Sunday, January 27, 2019

sul un giorno della memoria [con all'inizio un pensiero un po' bislacco]

comincio con un pensiero bislacco, [auto]fastidioso, che mi ha accompagnato per qualche tempo.
son stato in palestina. un viaggio che mi ha segnato. ero in mezzo a gente molto convinta della causa palestinese, ed in automatico molto anti isrealiana. non tutti, ma abbastanza. in quel tipo di viaggio è complicato non vedere acclarate le storture, ingiustizie, tracotanze dei rappresentanti dei figli dell'uomo che vide l'angelo. ed è un turibinio di pensieri, anche ricordando la percezione che di lì, si ha da qui. ed è un gran intorcigliamento di situazioni, dove la complessità che colà son riusciti ad inventarsi fa detonare contraddizioni disorientanti. anche per questo, mentre si risaliva verso gerusalemme, uno degli ultimi giorni, ho pensato allo spirito con cui avrei vissuto la giornata della memoria. da lì a nemmeno tre mesi.
non so se ci sia bisogno di spiegare il perché.
però lo faccio, ci provo.
perché un pensiero che ti viene è come fai - tu o popolo di israele - a perpetrare certe storture, ingiustizie, tracotanze, quando hai subito il male assoluto. le due cose non si possono nemmeno confrontare, ovvio. però fa molto male il pensiero che ti senta in diritto di poterlo fare, come indennizzo [parziale] di quello che hai vissuto, per poter ri-avere quella terra che consideri tua per diritto divino.
è un pensiero banale, quasi istintuale e brutale. fastidioso, appunto. ma che non son riuscito ad evitare di fare. anche se si porta appresso i germi della banalizzazione dicotomica: se non è una cosa, è l'altra. germi che possono essere anche pericolosi.
non ho più toccato quel pensiero. confidando nel fatto dovessi lasciar sedimentare le sensazioni. anche perché questo non sono [ancora] riuscito a scriverci sopra nulla, riguardo quel viaggio. forse aspettavo questa giornata della memoria. chi lo sa. boh.
e comunque ci sono.
quindi me lo son ripreso, quel fastidio di pensiero.
e tutto mi è parso molto più chiaro. come se la complessità del principio di realtà fosse una cardatura da cui si riesce a filare la lana, che se ne viene fuori in modo quasi inevitabile.
la chiarezza suggerisce di guardarci dentro meglio quella questione. e lì si trova, in estrema sintesi, il fatto che il sionismo è una cosa, l'ebraismo un'altra, e non è del tutto sovrapponibile. per fortuna, è bello da ricordare. e gli israeliani sono altro, così come gli ebrei, altro ancora. con sovrapposizioni non esaustive. e tutti: sionisti, israeliani, ebrei sono umanità.
e poi perché i nessi non causali, in questo caso, funzionano ancora meno. le storture dei figli non possono riguardare, nel modo più assoluto, la tempesta devastante subita dai padri.
e poi, soprattutto, in quei momenti di male assoluto, è stata l'umanità ad essere umiliata. "se questo è un uomo", appunto.
e poi, di nuovo, "ricordatevi che questo è stato". è tutto qui il punto centrale di questa giornata.
siamo noi le particelle inserite in questo campo collettivo della memoria.
non è un mero ricordare le persone che finirono risucchiate in quel gorgo assoluto: ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici, disabili e portatori d'handicap.
la memoria, in questa giornata, è un vaccino collettivo contro quei recessi della nostra mente, la tumescenza, il tumore, la metastasi della legge morale che alberga in noi. la memoria, oggi, è il dovere per tutti noi, umanità incerta, di ricordarci che quello è stato, quindi ne siamo stati capaci: quel gorgo è nelle nostre corde. la memoria è quello sforzo di provare ad intuire cosa può portarci ad esserne capaci: intuire, perché quegli estremali assoluti non possiamo capirli. la memoria è l'esercizio per intelleggere quando volano quei semi, lontanissimi prolegomeni di quell'onta totale. la memoria dovrebbe essere la calettatura nell'intelligenza collettiva, patrimonio dell'umanità, di camminare sempre e comunque per allontanarsi da quel male, che non è arrivato a mezzo di nessuna entità metafisica: possiamo esserlo noi.
mi rendo conto facile di un paio di cose.
che quel tipo di memoria non è [ancora] per tutti. ma sono le minoranze ad essere particelle che possono aggregarsi, e fare campo. gira et rigira è pure sempre una questione di neuroncini che decidono di costruire intelligenze nuove. o forse nemmeno lo decidono: succede.
questi sono tempi [più] complicati. dove ho la sensazione, il sentore, le vaibrescion che l'esercizio della memoria sia più importante oggi che in altrove, nel tempo indietro. faccio un po' di fatica anche solo a metter a confronto, anche lontanisissimamente, tempi, gesta, volontà. non foss'altro per l'incommensurabilità di quel buco, nel centro della cristianissima europa, nel mezzo del secolo che avrebbe dovuto chiudere la storia, mentre è stato quello breve. e forse anche per rispetto nei confronti di quegli uomini che in quel buco furono risucchiati.
però proprio in questi tempi, la memoria, questa giornata, ha ancora più senso. siamo un po' alticci, potremmo immaginarci lontano, troppo ed inevitabilmente lontano il male assoluto. qualcosa d'altro da noi. ricordarci, invece, che quello è stato, per andare nella direzione contraria. oggi è forse un po' più complicato. ma noi siamo i neuroncini, vigili. e costruiamo le intelligenze nuove.
a partire dal dovere della memoria.

