Wednesday, December 30, 2020

mettiamocelo alle spalle, francamente un po' fastidiosino [niente divisione tra destruens e construens]

salto a piè pari la menata del simbolismo e la convenzione che è un anno, con la storia che all'ultimo che si tira le fila. e tutte le psicocazzate che ci girano intorno. solitamente ci iniziavo il post della pars destruens dell'anno. poi veniva il post della pars construens. di solito era così. in un anno normale. per quanto possa essere normale un anno.

questo, di anno, francamente un po' fastidiosino è tutto tranne che normale. per quanto non possa essere definito di merda.

sgombrerei anche il campo delle ovvietà. questo non è stato il peggior anno per il mio ombelico. quello in cui mancò mio padre non voglio nemmeno pensarci a confrontarlo. [poi vabbhé. massì. lo dico. ormai. per quanto mi sembri un'immane cazzata solo di casualità. è che avevo trascorso il capodanno in quel freddo meneghino entrando in quello di anno, oltre che di quest'ultimo. non c'entra un cazzo. lo so. non voglio scivolare in queste isterie scaramantiche. non ha senso. sono uno scettico razionalista - e pure tignosamente rompicoglioni su 'sta cosa. è stato solo un caso. quindi nessun nesso causale. e poi dove passi una cazzo di serata assolutamente qualunque nei dintorni del solstizio invernale, è una sovrastruttura che ci teniamo addosso, come un grumo di paura dell'incerto e del futuro delle cose, che affonda nei recessi dell'oscurità della nostra ragione che via via si è formata e consolidata. cazzo. ci sono di mezzo almeno due secoli e mezzo di illumismo. non dovevo nemmeno pensarla 'sta cosa. figurarsi scriverla. suvvia. siamo oltre queste minchiata.  [e comunque niente. è solo un dettaglio da diiiipiiiisciiiemmme che a 'sto giro non sono a milano]].

dicevo di sgombrare il campo dalle ovvietà. sgombriamo quindi. sono in salute. matreme e le persone più o meno vicine pure. ho un lavoro. che continua non piacermi. ma per i paradossi che spuntano qua e là è molto molto molto probabile che così tanto non fatturerò più. per dire. 'sto cazzo di anno che lasciamolo andare, buttiamolo: ma è stato il più danaroso di sempre. quindi nemmeno troppo di cui lamentarmi, personalmente. ad essere obiettivi.

non solo. aggiungerei uno sguardo critico all'ovvietà. allargandolo. questo è stato l'anno peggiore da lustri et lustri et lustri soprattutto per la civiltà del primo mondo. c'è chi ha cazzi ben più impegnativi et penetranti dei nostri, che si è visto aggiungere giusto un fardello in più. roba tipo: ah, c'è pure 'sta cazzo di pandemia per questo virusssssedimmmerda? 'spetta che faccio posto nel proluvio di ammonticchiamenti per cui avrei financo motivo per lamentarmi, scoraggiarmi, lasciar andare tutto. ma comunque tengo botta. che vivere è quel vizio che spinge e pompa di più di tutto. al netto del concetto di giustizia che da queste parti evapora manco la rugiada nel deserto, quando il sole comincia a picchiare. anzi. la storia della rugiada è financo un'immagine troppo poetica per come si sta piuttosto lontani dal concetto di giustizia qui da noi, e 'l modo ancor m'offende [cit.].

però. appunto. e considerato che non è andato esattamente tutto bene.

non ostante tutto [ie io non sono l'ombelico di niente. in fondo nemmeno di me medesimo. han provato mediamente i cazzi anche quelli del primo mondo]. credo sia un immenso, incommensurabile, intrattenibile, corale desiderio di sfancularlo. io come tutti, e mai mi sono sentito così coinvolto in questo impeto et desiderata. per quanto è il solito, inevitabile, innegabile continuum. il divenire prosegue senza soluzione di continuità. ce lo stiamo togliendo dalle palle. ma scivolando in quello nuovo non cambierà da subito 'sto granché. anzi. ma è la solita convenzione di cui sopra. ma come non mai mi piace pensare che evviva le convenzioni. se in maniera tra l'apotropaico, il catartico e lo sguaiato lo mandiamo afffffanculo. peeppeeepepppeeppeeeppeeeeeppeeee [musichetta da trenino di veglione trash] godiamoci questa cazzo di convenzione.

