Monday, November 25, 2024

patriarcatismi

sono un portatore sano di patriarcato. non è colpa mia: son nato maschio. quindi è una condizione ontologica, c'è poco da girarci intorno. però lo sono e non me lo nascondo. non giuoco al chiagnaefotti di chi - tanto, poco - 'sta cosa qui la rimuove, con il trucchetto del: non sono né maschilista, né discriminatorio, né violento contro le donne, che volete da me? peggio: e allora le donne con il loro essere civettuole, profittatrici, stronze, rompicoglioni?

noi maschi siamo portatori sani di patriarcato. e non importa se lo sono anche parecchie donne. che lo agiscono, conformate, rispettose, ossequiose di una [sub]cultura radicata da parecchi secoli. la assorbiamo con il latte materno: tutte e tutti. poi noi maschi giochiamo in un altro campionato, la responsabilità è ben precipua. averne contezza è il primo passo per cominciare a sconfiggerlo.

sono portatore sano di patriarcato. ne ho avuto piena e compiuta consapevolezza con l'omicidio di Giulia Checcettin. questo non smetterò mai di ribadirlo. per l'emozione che ha suscitato, per come il padre ha saputo trasformare quel dolore e quel trauma. vero. ammazzano una donna ogni tre giorni: anzi, vi è un femminicidio ogni tre giorni. chissà quante subiscono violenza. per non dire la sistematica discriminazione che si perpetua ogni giorno, come la più inestricabile e maledetta delle normalità. un senso di trasformazione ha avuto quel femminicidio: dare importanza al fenomeno, mostrandone la montevolemerdosità. è dare centralità e dignità alle vittime di tutti gli altri femminicidi, di violenze subite, alle donne discriminate. ci sono quei ghirigori del destino che innescano effetti fottutamente non lineari. delle delte di dirac [da zero a tutto in un niente] di consapevolezza, presa di consapevolezze oltre l'importante. sembra che le cose scorrano in una normalità tossica, subendola, poi arriva prorompente il dover far rumore, a dar scossoni antropologici.

ne ho preso consapevolezza del tutto. non partivo esattamente da zero. però sì, la compiuta contezza è stata un'altra cosa. anche a tratti fastidiosa: ma come, proprio a me? che quando mi trovo a camminare, specie di sera, dietro una ragazza, se mi accorgo del mio passo troppo più rapido del suo mi fermo un attimo, rallento, cambio marciapiede, proprio per non darle minimamente la percezione di essere seguita. perché questo fastidio? semplice: è il mio essere portatore sano di patriarcato. lo sforzo nel non ignorarlo, quel fastidio. come scacciar col muovere delle dita una mosca che ti ronza attorno. guardarlo ben bene negli occhi, quel fastidio. avere un po' di coraggio, o forse solo onestà, e dirgli: adesso facciamo i conti noi due.

e quindi alcuni dettagli rilucono in modo un po' diverso.

quando arrivò, là dentro, la nuova responsabile del gruppone dei sistemisti et alter, colei che rispondeva direttamente al cio. lei con i suoi bei occhioni azzurri. lei, cui stavo talmente più sotto che in quei casi tu mica ci parli. ci sono almeno un paio di livelli in mezzo a far da interfacce. 'sta cosa qui mi rugò in maniera non esattamente serena. perché se ne stava in un ruolo piuttosto apicale, ben sopra di me e a cui rispondere, una persona che iniziava le elementari quando io mi laureavo? o anche perché fosse una donna? anzi, del mio punto di vista: una ragazza? non è una domanda retorica: davvero allora non avrei saputo rispondermi. ora forse sì, per quanto la questione di genere c'entrasse [davvero] poco. ma quel [davvero] poco c'era. portatore sano.