Wednesday, January 16, 2019

piccolo post veloce /7 - massssssssì, 'na roba un po' politica

pensare che pensavo che il guardasigilli fosse uno dei meno peggio della masnada. poi si è accodato al ministro peggiore di tutti, nella passerella per l'arrivo di tal cesare battisti. e soprattutto ha girato quel videoeeeemmmmerda. a dirla tutta non l'ho guardato. non ce l'ho proprio fatta. ne ho solo letto la sinossi. però la sensazione di ributtevolezza non si è manifestata meno fastidiosamente. e poi se costui fa un video talmente come quel video, io posso prendermi la libertà di non guardarlo, e di scriverci.
quel video è stupido.
quel video è osceno.
quel video è pericoloso.
stupido nel senso di dettato dalla minorità tattica e realizzato con imbarazzante dilettantismo. non serve guardarlo. sono pronto a metter su di un ceppo una preziosissima [per quanto poco utilizzata] gonade. l'approssimazione tecnica, la scarsità del risultato [non serve guardarlo] è una specie di declinazione del fatto che - tatticamente - il ministro peggiore di tutti, per quel che riguarda la propaganda è una spanna avanti agli altri. cavalca a falcate le praterie del giocar sporco che ha di fronte. questo qui, il guardasigilli, ha provato a stargli dietro, coprendosi di ridicolo. è la variante del non mettersi a discutere con un cretino. che ti porta al suo livello e poi ti batte con l'esperienza.
osceno nel senso che fa strame dei fondamentali dello stato di diritto, i principi fondanti della Costituzione repubblicana. uno stato di diritto cerca di amministrare la giustizia, non cerca vendetta - neppure nelle forme sottili di quella roba lì. per quanto colpevole possa essere una persona - e il tale, nella sua antipatica tracotanza, lo è - ha il diritto di essere trattato con dignità. [anche] con il video si ratifica che il colpevole merita di essere trattato come un trofeo di caccia: roba ignobile. e a quella roba mette la firma uno dei più alti rappresentanti del tentativo di amministrare la giustizia e non la vendetta. è il ribaltamento di quei princìpi, di quei valori.
pericoloso perché ho la vaga sensazione che di tutto questo, quello che fa il guardasigilli, non abbia avuto minimamente contezza, mentre realizzava quella papocchiata brutta e inguardabile. non mi meraviglierei se fosse rimasto sorpreso delle reazioni contarie: ma ché? davèro dicsciiiii? osservando con occhio stupito e meravigliato, prima che infingardo. bisognerebbe allarmarsi quel filo, per l'impreparazione civica di questa classe dirigente se va bene pezzottata. 'ché magari questi sono magari quelli più migliori tra di quelli. nella spocchiosa certezza che basti essere onesti e volonterosi: e a culo la competenza, in qualsiasi declinazione si possa immaginare. magari ancora a propinarci la stronzata dell'unovaleuno.
questa parte qui. quelli che sono la parte che dovrebbe far da contappeso ai leghisti. per dire.

no, è che poi uno dovrebbe starsene tranquillo?