e lasciamo alle spalle quel che ognuno - primo, secondo, terzo, quarto mondo - vuol lasciarsi indietro di questa cosa. qualsiasi cosa e in qualsiasi modo si sia declinato. non ci ho nemmeno voglia di dettagliare cosa. un esercizio che davvero eviterei, a 'sto giro. tutto nell'umido. a macerare. sperando ne esca del concime.

anche perché così mi piacerebbe far crescere quelle stille che mi porto volentieri dietro. piccoli attimi. istantanee. momenti tanto veloci quanto importanti. salire un sentiero con il lanternino. spegnere dopo anni la classica candelina sopra la classica torta. scoprire piccoli borghi così vicini e mai visitati. finire alcuni libri. parcheggiare l'auto e far pat-pat sul retro e dire: grazie macchinina di avermi portato quivi. saturno e giove che allineati si buttano nel mare. certi tramonti sul terrazzino e starci per dare una mano. tornare a teatro, alla presentazione di un libro, ad un concerto. il sole che s'incunea innondando di luce fiduciosa la piazza ché il lunedì mattina non impaura. l'idea di incrociare persone nuove. il passeggiar per boschi rincorrendo la linea del tramonto e poi guardarselo in mezzo al lago. mica tantissima roba. ma con quel pizzico di abilità in più nel saperli riconoscere, quei momenti. come ad annullare la latenza tra il viverli ed aver contezza si sarebbero portati appresso - struggenti, dolcissimi, rasserenanti, figosi, quasi felici - anche in quello che viene. come attimo di vita importante.

anche il ricordo di quel pomeriggio in cui ho saputo dell'ermi. che ancora non mi sembra vero se ne sia andato.

ecco. concimar 'ste cose qui. con la putrefazione di quel da gettar nell'organico. e far crescere e maturare quel desiderio di riprendersi quel che è mancato. 'ché darlo per scontato è roba mica tanto scaltra. che ricordarselo e passarci in mezzo, prendendo quello che c'è da cogliere ce lo si merita tutti [ecccccheccazzo!]. diventa quasi dovere morale farlo al meglio. chi potrà. quando sarà. in un anno dispari. che son sempre i numeri meno banali.

 



Sunday, December 27, 2020

su "film bleu" [o il paradosso di]

può essere che - sfrucuglia sfrucuglia nei post addietro - di "film bleu" abbia già scritto. psicopipponizzato. non è un grosso problema ripetersi. in fondo il bloggggghe è un reiterato, poliedrico, disincato osservar il burrone che c'è dentro. come è in un po' tutti. c'è chi lo guarda più spesso di altri, per quanto può non essere la cosa più scaltra da farsì.

vabbhé.

dicevo di "film bleu". nella pittatura della memoria, quando pesco questo filme e di quando lo vidi, ci associo indissolubilmente l'amico itsoh. e quella ragazza con cui si discusse del film medesimo appena fuori il cinema. e del fatto che erano molto alternativi a me, la ragazza - invero che non mi interessava eroticamente - il gruppo che era lì a vedere il filme e quindi tangenzialmente anche l'amico itsoh. solo che l'amico itsoh mi suscitava quel misto di ammirazione e di affetto che non ho provato con tutte queste persone in quegli anni. giusto l'amico emanuele, l'amica laura e con tutte le complessità del caso anche l'amico andrea - che verosimilmente era il più ingegnere di tutti, dentro. poi guarda caso solo con uno di costoro non sono rimasto in contatto. quindi l'amico itsoh era un tramite verso un gruppo di persone - allora - troppo distanti. io che avevo la necessità importante di quel ritorno uterino in quel dell'oratorio dell'hometown. ho lasciato andare opportunità, che i coglion ancor mi girano [semicit]. troppo intimidito per uscire da quella cosa uterina. con tutte le conseguenze giù, giù, giù, giù fino a questo punto. nel senso di questo punto "."

vabbhé. divago. di "film bleu" [liberté].