quando la mia amica roby mi cazziò, per la storia della proposta di spegnere l'illuminazione pubblica su alcuni monumenti: per risparmiare, più che altro. io ero d'accordissimo. lei stigmatizzò quel mio favore, e lo fece anche con la sua spigolosità di persona acuta [c'è un doppio senso. se non si era capito. ma nel senso che ci sono entrambi i sensi. l'amica roby è la persona più intelligente e capace conosca sotto i quarant'anni. che dà la biada a persone che di anni ne hanno anche ben di più. tanto che, in alcuni ambiti, la differenza d'età non la percepisco. e non perché sia involuto io]. io un po' ci rimasi male. non solo perché, se vuole, l'amica roby sa uscire pungiglioni dolorosi. ma come? te la prendi con me? "che quando mi trovo a camminare, specie di sera, dietro una ragazza... [etc.]". in realtà in quella cazziata c'era il fatto non cogliessi del tutto il suo [sacrosanto] incazzo, nel non sentirsi del tutto sicura a camminare di notte. spegnere i monumenti avrebbe contribuito - tanto, poco - a farla sentire ancora meno sicura. al netto della logica formale stringente [la parte di milano con monumenti che sarebbero stati spenti è davvero minima, per lo più in centro, zone mediamente meno insicure], fu il non cogliere appieno quel disagio. che lei ha tutto il [sacrosanto] diritto di viversi, con il [sacrosanto] diritto di non volerlo più vivere. disagio che io non ho [quasi] mai percepito. un po' perché so babbeo, di certo. ma soprattutto perché son maschio. essere portatore sano ti disconnette - poco, tanto - anche da ciò.

è per questo che vivo con molto coinvolgimento, dallo scorso anno ancor di più, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. è un modo di combattere il mio essere portatore sano di patriarcato. non solo il venticinque di novembre. so che non basta, ovvio. e non è detto che qualche epifenomeno non riesca a scappar fuori ancora, qua e là. siamo tutti fallaci e perfettibili, figurarsi. però sono ragionevolmente certo che sì: non ignorerò mai più il fastidio, dovessi trovarmelo ancora di fronte. lo devo, da maschio, a tutte le donne. s'ha da fare. non ho figli da educare, specie maschi, per fare tutte e tutti passi avanti. però posso dare il piccolo contributo a cacciarlo fuori - tanto, il più possibile - da me. estirparlo. lo voglio, ci devo essere anch'io. perché "il patriarcato esiste, se non lo vedi sei tu".



Saturday, November 16, 2024

fianco

non dormo quasi mai supino. tanto meno a pancia sotto. una volta sdraiato sul letto mi giro su di un fianco. poi, se siamo in stagione fredda, mi accuccio in posizione fetale, per raccogliere il calduccio. non mi viene automatico girarmi sul fianco sinistro, se lascio andare le cose, infatti, mi giro su quello destro. quando succede è raro non pensi alla prima immagine che ho di mio padre che ormai non c'è più. disteso nel letto, sotto le coperte, di spalle rispetto l'ingresso della camera, girato sul fianco, quello destro. è raro non ci pensi ormai da diciannove anni. che in diciannove anni uno fa in tempo a farsi quasi uomo. che quindi rispetto a quel momento, quando lo vidi girato sul fianco destro, sono passate vite, quasi tutto è cambiato per rimanere piuttosto autosimilare a sé medesimo. forse faticherei a riconoscere quel me di allora, in alcuni aspetti, ambiti, convinzioni. eppure ci sono immagini, momenti, sensazioni, suoni che sono lì, anzi qui, vividissimi. quasi stessero succedendo ora. dovessi concentrarmi e pensarci intensamente so che rivivrei le emozioni schizofreniche di quel momento di passaggio. provo a deconcentrami, e de-intesificare il pensiero, per lasciarle lì sullo sfondo. forse scriverci un post non è l'idea più geniale possa sgorgare da sinapsi infreddolite dalla nebbia che c'è stata oggi, ma tant'è.

poi uno dice che non ama troppo il mese di novembre.

ieri, ad un incontro di bookcity, ascoltavo una psicoterapeuta presentare il suo libro [e comunque niente. hanno una cadenza, uno scandire, una metrica, una musicalità che le accomuna: probabilmente rassicurante. la grande intuizione potrebbe essere: perché fanno quel tipo di lavoro?]. ad un certo punto ha coinvolto noi astanti in un piccolo giuoco auto-terapeutico. e ci ha sollecitato a ri-tornare all'intuizione, al ricordo sepolto, al significato di cordone ombelicale. in senso stretto ed in senso lato. cioè anche tutto quello che ci è stato trasmesso attraverso. il senso lato era tutto ciò non propriamente ostetrico-fisiologico.