Sunday, January 13, 2019

piccolo post veloce /6 - sull'efficienza enertica [emotiva]

non amo l'autunno. da sempre.
da prima di capire non amassi il freddo. da prima che i ricordi si facessero rovi. e nonostante sia poi riuscito a derovizzare un bel po'.
no. è la luce, che viene meno, giorno dopo giorno.
occhei, anche d'estate, ma l'eco della pienezza illumina comunque.
mentre d'autunno, quando la luce si fa più rada, è come se mancasse qualcosa. fin quando il tramonto non fosse tornato a spingersi un po' più in là.
accadeva così riuscissi a sentirmi risarcito, contendo di luce, solo a pasqua, che è dentro un bel pezzo alla primavera.
poi, anno dopo anno, mi sono accorto di una cosa. di come anticipassi quella sublimazione di felicità.
così già all'inizio di marzo sentivo odore buono, figurativamente ovvio.
e poi.
la sensazione che si potesse ovviare all'ansia del genetliaco, con il nodo del tramonto già così a nord, una specie di sorriso.
e poi.
il cielo che ancora balugina incendiato alle sei di sera, l'inizio di febbraio: un nuovo regalo gradito.
e poi.
il chiarore, quando si esce per la marcia, il uichend della merla, è celia garrula a chiedersi: ma che lo porto a fare il lanternit?
fino ad arrivare a questi giorni, quest'anno. che ogni tramonto è un pezzettino avanti. e ne ho contezza. così da ammonticchiare, tramonto dopo tramonto, quella roba lì, di qui sopra. già ora.

è una cosa tipo le piante grasse. che basta pochissima acqua. e con grande efficienza sfruttano le singole stille. e non mollano.
a 'sto giro, con la luce, funziona allo stesso modo. come se, ogni giorno, fosse luminosissima quella manciata di minuti in più. ed io vedo chiaro, a sentirmi rischiarato. roba che illumina, dentro, tanto.

Sunday, January 6, 2019

la baaaanda, la baaaaaaaanda [cit.]