Jiuliette/Julie passa attraverso un nugolo di punti angolosi. quello che scatena il dipanarsi del senso del filme è doloroso, traumatico, devastante tanto quanto inaspettato. e si ritrova sola. senza gli affetti e l'amore della vita per cui soffrire. nel senso che escono dalla sua vita, quindi il dolore è per quello che le è tolto. non per quello che potrà venire. ed è così che si scopre essere la musa ispiratrice del marito compositore contemporaneo. se non colei grazie alla quale quella musica prende vita. in quel [poli]trauma si acclara il processo creativo, in cui realizzarsi. in quel punto angoloso, oltre il tentativo di suicidio, Juliette/Julie conquista il paradosso della sua libertà. sola. gli affetti, le persone che si amano contengono la complessità del fatto saranno portatori di gioia. ma anche dei dolori che possono promanare e che possono declinarsi. e quanto il dolore sia una cifra per cui si sia legati a qualcuno.

a guardarla con il cinismo che mi escono certi mood nataliferi è un paradosso. probabilmente necessario per il progredire dell'umanità. l'amore per gli altri è anche il perno dove si arrotola quel legame che ci può soffocare. qualsiasi sia il perno, qualsiasi sia la corda, qualsiasi cosa significhi soffocare.

ora.

questo filme mi si arrampica nella mente, in questi giorni. guarda un po'. e che salti fuori questo post, in queste feste natalifere, di questo periodo, di questi tempi non mi meraviglia. e non dovrebbe meravigliare quei cinque o sei là fuori. per quanto ribadisca non abbia nulla di cui lamentarmi. per quanto non avete idea di quanto desideri per Voi che quei perni, quelle corde siano lasche, talmente lasche da farle sparire sotto tutta quelle ondate di amore, di affetto, di bene. complicate ma pur sempre ondate.

ripenso così quel filme. e ci attacco questa sintesi sottrattiva, dove per espuntare il dolore si leva tutto il resto. non augurando a nessuno nessun punto angoloso, ovvio.

e vivendo la contemporaneità di aver necessità di solitudine et distacco, unito alla fatica di continuare a trovarmicisivi. un po' per scelta. un po' congiuntura. un po' per struttura. e rendendomi conto - plasticamente, inesorabilmente, fortunatamente - delle complessità dei vissuti di chi mi c'è intorno. del peso di anni, episodi, vite, che dai loro affetti hanno ricevuto meno amore di quel che avrebbero desiderato e meritato. con tutto quello che di inespresso, trattenuto, soffocato, irrealizzato è venuto di conseguenza. anche su di me. è un po' faticosino tutto questo. in questi giorni serenamente faticosini. in cui si alterna la declinazione del sentirmi stanchino. che poi capiti a natale ha un suo senso. genuino, vero e per nulla conformista. tutta la paccottiglia verso cui si sente itterizia è altra roba e paccottiglia rimane. questo senso del perché proprio in questi giorni è perfettamente coerente. ed l'eco del vociare - colla voce da bimbo - di bisogni essenziali, fondamentali.

vorrei lasciare andare il fardello. il perno, la corda: vorrei non ci fossero. so che non è possibile. ho anche una discreto fottuto spaventino aggiungerne altri. eventuali, ipotetici, nuovi. ma so che non sarà meglio quando continueranno a non esserci. né le altre possibilità che potrebbero schiudersi.

perché io lo so che rimarrò solo. ho la vaga sensazione non sarà come "film bleu". e non per il punto angoloso che non voglio vivere - eccccheccazzo - ma soprattutto perché non ci sarà quel un soffio di speranza che il finale insuffla, per quanto sia stato doloroso far sì potesse insufflarsi. non compongo musica [anche pure 'sta cosa mi sarebbe piaciuto fare]. scrivo solo psicopippe, senza il coraggio di strutturarle in altro. quindi non sarà per tutta una serie di circostanze. non so se e come e quanto mi mancherà quel peso, qualsiasi cosa significhi, del portato di questi giorni. quanto sarà leggera quella [eventuale] libertà. quanto levità a contrapporsi al peso di quel che è mancato. per quanto possa essere pesante un qualcosa che non è stato. libero, forse giusto per il discorso del burrone di cui sopra.