e qui sì, col senso lato, sono andato temporaneamente un po' in crisi. niente di grave, neh? ma una malinconico sguardo al pavimento e il frullare di pensieri, sensazioni. non ho potuto pensare anche a tutto quello che ha passato mio padre. ed anche quello che non mi ha passato, per quanto sia un po' più nebulescente. prova te a definire qualcosa che non c'è, o non c'è stato. forse più semplice intuire, seppur in modo molto vago, quanto invece ne avrei avuto bisogno. o quanto lo avrei desiderato allora, senza rendermene conto. piuttosto inutile immaginare cosa sarebbe successo se. mi è tornata alla mente una frase su mio padre buttata lì da matreme, una manciata di giorni fa. forse buttata lì senza troppa convinzione. o forse fottutamente illuminante. specie calandola, ex-post, nella chiave di lettura della psico di cui sopra, quella del libro: diventa esplicativa di tutta una serie di titubanze mie. che uno dice: ovvio sia così non del tuttissimo in bollissima. o meglio: i prodromi c'erano per venir un po' su così, poi le cose succedono nel corso degli anni, anche in maniera molto casuale. che nell'essere un privilegiato di questo occidente, qualche spruzzatina di sfiga qua e là c'è stata. pur non credendoci, alla sfiga. e comunque l'effetto finale è un po' questo qui.

però, basta dar tutto quest'importanza deterministica al passato, che è passato. ed anche a sapere il perché di quel che poi è stato, ora è importante il come fare le cose. ora.

facendo pace con quello che fu. anche alla luce di quello che è stato possibile. forse oltre che inutile è anche dannoso immaginare il se di cui sopra. tanto più che ora scatta quasi pavloviano il ricordo di quando mi giro sul fianco destro, prima di addormentarmi, e trovarmelo ogni tanto nei sogni. capita si litighi. ma lo sappiamo che non è lui, ma sono io, una parte di me che con lui c'entra il giusto.

sì, c'è stato un trauma. vederlo sul fianco dentro, sotto le coperte, è uno dei dettagli. un trauma accompagnato da non volermi disinteressare di quello di matreme. non è semplicissimo. ma è l'unica cosa fosse giusto [e sia giusto] fare. è come restituire un po' di quello che è passato dal cordone ombelicale, in senso lato ovvio. si diventa anche genitori dei propri, come se i ruoli in alcuni aspetti si invertissero. che poi, plasticamente, era quello che stava facendo frateme, cullandolo, l'ultima immagine che ho di mio padre da vivo.

tutto il resto lo si porta dentro, per fortuna, in maniera inevitabile. tanto più se si ha contezza di quello che di buono, molto buono è passato.

c'è dentro anche quello, lo so, quando mi giro sul fianco destro, prima di addormentarmi.

Saturday, November 9, 2024

brotherismi

e comunque 'sta storia scriva i post il giorno del genetliaco di fratteme, qualcosa dovrà pur significare. in un in intreccio, che peraltro credo coerente, con le suggestioni dei sogni che tornano abbastanza di frequente. roba che son tappeti di sensazioni tra il piacevole, il confortante, con dentro contrappunti di nostalgia leggera, e con spolverate di malinconia q.b.. e soprattutto sogni, onirici, in cui la casa dell'hometown è quella di com'era nella gioventù, quando abbastanza tutto era possibile. se lo era la casa, per sillogismo, lo siamo anche noi che vi ci abitiamo. oppure, sempre nell'hometown, la casa è nuova, recente, e dentro vi è una progettualità che è sempre la sua. quella di fratteme, intendo.

la cosa che mi sorprende è che, nei sogni, non c'è invidia, gelosia, o senso di inadeguatezza. quello sì, della gioventù. ma un certo senso di ammirazione. come se, in fondo, indicasse come si fa, o da che parte andare. anche se poi lo sappiamo che siamo noi, nei nostri sogni, anche se ci appiccichiamo le facce di altri.