la banda. quella cosa in cui uscii trentacinque[minchiatrentacinque]anni fa. perché non si entrava in banda, ma si usciva. inteso come la prima volta che si suonava dentro una banda, davanti ad un pubblico, fuori. quella sera fummo in sette. una data un po' sui generis. perché di solito si usciva in banda al concerto di santa cecilia, fine novembre, l'ultimo atto formale della banda. a noi toccò il settegennaio, che nell'hometown ha un valore particolare. è la festa. all'hometown non si ha un santo patrono. si ha un miracolo, peddddddddire. il giorno del miracolo si presentavano le fidanzate in casa. io uscii in banda.
suonavo uno strumento particolare. un anno prima, forse meno, mi era toccato assegnato dall'aldo. l'aldo, grande musicista, maestro di banda inadatto, pessimo insegnante e maieuta. lui ed io mai entrati in sintonia. lui forse mi stimava pure. io ero la persona meno adatta ad entrare in armonia col suo modo di fare spigoloso, spiccio, poco empatico, maschilisto-machista. chiesi, in un sussulto di impavidità, mi assegnasse il flicorno sopranino in mib. invece mi toccò il flicorno soprano in sib. il flicorno soprano è quello strumento che quando rispondi alla domanda "che strumento suoni", quasi chiunque esclama "ehhhhhhh? ma che strumento è?".
a dirla tutta io sapevo già suonare "quella specie di tromba". che poi era come cercavo di spiegare cosa fosse, appunto, il flicorno soprano. solo che l'aldo non doveva accorgersene, perché pensavo avrebbo potuto rompermi i coglioni [anche se allora non avrei mai osato dire coglioni]. avevo imparato per i fatti miei, con una vecchissima tromba di mio padre. quando, orgoglioso, gli chiesi di ascoltarmi lui decretò che non suonavo ma "ci cantavo dentro", quindi mi proibì di suonarla ancora fintanto, che l'aldo non mi avesse spiegato come farlo. in fondo non andava d'accordo nemmeno lui con l'aldo, ma era il maestro della banda, era anche il suo maestro: doveva insegarmelo lui. provai a obiettare che "non ci cantavo dentro". niente. non ci fu nulla da fare: non immaginava avessi potuto imparare da solo. forse una delle poche cose che, comunque, non sono ancora riuscito a smettere di rimproverargli. fu una delle poche cose in cui disobedii apertamente. sgattaiolavo in solaio, e me la suonavo quando non c'era nessuno per casa.
il giorno del debutto, si suonava la sera, fu un giorno di attesa delle grande occasioni. per vincere l'attesa e distrarmi dall'emozione mi ero stirato le parti, e costruito una specie di libretto porta spartito con del cartoncino nero. la sera, ancora più emozionato, con la banda già schierata - i flicorni e le trombe, sempre nelle ultime fila - mi cascarono le parti, l'aldo se ne accorse e me le raccolse con un grugnito e stropicciandomele.
i nuovi sette conoscevano e avevano provato solo due marce brillanti, quindi "noi vogliam dio" e l'inno della festa. e furono solo quelle due marce che la banda suonò nei due giorni di festa, oltre - ovvio - che l'inno, ieratico, della festa [o nostra viva gloria, santissima pietà. e così via]. io felicissimo. tanto che mi chiesi impaziente: quando potrò suonare ancora con la banda?
non mi avevano ancora spiegato che dal venerdì successivo ci sarebbe stata "scuola". nel senso le prove per preparare i concerti. la "scuola" era quella cosa che per me mio padre usciva il venerdì e tornava tardissimo. tanto che immaginavo fossero "scuole" con una durata da provare un sacco di persone.
quel primo venerdì c'era la luna piena. che quella sera, forse, era la prima volta che mi colpiva la luna piena. oltre alla prima "scuola". e per anni, ad ogni luna piena, non mancai di ripescare dalla memoria il ricordo, speciale, di quella prima "scuola".
e quindi cominciai le "scuole" con la banda. che in effetti nel giro di un'oretta e mezzo erano concluse. mio padre faceva il doposcuola come capo cantiniere. il primo concerto fu in chiesa, quando ancora si potevano fare i concerti in chiesa. sembrava suonassimo addirittura meglio. o forse era l'effetto del riverbero. in quel primo concerto suonai mediamente di merda [anche se allora non avrei mai osato dire merda, soprattutto in chiesa]. o almeno, così mi parve. probabilmente una delle prime manifestazioni della nevrosi perfezionista - e fin qui sticazzi. il problema è che ci rimasi davvero male, e me la presi con non so bene chi, oltre che con me medesimo.