per quanto, in tutto questo, ci sia pure l'odore di sensazione di volpe et uva. e di nuovo è un bell'esercizio di onestà anche riconoscerselo. che è un fottuto peccato sia mancato tutto quello che è mancato, molto più a monte e prima di me. al netto che, rimbalzo dopo rimbalzo, avrei potuto goderne un po' anch'io. è un fottuto peccato. ma riconoscerlo non so quanto faccia saltare dei perni, allenti il cordame, allontani il soffoco. però è conquistarsi un pezzo di libertà. a suo modo. magari condizionata. ma che forse sia pur sempre liberté.

 


 

Friday, December 25, 2020

reductio ad absurdum, natale intendo

esfogliando, esfogliando. alla fine qualcosa rimane pure. non so sia il senso più autentico, vero. o essenziale, nel senso di essenza. quello che il nuovo mood natalizio ci dicono si debba fare. nel senso di riscoprirne il senso più profondo. o scoprirlo, come se prima non fosse mai stato, e morta lì.

non mi interessa 'sto granché riscoprire alcunché.

e vorrei anche fuggire, quel che posso, quel che riesco, quell'ossessione personal-teleologica. che qualsiasi cosa di un certo riverbero emotivo debba avere un qual suo scopo, più o meno ultimo.

però esfogliando, esfogliando mi son reso conto che se ha senso, proprio quest'anno, proprio questo natale - anzi 'stocazzodinatale - è pensare più forte delle altre volte a chi ha meno di me da festeggiare. e mica perché ha i coglioni girati, è stanchino, è insoddisfatto, o deve cercare di ubriacare questo senso natalifero.

no. no. coloro che ho incrociato lontano o vicino nel tempo, che davvero hanno un significato, per non veder l'ora che passi, 'stocazzodinatale. chi ha perso qualcuno innanzitutto: qualcuno in meno con cui festeggiare, posto che non so quanto ci sia da festeggiare. chi è in cazzi importanti più o meno esistenziali, più o meno lavorativi. chi è solo, ma solo, non una solitudine compagnosa come la mia.

ecco, le mie piccole bagatelle sono da trastullare, pensando a costoro. che poi sono gli unici cui invierò degli auguri di 'stocazzodinatale. anzi. non esattamente auguri. ma un pensiero. a tutti gli altri risponderò se augurato. o pensierato.

se un un'approssimazione di concetto di senso possono averlo, queste giornate riverberanti di questo tempo sospeso di questo periodo nuovo, è mettermi in sintonia con queste persone. tacendo delle ingiustizie immemori che avviluppano questa umanità così traballante.

esfogliando, esfogliando si arriva al cuore, che poi può essere nocciolo. e si può anche fare pace. tanto da non aver più paura a dire che 'stocazzodinatale, questo 'stocazzodinatale mi intristisce. per tuttuncomplessodicose. anche quello di non viverlo come vorrei. 'ché lo desidererei diverso. ma è talmente essenziale che non devo più sfancularlo, fingendomi oltre, raccontandomi altro. sì, così anche no. anche se poi 'stigrandissssssimicazzi 'stocazzodinatale. mi intristisce, ma non mi abbatte. lo vorrei altro. passerò attraverso quello viene. anche se intuisco non mi piacerà. lo so. anche quando lo riguarderò in futuro. non come [alcuni di] quelli andati che non capivo come fossero già occhei. anche se non vedevo l'ora fossero passati.

no. questo non mi piacerà affatto. però non devo fingere, distrarre, o mimetizzarmi, fischiettando indifferenza. è già una bella conquista. tecnicamente un regalo di natale un po' per dimostrazione per assurdo.

eppppperò con un pensiero a chi pensa a chi non c'è più. a chi pensa sia fottutamente complicato, a prescindere da 'stocazzodinatale.

