Wednesday, May 1, 2019

trentalibritrenta, per khorakanhè [primomaggio]

stavamo guardando la piccola giocare nell'area attrezzata del palazzo. ad un certo punto uscì con una frase del tipo "vorrei trovarlo quello che ha detto che il lavoro nobilita l'uomo. rincorrerlo e prenderlo a calci nel culo, fino a non poterne più. il lavoro schiavizza, bisogna liberarsi del lavoro".
forse cominciai in quel momento ad aver sempre meno voglia di averci a che fare.
al netto della protervia che sentii pettinarmi i capelli all'incontrario - da chi usa le affermazioni con i tre punti esclamativi in fondo, ormai, mi guardo bene dal fidarmi - sentii stridermi qualcosa dentro. rimasi senza parole, cancellato di colpo l'aggancio teoretico in materia - invero non così ampio.
come per tutte le uscite apodittiche si potrebbero impalcare construtti per confutarle.
ci ho ripensato più e più volte. e del perché sentii quell'uscita quasi come insultante, a partire da me.
diventerebbe un po' lungo raccontare qui le suggestioni che mi son sorte da allora.
non foss'altro per tutte le sfumature, cangianti, che mi son parate davanti ogni mattina, entrando là dentro. ci son stati financo giorni che ho varcato quei tornelli quasi contento. quasi, ovvio.
anche se là dentro è fottutamente complicato, per me, starci. per la struttura, per le attività, per il contesto cui devo resiliere, per lo spreco delle mie intelligenze, di cui ho la spocchiosa sensazione accada. l'azienda medio grande, il trito da soffritto emergenziale senza soluzione di continuità, la variegata medietà e l'alterità che [mi] percepisco, l'utilità che si ha nell'oliare processi che offrono servizi tossicchianti.
eppure.
eppure.
là dentro provo a dare sempre il meglio. un po' perché il confine tra le nevrosi e l'etica può capitare sia sottile, più di quel che appare al primo lampo. un po' perché non porsi in quel modo è una specie di insulto a tutti coloro che, lavori meno migliori del mio non ce l'hanno. e magari lo meriterebbero assai. tutti coloro che là dentro è un luogo che non c'è, e invece lo vorrebbero eccome.
certo.
quel lavoro non mi piace. mi sta succhiando energia, di quella profonda, molto più di quanto riesca a trattenere con i più variegati espedienti. un po' perché le nevrosi, altre volte, sfondano i confini e non riesci a richiuderle abbastanza nei recinti. un po' perché voglio mettere quanto più fieno in cascina. per arrivare, magari, a far altro. cosa, non lo saprei.
anzi. forse no. in fondo lo so. forse non ne sono capace. ma lo sento come una specie di richiamo. irrealizzabile. o forse ne sarei anche capace. ma c'è da uscire dalla zona di conforto, che peraltro mi rende quella precisa quantità di eurI per ogni ora passata là dentro.
di sicuro, però, anche grazie a quel lavoro sono parte di qualcosa che mi trascende. e mi nobilita. non è una questione complessiva di pil, ovviamente. ma è qualcosa di più profondo, pervasivo, ancorante nel flusso del divenire di una società: complicata, migliorabile, perculata, automiditratizzata, incosciente, a tratti idiota, a tratti illuminata. lavorare là dentro, e farlo per come provo a farlo - con fatica - tutti i fottutissimi giorni varchi quei fottutissimi tornelli mi rende migliore. perché ho a che fare con gli altri che lavorano là dentro: donne e uomini, che sentirò anche spocchiosamente altri, ma che pezzi di umanità sono, con tutto il loro armamentario di gioie, dolori, bachi, stronzaggini, bontà. magari mi stanno pure sui coglioni, ma usare le mie intelligenze [sottoutilizzate, occhei, già detto] per provar a far qualcosa assieme a loro e provare farlo al meglio - almeno io - rende tutti un po' più stanchi, ma migliori. ci nobilità, faticare là dentro.
poi io sono altro e la mia vocazione - utilizzo una categoria per cui odg mi guardò un poco convinta, quando accennai a hillman, ai tempi - il mio daimon mi pungola ad adoperarmi altrove.
spesso ho la vaga sensazione sia in questa distonia di fondo la causa dell'insoddisfazione che mi leva quella specie di sorriso [dentro]. e la non capacità di provare - veramente - a vibrare a ridurla, la distonia, il mio non sentirmi adatto. nel senso più ampio ed abbracciante del termine. per quanto, in tutto questo, non è che non intravveda il luccichio della lama affilatissima di questa cosa un po' ambiziosa: fare quello per cui sei portato. essere felici di fare il proprio lavoro è un privilegio che pochi riescono a centrare. magari nemmeno per particolare talento. a volte ci vuole un po' di culo. e ambirvi così tanto può essere parimenti frustrante, se non ci riesci.
però.
però.
però.
se non provassi a nobilitarmi anche nel lavoro che faccio, là dentro, sarebbe peggio. è come se avessi abdicato del tutto. e come mi levassi abbastanza del tutto a costruire qualcosa che è un baluginio migliore.
per questo, pur senza mai aver sentito del tutto mio [da orso] il concetto di classe, oggi è stato giusto ricordassi e festeggiassi. tutto a mio modo, ovvio.

fabrizio de andrè, ho sentito dire, lesse trenta libri sulla storia, cultura, tradizioni dei rom per scrivere khorakhanè, a forza di essere vento.
trenta libri per una canzone.
come se avesse fatto suo quello scibile e l'avesse sintetizzato in un distillato. evanescente come può essere una canzone. immortale come riescono ad essere alcune canzoni.
dicono pure leggesse un libro a notte.
ho anche sentito dire che per scrivere i trecentotre versi de "la buona novella" impiegò un anno. come se fosse necessario più di un giorno per un singolo verso. come dover cesellare e trovare la parola adatta. quella e solo quella.
fabrizio de andrè faceva il lavoro più bello del mondo.
un po' ha avuto la possibilità di. un po' ha avuto il culo di. un po' era il faber.
anche se, per diventarlo, il faber, ha dovuto studiare, a suo modo.
ancora a proposito di un altro lavoro, anche quello il più bello del mondo.


ecco. a proposito di daimon.

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