il mio mito divenne l'erminio. che suonava nella banda da un po' di anni. lavorava per mio padre come giardiniere. lui suonava le parti da primo flicorno, nipote dell'aldo. personaggio tanto timidamente riottoso quanto io stravedevo per costui. intuii qualcosa di magnetico e che avrei voluto imitare. forse fu la prima persona che mi fece questo effetto. forse fu davvero l'unica. da svariegati anni è frontaliere, ma fa il giornalista. è un punto di riferimento intellettuale della comunità, ed anche un po' oltre. per quanto sia diventato ancora più orso rispetto allora. ha sempre amato fotograre, oltre che guccini, de andrè e de gregori. forse è per mimetismo che mi ci sono appassionato anch'io a tutte 'ste cose. probabilmente ha una cifra stilistica ancora più intorcigliata della mia [pedddddddire]. come scrittore creativo non dà il meglio di sé. in compenso è su un suo libro che vidi scritto occhei.
pochissimi anni dopo poco l'erminio se ne andò dalla banda. e l'aldo decretò che le parti di primo flicorno sarebbero spettate a me. io me la tiravo - dentro di me. ogni tanto, davanti a qualche istanza che poteva metter in dubbio qualcosa di me medesimo - invero succedeva spesso, quando l'autostima arrancava a consolidarsi - mi ripetevo ed avrei voluto buttar in faccia a costoro che ero "il primo flicorno della banda, io".
non solo.
quando mi toccò il primo assolo, lo stornello di lola nella riduzione de "la cavalleria rusticana", provai e riprovari e riprovai e riprovai. la sera del concerto andò benissimo. forse l'aldo mi fece pure alzare in piedi, per ricevere gli applausi. mi dissero che, mentre suonavo davverso quasi da solo, mio padre si commosse.
probabilmente ero pure bravino, bravo suvvia. mi chiamarono a suonare anche in un altra banda. quella del paesino a fianco l'hometown. un po' perché avevano bisogno di elementi, un po' perché forse me la cavavo niente male. alla prima "scuola" dell'altra banda il maestro portigliotti spiegò a tutti noi il pezzo che stavamo andando a provare. prima ancora di soffiarci dentro la prima nota, ci spiegò l'opera di ingegno musciale saremmo andati a soffiar dentro note. fu una specie di epifania. io mi ero immaginato che essere maestri di banda significasse essere come l'aldo. quello che avevo davanti, invece, stava magnificando il concetto di direttore di banda. in quella banda, a suonare, eravamo metà di quelli della mia di banda. ma dio come si suonava in maniera magnificamente più appagante. c'era una ragazza, in quell'altra banda, che suonava il flicorno baritono, che poi si chiama  anche bombardino. in quella banda le parti per il bombardino erano in chiave di basso, e non in chiave di violino come nella mia banda. e per quanto non fosse uno strumento molto femminile lei mi appariva di una bellezza sconvolgente. capello biondissimo, occhio chiarissimo, viso gentile, e con me sempre molto sorridente. percepivo qualcosa di strano, una tensione che non capivo. io allora mi innamoravo di tutto [cit.], ma non pensai potesse essere una cosa simile, per il semplice fatto lei avesse quei sei-sette anni più di me, diciassettenne - invero anche quel filo rincoglionito, in certi ambiti. non concepivo nemmeno l'idea lei potesse essere interessata a me. eppure, c'era quella tensione, che non era esattamente sentimentale. ventanni dopo ho scoperto di come lei fosse "innamorata persa" di me. quand'anche me ne fossi accorto, avrei combinato casino. e se fosse pure iniziato qualcosa, sarebbe durato nemmeno il tempo di cominciare a struggermi. ma ho il vago sospetto avrei conosciuto le meraviglie dell'origine del mondo nel modo più importante ed utile per un ragazzetto intimidito qual ero. e forse veramente molte, molte, molte cose, poi, sarebbero state diverse.
continuai a suonare nella banda anche una volta iniziata l'università. tornavo il venerdì per "scuola", oltre che per infilarmi nella realtà oratoriano-uterina.
suonavo bene. mi esercitavo poco, ma suonavo bene. forse, davvero, qualcosa che avrei dovuto coltivare in altro modo. però forse mi bastava la banda. o forse non osai pensare oltre.
capitò invitassi a dei concerti della banda amici da fuori e compagni di corso. in una di quelle volte l'amico andrea - grandissimo ingegnere, grandissimo stigmatizzatore della mediocrità altrui - sgamò il fatto che le flautiste non suonasseo il flauto traverso in maniera ineccepibile e corretta. "gliel'ha insegnato l'aldo" gli spegai "che suona il trombone, quando non fa il maestro". "e come può uno che suona il trombone, insegnare come si suona un flauto traverso?" domandò, con la sapidità che sapeva tirar fuori in quei momenti. "in banda, qui, funziona così. è l'aldo che fa tutto".