Sunday, December 20, 2020

dei ritorni. o andate. è pur sempre una questione di dove metti l'origine. qual è l'offset.

questo è un post intimista. ohibò, a dirla tutta, [quasi] tutti i post sono intimisti. è che questo è diversamente intimista. almeno: questa è la percezione ex ante che ci ho.

sono stato a milano quattro giorni. deciso senza pianificarlo troppo. volevo tornare in quella casa, o quello che rappresenta. volevo riprendere possesso dell'appartamento. volevo dare una piccola deviazione all'incedere immutato di questi giorni di tempo sospesi. volevo rivedere persone. mi ha fatto bene. o quanto meno è stato un soprassalto emotivo. davvero.

e così alla fine ho chiuso il gas. cosa che prima non facevo mai. ma da che il rubinetto di sicurezza è così bene in vista e, soprattutto, da quando non so dopo quanto ci tornerò, è l'ultima azione che fo. poi esco da casa, chiudo tutto e parto. così è successo anche oggi pomeriggio. e mentre serravo la manetta quella puntina di malonconica tristezza mi ha preso, fin giù alle falangette di pollice et indice, ad accompagnare quel gesto serrante. che è un po' cura, un po' rito, un po' timbro che si sta lasciando la casa. quasi che la malinconica puntina volesse assicurarsi che lo stessi facendo. o che la tristezza malinconica - una puntina - mi facesse prendere contezza di quel momento.

anche solo per confondermi un pochetto i piani. e rendere ancora - tanto per cambiare - sfumata et indefinita la percezione, la volontà, il prodromo delle cose che potrei, dovrei, fare.

non è una novità. figurarsi. ed è l'eco che si propaga da lustri. che non è netto e chiaro esattamente dove e quale sia casa. nel senso di home. che non mi sono mai allontanato abbastanza dall'hometown. e quindi in questo medio per nulla assertivo sto, donde nun ce stat virtus. non a sufficienza via dalla casa bambino, acciocché altra sia casa. non riesco a consustanziare abbastanza il concetto di casa adulta, acciocché me ne riesca ad andare via di casa definitivamente.

e non aiuta nemmeno che oramai quella casa mi stia piccola, chiusa e stretta, che non [si] scalda abbastanza. da non riuscire a provare a plasmarla del tutto come mia. vuoi perché in affitto. vuoi perché è come se avesse terminato una sorta di significato, di simbolo, di suo ciclo. posto che esista. e comunque pare stia entrando nell'ottica di andarci oltre. con l'impegno pragmatico questo comporta. di cui non sono propriamente onusto, ed in un momento dove tutto sembra sospeso. in attesa di intuire che cazzo succederà.

ovvio che ciò non rinsalda e struttura l'assertività dentro. ovvio che a uno non passi la perplessità ontologica. e a questa [crisi di mezza] età dei mumble mumble munble si consolidano.

poi uno dice non si sente realizzato. è come se non avessi tutte 'ste gran radici. e non sapessi dove infilarle [le radici, ovvio].

 

in tutto questo però, guarda un po', mi son goduto il viaggio di ritorno. davvero. poche ore prima chiudessero tutto. il traffico - quel pochissimo che c'era - è via via evaporato, sotto la pioggia. non ho voluto neppure premere troppo sull'acceleratore. negli ultimi chilometri, nel susseguirsi casuale delle canzoni emmepitre è partita "la donna cannone". che non c'entra 'sto granché. però mi è parsa la canzone giusta: la delicatezza di quel testo da enorme mistero volò, la gentilezza degli archi nelle volute a salire, quelle note lunghe avvolgenti. ho rallentato un briciolo. per tenerlo quella stilla più lungo, il viaggio di ritorno dico.

o di andata.

è sempre una questione di punti di vista [e vabbhé che ora, adesso, in questo momento non so esattamente come guardarla, la prospettiva.]

[e chissà se poi, in effetti, è diversamente intimista 'sto post...]

