almeno strutturato, quanto basta per sapere come le vivo e la penso. senza che qualcuno o qualcosa possa farmi sentir in difetto per le mie posizioni. semplicemente cambierei interlocutore o compagnia. fine. non avevo bisogno dei pipponcini per convincermene ulteriormente. parole sentite, scandalizzate, provate, commosse, e tutte ovviamente pro-solidarietà, perché gli sciacalli elettoralistici hanno quanto meno subodorato che in questi giorni sarebbe controproducente cavalcare le istanze putrebonde. tanto le tireranno fuori ancora dalle fogne, c'è solo da aspettare.

era come volessi sottrarmi da tutto questo. fottersene delle prime pagine, quasi che il pugno allo stomaco non avesse bisogno di alcun giornale. fottersene dei dibattiti, delle discussioni, delle argomentazioni, non serve la socio-antropologia per capire come mi sentissi. e, rimasto solo col grumo che mi pesava dentro, pensare se e cosa potesse significare, in quel momento - precisamente storico nel mio intimo contesto, non per la Storia di questo fottuto mondo - cosa rappresentasse per me aylan, quel bimbo. e nel ragionamento immediato, e nell'intuir le sensazioni interiori metter come segnale, segno, simbolo, riassunto, icona quella foto a copertina.

ho ripensato a tutto questo, mentre le auto passavano e continuavano, ciascuna, a non essercene con dentro qualcuno disposto a caricarmi.

e naturalmente sono arrivato al punto un po' nodale. forse dirimente. con la quale ho un po' equivocato fin qui, volutamente.

la foto che ho visto, che ho photoshoppato e messo nella mia "copertina" è quella di aylan esanime in braccio a un poliziotto turco. nell'articolo di repubblica.it - che verosimilmente ha deciso di non pubblicare quella più d'impatto - si parlava di altre foto, più crude, più lancinanti. il fatto è che in quella foto il viso di aylan non si vede, nascosto, nella prospettiva dello scatto, dal tronco del poliziotto. è stato quello che mi è rimbalzato prepotentemente dentro. è il gesto del poliziotto per cui sono andato in modalità automatica e quindi di tunneling attraverso il mormogliar di prime pagine sì/no, dibattitti senza la soluzione ma con molta frustrazione.

ecco. io, la foto di aylan disteso sulla battigia faccio ancora fatica a guardarla. per una seria di ragioni che stanno lontanissime dal fatto penso sia stato giusto pubblicarle, e financo farle diventare virali.
no. le mie ragioni sono molto più da debosciamento mio, contestuali al periodo, che - tanto per cambiare è quello che è - sono frustrato di mio: le ingiustizie del mondo continuano a non scivolarmi addosso, ma son troppo stordito e intimorito anche solo per guardare quella foto. anzi, forse è persino vergognoso accostare  le due cose. metter nello stesso ragionamento quel dramma epocale e quella foto che fa da sineddoche, alle mie difficoltà da caso umano, e la poca capacità di tener lo sguardo fisso su quel corpicino.

quindi non so se sarebbe scattato quell'automatismo se avessi visto quest'ultima. quella dove il dramma pare insolubile. penso di no, ma ormai è tardi per tirar fuori una qualche conclusione sensata.

però - pensavo mentre le auto continuavano a scorrer accanto al mio dito pollice sollevato - il fatto abbia visto, nel caso di quella serata, quell'altra deve aver smosso qualcosa. e ritorno sul gesto del poliziotto turco. l'azione che sta compiendo. che sembra concentrar nella posizione delle mani il senso del "la terra ti sia lieve". è una cosa ovvia, scontata, che costui non ha mica ragionato di dover fare in quel modo. però deve esser quello che mi ha fatto scattare il resto. in quel dramma epocale ci può esser un'altra sineddoche: per il fatto si fa qualcosa. si possa far qualcosa. si debba far qualcosa. aylan è morto, la migrazione di popoli è in atto: ci possiamo far poco, ora. è la capacità di reagire con l'umanità e la delicatezza [ferma e decisa] necessaria che è possibile.

come se, di nuovo, intravvedessi una possibilità anch'io. io nel senso di io: quello che si lamenta e che si sente frustrato per tutte le cose che non ha combinato di così funzionanti finora. una possibilità. qualcosa che è in potenza, mica [ancora] atto. effimera come la copertina di un banalissimo soscial.

ma è una possibilità.

1 comment:

Anonymous said...

Ciao, grazie per il post. Ti segnalo questo: http://www.wittgenstein.it/2015/09/05/vivere-con-i-migranti/, magari possiamo discuterne dietro una birretta la prossima settimana? ToeflExpired