smisi di suonare nella banda pochissimi mesi dopo. forse uno scazzo estemporaneo con mio padre, forse non sopportavo più l'aldo, forse quei limiti - tecnici, musicali, espressivi - che intuivo da tempo, si erano fatti insopportabili. forse mi si stava raffinando l'orecchio. faticavo a sentir suonare una banda con gli strumenti poco accordati, con poca dinamica nell'interpretazione dei brani. o forse stavo cominciando a lasciare l'hometown. a cominciare dalla banda.
forse fu per reazione che mi invaghii dell'idea di imparare a suonare il pianoforte. lo strumento che necessità di più tecnica, assieme al violino. ma che, a differenza del violino, è lo strumento più solitario ed indipedente esista. ad essere pianista si può far a meno di un'orchestra, figurarsi di una banda.
fuoco di paglia.
smisi di suonare.
e probabilmente qualcosa di importante, nel mio equilibrio intracranico, venne un po' a mancare.
pochi anni dopo mi proposero di tornare a suonare nella gugghen band del paesino svizzero, più prossimo all'hometown. bande di ottoni, percussioni, e poco altro che suonano pezzi facili, ripetitivi, quasi ipnotici, ai carnevali in svizzera. e li suonano forte, solo forte. quando si vuol mettere un poco di dinamica allora si suona fortissimo. la cosa all'inizio mi entusiasmò. disposto a partecipare a dei carnevali - cosa che mi è sempre stata sui coglioni - col rischio di farmi pure pittare la faccia - cosa che mi inquieta - pur di suonare.
e mi parve pure di trovare un nuovo senso, nuove consapevolezze, nel suonare in una banda. il sentirsi parte di un tutto, dove quel che suoni tu ha senso solo se suonato in armonia con gli altri: anche se suonano solo fortissimo. che ti ascolti mentre suoni, ma soprattutto ascolti l'effetto complessivo che ne vien fuori. ci andai con l'amico storico. eravamo visti quasi con rispetto, 'ché sapevamo legger la musica. peddddddire che tipo di banda fosse.
non poteva durare. non durò. un po' perché il carnevale continuava a starmi sui coglioni e pittarmi la faccia continuava ad inquietarmi. un po' perché mi invaghii di una cimbalista, e fui talmente stupido da farmi presentare dall'amico storico, in maniera tale se ne invaghisse la cimbalista. un po' perché con quel tipo di banda c'entravo veramente poco. o forse perché tutto accadde nell'anno del punto angoloso, di quando se ne andò mio padre. ed un sacco di cose virarono ad illuminarsi di un qualcosa che preferii lasciar perdere.
domani sentirò ancora la banda. suoneranno svariegate volte l'inno della festa, potrei quasi cantare le note a memoria. nella banda, di quei sette debuttanti di trentacinque[minchiatrentacinque]anni fa ne è rimasto a suonare solo uno, assieme a qualche musicante che già lo faceva allora. molti se ne sono andati, e non solo dalla banda. un paio di dozzine di fottie di cose sono ovviamente cambiate. l'aldo, invece, è sempre lì, a dare il via ai brani, e marcerà allo stesso tempo della banda, in posizione appena esterna, accanto a colei con cui civettuola da quarant'anni, dubito abbia mai concluso qualcosa con costei.
non mi manca la banda. forse mi è mancato il continuare a suonare, dopo aver smesso perché stanco di quella banda. la banda che continua, dopo ben più di un secolo, ad essere qualcosa che, ovvio, va molto oltre chi ci suona dentro. sono io che non mi sono adeguato alla banda. e quindi me ne sono andato dalla banda. ma oltre a quello non son riuscito a dar quello scatto, quel colpo di reni e cercare oltre. e continuare a suonare.
pare che il cervello di una persona, mentre suona, si plasmi. e nella sua plasticità, arrivi a scatenare reazioni, che portano a percepire stati di benessere di rara importanza. cosa che intuisco, seppure da lontano, anche nel senso che sono cose veramente molto lontane nel tempo.
sì. forse è stata un'occasione mancata. come molte altre, d'altronde. qualcosa che ho cominciato a cullare grazie alla banda. e che ho soffocato, dando un po' di responsabilità, alla banda.
riuscire a non crucciarsene, però, è una delle cose più importanti che mi sono regalato negli ultimi tempi.
dimenticarlo per la nostalgia di quel baganetto che ne sale in solaio a suonare di nascosto, oppure, emozionato, stira le parti che suonerà da lì a poco con la banda sarebbe poco scaltro. dimenticarlo, giaculando per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, sarebbe ancora meno scaltro.
anche perché, per fortuna della banda, la banda prescinde da tutto ciò. ed un sacco di persone domani, nella banda, ri-cominceranno a suonare. buon per loro.
avanti, marsch.