Monday, December 14, 2020

di messe tridentine e del mio agnosticismo

oggi sono stato ad un funerale. matreme se ne fa almeno un paio a settimana. capisco perché ne abbia decisamente pieni i coglioni. ed ho contezza, esperita, su uno dei motivi per cui sia sconfortata ed ogni tanto perda un pochetto la brocca

per una serie di situazioni la celebrazione è stata officiata con il rito tridentino. tutto in latino [molto cantato], celebrante rigorosamente voltato verso l'altare spalle gli astanti, ritualità portate a livelli cornucopiali. l'inizio è stato piuttosto una frustata. mi son detto: sono le ultime volontà di uno che sapeva se ne stesse andando, concediglielo.

con l'occasione ho scoperto che, nei funerali d'una volta, dopo il vangelo [di cui nessuno capiva un cazzo, tutto in latino] non c'era predica. non era contemplato si ricordasse il defunto, tranne che con la preghiera, qual è il saluto della celebrazione funebre. [parentesi uno: chissà se quel prete ha una vaga idea del significato antropologico e psicologico sottesi a quella celebrazione. significati di una natura più antica e pervasiva del rito stesso, cosicché quel rito non è altro che una delle declinazioni possibili. atto necessario per cominciare ad affrontare il trauma del lutto]. poi vabbhé, con la scusa che ci concedeva uno strappo alla regola, la predica c'è stata. al netto del pacato e rappacificante asserire che "ormai tutto il mondo è ateo, così com'è atea quasi tutta la chiesa", è stato un menar stilettate a quei debosciati che erano lì, coloro che seguono il rito post-conciliare. poi vabbhé non ha risparmiato nemmeno i famigliari, quasi a voler togliere per interposta persona alcuni sassolini urticanti. con toni e pigli giudicanti, quasi che l'unico effetto da sortire dovesse essere un chinar il capo, contriti, peccatori e chissà, magari prima o poi redenti. ma parliamone. ho la vaga sensazione che uno bravo avrebbe colto ed individuato degli elementi psicotici importanti. io continuo ad aver studiato altro. però. come dire.

insomma. una sensazione durissima. spigolosa. a tratti irritante. ma uno dei paradossi in cui incappo è quello del rimanere disturbatatamente incuriosito da cose così lontane da me. cosicché mi paiano assaje interessante da osservare. [parentesi due: mi è pure sovvenuto, per la proprietà transitiva, se sia io più lontano dal cattolicesimo ufficiale, piuttosto che il cattolicesimo ufficiale più lontano da questa costola lefevriano-tridentina. e rifacendo la strada al contrario se costoro considerino più meritevole di infamia il cattolicesimo ufficiale oppure uno come me: che dal cattolicesimo ufficiale ha fatto apostasia. poi vabbhè. alla fine stigrandisssssssimicazzi, ovvio]. 

poi è successa una cosa. ero piuttosto isolato e distanziato dal resto degli altri, destinatari delle filippiche. nel dettaglio me ne stavo in uno degli altari laterali della collegiata, appena sotto l'organo. ho alzato lo sguardo e l'ho visto. l'organista. uno di loro. con la sua bella tonaca nera, dalla lunghissima fila di bottoni. che è più di un'uniforme. l'ho visto perfettamente sbarbato, perfettamente pettinato. con le mani giunte. che osservava dall'alto. tra un'esecuzione e l'altra [invero un più che discreto organista. per quanto il registro basso del fagotto, che ad un certo punto ha utilizzato bello convinto, mi sa che è stato restaurato in maniera forse troppo dura. un effetto acustico moderatamente inquietante]. l'ho osservato. e mi è parso di cogliere una tronfia serenità ed altera superiorità verso quello che stava succedendo. e non solo perché osservasse tutti dall'alto del piano dell'organo.

che magari ho visto male. che magari il mio bias è piuttosto marcato. e distopizza. però ho avuto la sensazione di incasellarla quella spigolosità, pacata, ma durissima. ed ho pensato - per un attimo, per assurdo - che da una parte li invidio un po'. perché la fottuta contemporaneità, del mondo delle cose che succedono, deve spaventarli parecchio. ne avrebbero anche abbastanza ben donde. il divenire è tragicamente complesso. qualcosa che trascende tutti e tutto, tanto sono immense e implacabili le dinamiche in cui siamo immersi. sballottati come fuscellini in mezzo ad una tempesta. cazzo se è tutto complicato. cazzo se è qualcosa di potenzialmente terrificante. la panciona paciosa della gaussiana in gran parte rimuove. ed è tutto uno sbucare di succedanei: variegatissimi, da riempire quintali e quintali di possibilità con la quale si prova a spassarsela, o si pensa di. produci-consuma-crepa. ci sta che una parte, spaventata e scandalizzata da quella complessità, si arrocchi. scegliendo una declinazione trascendente di quell'arroccarsi. e ci si trovi pace e serenità, o qualcosa che si scambia per.