c'è il fatto che sono sogni che si portano dentro qualcosa di indefinito, specie nei suoi confronti. non so se sia affetto, o rimpianto, o un mics tra le due e più cose. oppure altro, quello ad esempio che non so vivere, compiutamente, quando son sveglio. se non da lontano da lui.

anche tipo il mio non essere esattamente pensiero-azione. cosa che invece inesorabilmente è lui. ce ne ha dato la prova qualche settimana fa. sono quelle cose che sgorgano dalle situazioni che si sono sì, sclerotizzate, ma c'è ancora tempo acciocché crepe possano crearsi. da cui spuntano nuovi virgulti. non so se affetto, non so se amore fraterno e filiale, non so se riconoscenza. non so se è solo riportare un po' tutto a casa, nei legami degli affetti che si sono sfilacciati. che si erano un po' rotti, o forse interrotti, o forse no, perché poi son cose che hai dentro, non ostante le differenze, le visioni del divenire che divergono. riportare a casa, appunto, forse è anche per questo che lo sogno nelle casa della hometown. quella che fu o quella che, nuova, sta lì accanto.

poi sì è vero, scrivo imbarazzato, ed imbarazzato gli farò gli auguri, ben ammantato della mia coda di paglia. che non riesco a smontarmi dalla testa l'idea che abbia fatto molto di più io, per sfilacciare, piuttosto che l'inazione di lui. non c'era volontà, non c'era dolo. c'era tutto uno strutturarsi che è venuto fuori così, un po' pezzottato. non ostante rivendicassi una qualche forma di superiorità etico-morale, mentre cercavo di definirmi in un qualcosa che doveva essere più complicato ed articolato degli altri. scegliere l'arzigogolo, invece della linea quasi retta, come aveva imparato a spianarle lui. troppo facile così, stavo lì col ditino puntato. difatti. ora sono io con questo sottile senso di dispiacere, e forse anche un po' di colpa.

le solitudini di matreme e mie, per ragioni ovviamente diversissime, ci hanno fatto guardare quello sfilacciarsi, come inevitabile, strutturale. al limite con la piccola foglia di fico che si sfilaccia in due, con reciprocità uno a due. senza contare le altre debolezze, mimetizzate da sicumera, che l'hanno tirato anche da un'altra parte. non è stato semplicissimo. siamo famiglia un po' così. non si sente avvinghiante il legame di sangue. non credo - voglio sperare - ci sia il legame dell'affetto che prescinde quell'altro, per fortuna.

questo voleva essere un post genetliaco. non è un post da lieto fine [d'altro canto, questo blog ne è pieno. [si scherza, neh?]]. quello dove il dolly sale mentre la puntata termina col sorriso. forse non riesce nemmeno ad essere un po' genetliaco. che poi li scrivo, ma lui mica ne ha mai letto uno. e chissà se mai li leggerà. però dovesse accadere non possa farglielo sapere io, che ci pensi qualcuno dei tre o quattro che passano di qui [l'amica roby, quando eravamo ancora amici, mi disse che avrei dovuto passargli i link. poi è successo il resto con l'amica roby. non che abbia un qualche nesso causale con il fatto non glieli abbia mai passati, i link]. di certo c'è la confusione, oltre i refusi, di cosa vorrei davvero scrivergli, augurargli. che almeno qui non c'è quel senso di affettuosa estraneità che si frappone, dal vero, le poche volte che ci incrocia. affettuosa estraneità, probabile, a celare l'imbarazzo.

non è un post con il lieto fine. però, mentre provavo a raccogliere qualche idea, mi è comparsa l'immagine del kintsugi [che mica ricordavo come si chiamasse, però basta chiedere al signor gugol]. i pezzi che si ricompongono con dell'oro. dalle crepe possono spuntare virgulti. oppure i pezzi rotti si possono ricomporre, impastando anche i legarmi sfilacciati.

il genetliaco è il suo. lo auguro però tanto anche a me.