Thursday, January 3, 2019

sui tifosi dell'fc internazionale, la crema chantilly e l'amico massimo

quindi mi è sovvenuta 'sta cosa di provare a far una classifica delle squadre di calcio italiane. classifica personalissima, ovvio, sulla base della personalissima percezione abbia dei tifosi delle squadre medesime, percezione per conoscenza diretta o indiretta. e niente. la spunta l'effeciinternazionale di milano. e nemmeno troppo di misura. non c'è partita. sono diventato agnostico anche nel tifo, da praticante che ero. e son scettico razionalista pure lì. tifavo giuventus, e se vince [con merito] per quei due-tre minuti mi sento pre-garrulo, ma stenderei un velo pietoso sul tifoso giuventino medio.
gliel'ho buttata lì, all'amico massimo, 'sta cosa. anche perché avevo già intenzione di scrivere questo post, pensando che sarebbe stato l'incipit del post medesimo. gliel'ho buttata lì col uotsapp. mi ha risposto con sei - sei - messaggi vocali di durata non indifferente. sapevo sarebbe bastato dargli il la, specie parlando dell'effeciinternazionale. e da lì una messe argomentazioni analitiche, condite con cinestesie ad accento toscano, voli iperbolici a toccar altri ambiti, contesti, piani di ragionamento. una cascata tripudiante tipo i royal fireworks, accompagnati dagli omonimi cinque movimenti della suite händeliana.
insomma, ho fatto riprodurre in piccolo il nostro interrelazionarci, di tutti i mesi passati assieme là dentro.
anche il fatto che su alcuni punti non fossi del tutto d'accordo.
anche il fatto che, quando disquisisce di tifo e di effecciinternazionale, smarrisca un po' di grip con la sua spietata e lucidissima capacità di legger in mezzo alle cose e, soprattutto, alle persone.
anche il fatto abbia la sensazione che, a tratti, si dimentichi un pochino dell'interlocutore, preso dalla foga di renderti partecipe di sé e del portato della spietata e lucidissima capacità di cui sopra.
perché, ovvio, l'amico massimo non è mica perfetto.
foss'anche solo per una questione statistica: uno che è così tanta roba - tanta - ci può stare che qualcosa sfugga via.
però, cazzo, a trovarne di gente come l'amico massimo.
ed a proposito di ranking, nella mia personalissima, modestissima visione delle persone là dentro, intuisco si faccia fatica a trovarne di qualcuno che possa tenergli testa. tra quelle che conosco e con cui ho interloquito, di sicuro. per tutti gli altri, una scommessa alla tipiaaacevincerefacileeh?, la potrei anche fare.
poi, come lo scrivente di questo blogghettino da cantuccio riservato, anche l'amico massimo là dentro conta poco un cazzo. cosicché la sua tantosità sfuma nella mediocrità, invero piuttosto miserina, di tutti coloro che lì ci lavorano. [non è un paese per meritevoli].
quando me lo presentò l'amico omar, mi buttò lì una cosa tipo fosse uomo di lettere, amante del guccio, e che avremmo potuto trovar punti di discussione. il ricordo che ho, di quei primissimi momenti, è lui che mi guarda con sorriso appena accennato, quasi beffardo, e che di sguincio un po' mi sta studiacchiando.
e comunque, l'amico omar, ci vide bene a riguardo, anche più di quanto immaginasse.
e da lì è stato tutto un po' un crescendo. a piccoli sorsi, in crescendo.
ad un certo punto se ne andò - cosa non così infrequente là dentro per i cordoncini bianchi, i consulenti esterni. scrisse una mail struggentissima, carica [onusta] di malinconico desiderio di comunicare quel suo sentirsi un po' da partireèunpo'morire. ho la vaga sensazione la capirono appieno in pochi. per quanto credo tutti riuscirono a cogliere quella sua peculiarità: che l'amico massimo fosse qualcosa di poco intruppabile nella massa dei "ringrazio per la crescita professionale e umana che ho maturato lavorando qua dentro".
ad un certo punto tornò - cosa che può capitare ai cordoncini bianchi, che finiscono di nuovo là dentro, a consulenziare. me lo ri-trovai, improvviso, una mattina mentre pigliavo il caffè. mi venne di abbracciarlo, percependo una ventata di belle cose. fu un attimo rapidissimo di gioia intensa e vera.
e così si è cominciò coi caffè letterari. da gustare tipo la crema chantilly.
il caffè letterario: quella roba che si piglia il caffè della macchinetta, ci si siede sul trespolo, per garantirsi quella relativa intimità, e si comincia a disquisire. su un po' di tutto, con alcuni punti di accumulazione di preferenza, ovviamente.