così, a pensareci bene, non meraviglia l'incedere impetuoso della filippica. si incasellano per bene la ritualistica, il recitare in una lingua passata, lo scampanellio a ricordar i passaggi topici*, il muoversi coordinato e la ripetizione degli inchini, ognuno sicuramente con un suo particolare significato. non vorrebbe essere saccente lo sguardo pacato dell'organista. loro se ne stanno conchiusi sopra la rocca di quell'unica [solo la loro veramente autentica] fede. arroccati ed in alto. talmente con la convinzione di starsene nel giusto da sentirsi protetti. ovvio che poi uno si percepisca col culo al caldo. ovvio che tutto il resto si osserva con un'alterità, che prova a provare compassione, ma in fondo sono un po' cazzi degli altri, nel senso di coloro che non sono loro. ovvio che all'interno della loro bolla sia tutto così rigorosamente armonico: perché se espunti il dubbio del confronto con il resto, te ne puoi stare sereno a pensarti a tu per tu con la parte dei giusti. ovvio che quando il mondo appare incasinato, si fa prima a bollarlo come corrotto, chiuderti la fortezza e rivolgere lo sguardo al passato. che è passato. sai com'è andata. tutto diventa meno incerto. è tutto fottutamente più semplice. è tutto molto meno faticoso. è tutto pacificatamente rassicurante. roba che non ti viene di metterti le mani nei capelli. tutti ordinatamente pettinati.

è un gran sollievo.

non so. davvero. forse non ho capito un cazzo. forse è la percezione di essere incappato nella curiosità per l'assurdo. forse è che la fottuta caducità del casino che ci circonda è da preferire alle certezze di starsene sulla rocca. spigolosi. così già onusti di salvezza eterna.

preferisco il dubbio. e se mi riesce far un tocchettino per l'umanità. atei o non atei che siano.

anche perché oggi ho assistito, incuriosito, ad un qualcosa di molto interessante dal punto di vista antropologico. ma che per altri punti di vista è totalmente arido. talmente impegnati a glorificare l'alto dei cieli, da dimenticare il [complicatissimo] mondo quaggiù. come non foss'altro che da disprezzare perché corrotto, ateo, perduto e lontano dalla grazia. non ho percepito un briciolo, una stilla, un'evocazione di amore, di empatia, di condivisione, di fraternità. di umanità. solo un giudicante, sicumerico, implacabile richiamo a radicalità che - dicono - garantisce il regno dei cieli. ma che nell'immanente non scalda nessun cuore. è roba gelida. dovesse esserci un dio contento di 'ste cose qui, boh. forse è financo meglio il mio agnosticismo.

 

*io non so se l'amica elisabetta passi da quivi. però noi, milleMiGlioni di vite fa l'abbiamo conosciuto uno che discettava sulle varie forme di scampanellio: come, quanto, quando, durante il rito. un po' lo stuzzicavamo a raccontarci - e lui non aspettava altro - un po' lo ascoltavamo come fosse un marziano. ecco. oggi quel discettare è come se si fosse contestualizzato e si fosse consustanziato. ed in fondo, in quei parossismi ritualistici, lo scampanellio ha un suo senso, in quel senso, ovvio.

Saturday, December 12, 2020

un post lungo multipartito, tipo una lunghisssssssima psicopippa a tocchi /2: lo secchiones

stamani ascoltavo gianni cuperlo, intervistato alla radio. ho pensato che il suo argomentare è interessante. è il dispiegarsi di tante istanze in cui credo, che mi appassionano, piene di buon senso e giustizia. che è un concetto che a pensarlo bene mi fa venire la pelle d'oca emozionale. solo che a me gianni cuperlo non mi verrebbe di votarlo, in battuta. a dirla tutta non mi verrebbe di votare pressoché [quasi] nessuno di quelli che siedono là dentro. mi rendo conto che, alla lunga, possa cubare un qualcosa che si avvicina al concetto di problema. ad un certo punto dell'intervista gianni cuperlo ha asserito: i partiti hanno dismesso i centri studi e potenziato gli uffici stampa, e questo è qualcosa che non va per niente bene. col tempo è diventato molto negativo.