cioè, più che disquisire, sono piuttosto quelle cascate di robe pirotecniche di cui sopra.
a dirla tutta il possesso palla retorico è mediamente settantacinquepercento per lui, ventipercento per me [il cinquepercento ci si azzittisce a guardare una qualche figliola, cordoncino bianco o arancio che sia, per poi ragionarci sopra, mai - dico mai - con trivialità]. sì, insomma, l'amico massimo è uno che parla molto, riuscendo a tener quasi zitto uno come me, che proprioproprio silenzioso non sono. io lo ascolto, più che intervenire, perché le sue figure retoriche, i suoi construtti argomentativi, le sue articolazioni dialettiche, gli addentellati per le citazioni del guccio e di altri giocolieri della parola, hanno bisogno di spazi larghi per potersi dispiegare per bene. a volte mi è quasi venuta voglia di alternarmi più serratamente alla sua favella. ma poi era sempre così piacevole ascoltarlo raccontarsi che pensavo: magari al prossimo caffè.
ed ogni volta ho ritrovato quel fottutissimo dono di metterci dentro quasi della musica. che si fa intensa quando parla della sua itaca che è massa, la cesura che lo lacera dal fatto di esserle partito via. diventa cicciolosa quando racconta del suo bimbo, e di come sia praud di essergli padre. arpeggiata, tinteggiatura di note appena, quando parla di sua moglie, quasi fosse una cosa che riguarda solo lei e lui. e il canone e la fuga di quando si intuisce quanto sia arrivato giù nel profondo, nell'essenza dell'epos dell'arte del fumetto.
e poi la pervasività analitica di leggere cose e persone. e come questa sembra si faccia quasi psichedelica quando parla delle fenomenologie del calcio italico, dei tifosi. non che non gliel'abbia mai fatto notare. anzi. potrebbe essere un ottimo leader della sinistra, se non sprecasse le sue capacità raziocinanti a disquisire sui massimi sistemi attorno alle [dice lui] ingiustizie perpetrate verso l'effecìinternazionale milano. lì, a mio parere, scarliga un po' via. come quando si scivolava giù dal trespolo, alla fine del caffè.
caffè che poi non son stati così frequenti. forse avremmo potuto farcene di più.
mi piace comunque pensare però che siano stati cosa tipo la crema chantilly. che è roba raffinata, molto. e che la si gusta al meglio, con dlin-dlon di piacere, che il centellinare del dosarsela acuisce. aspettando il giro successivo, con calma.
io, nel frattempo, a correre dietro a tutto il guano da contenere, lui nello stanzone dei tester, con fare a volte maeiutico. ma in quegli intervalli bastava uno sguardo, un cenno con lo sopracciglio, un ghigno appena accennato d'intesa. ribadendo, senza ripeterselo troppo, della consapevolezza di una alterità condivisa, là dentro. probabilmente, lui ed io, utilizzati senza far esprimere il meglio di noi, per motivi diversi, ed ognuno a suo modo. ma pure con la certezza di sapersi presenti, più o meno l'un l'altro. quando sarebbe venuto il momento di un altro caffè.
crema chantilly, appunto.

l'amico massimo domani se ne viene via da là dentro. ho la vaga idea questa volta sarà un po' più definitiva. ed ho la netta sensazione mi mancherà, molto. per quanto fossero radi quegli stranissimi caffè. e dirsi ora che potevano essercene altri è inutile. quand'anche ce ne fossero stati non mi sentirò, per questo, quel cucchiaino di crema chantilly meno solo.
buon tutto, amico massimo. continuerai a far le cose più che bene, anche se sai benissimo potresti produrre ben altre chicche in continuazione, facendo altro.
l'effecìinternazionale milano continuerà a vincere poco, ma non perché i poteri forti le sono ostili, o gli arbitri in cattiva fede o in soggezione. ma in fondo chi se ne fotte. i suoi tifosi, mediamente, continueranno ad essere i tifosi più interessanti conosca. e tu continuerai ad osservare cose e genti, mettendoci musica nel guardarci dentro. il fatto di non essere abbastanza ricco per smettere di lavorare, quanto meno, mi ha permesso di incrociarti là dentro. un'altra tacca [taccona] che mi porterò via da là, quando sarà.
ci porteremo nel cuoricino, godencele, le consapevolezze, condivise, mutue, reciproche, caffèletterarizzate.
e a culo tutto il resto.