credo che anche in questo gianni cuperlo abbia ragione. e che per i famosi rimbalzi mi è tornata in mente una cosa. che avevo un'idea postica che mi frullava in testa la scorsa primavera. l'idea in realtà avrebbe potuto essere quel cicino articolata. e quindi già allora decisi di multipartirla, in più post. e quindi avrei potuto farne una specie di  lunghisssssssima psicopippa a tocchi. ne accennai, poco prima di allora, all'amico emanuele - che rappresenta pur sempre un ventipercento dei lettori che passano di quivi. lui mi disse che stavo creando un hype, ed avrebbe letto volentieri. mi colpì 'sta cosa dell'hype. anche perché mi fa comunque strano possa riuscire a creare una qualsivoglia approssimazione di hype. ma qui si ritorna per le vie brevi al [macro]discorso nel crederci e nell'aver fiducia nei propri mezzi. come peraltro discorrevo veloce con l'amico quiTo - che rappresenta, toh, uotsasurrrprais, un altro ventipercento dei lettori che passano di quivi.

ma non è del crederci [o meno] e/o nel [non] aver grande fiducia nei propri mezzi 'sto post. perché quella è una cifra esistenziale che si potrebbe anche sfruttare per qualcosa di più organico e corposo. ad aver fiducia, ovvio.

no. il rimbalzo ad ascoltare gianni cuperlo è che avevo in testa questa lunghisssssssima psicopippa a tocchi, di cui l'hype e la meraviglia per. e c'era almeno una seconda parte che ancora era da conchiudere in un post. tipo questo. [agggggggià, a dirla tutta la prima parte sarebbe questa].

 

io ho frequentato un itis cazzutissimo. lo scelsi anche per quello: per dimostrare potessi riuscire a frequentare un itis cazzutissimo, per non sentirmi da meno da quelli che frequentavano un liceo. che fosse cazzuto, e che mi abbia preparato in maniera decisamente cazzuta per l'università, è un dato di fatto. esattamente come la sensazione che quella non fosse la scuola superiore facesse per me. ed il fatto ne sia uscito in maniera più che brillante è un riuscitissimo despistaggio interiore ed esperito. dal frequentare quell'itis dipartì tutta una serie di cose e di deviazioni che poi ora lavoro là dentro, per un cazzo realizzato [invero al momento la fatturazione è buona]. vabbhè. itis cazzutissimo. in quell'itis non si rimandava a settembre con gli esami di riparazione. tre insufficienze: bocciato. due anni di seguito con la medesima insufficienza: bocciato. semplice no? per il triennio scelsi l'indirizzo considerato come il più cazzuto. stesso discorso di dover dimostrare a qualcosa o qualcuno di cui sopra. in terza partimmo in trentadue. di quei trentadue in quarta arrivammo in sedici. di quei sedici in quinta arrivammo in otto. cazzutamente non regalavano nulla. però poi avevi la strada spianata. anche nel frequentare ingegneria elettronica.

in terza eravamo trentadue. talmente ammassati che ci saremmo pandemizzati nel volgere di un compito in classe. trentadue maschi. non esattamente la situazione più agevole per me, che maschio alfa dominante non lo sono proprioproprio mai stato. tanto per cambiare scelsi il banco di prima fila, possibilmente vicino la finestra. in un angolo. tutto l'ammasso testosteronico non mi riguardava, stava dietro, come fosse altro. alla bisogna potevo guardar fuori la finestra il paesaggio comunque un po' triste. oppure, spalle alla finestra, osservare incuriosito tutto il resto di quell'umanità, professori compresi. non è che stessi in cima alla lista di quelli popolari della classe, ma neanche l'ultimo degli stronzi [cit.].

ecco. è la posizione conquistata di centro classifica l'elemento cogente del post. che ci sono arrivato, finalmente. 

il posto dietro di me era occupato dal compagno [di classe] ceretti, mica mi ricordo il nome. occhietti piccoli e vivaci, già piuttosto stempiato. aveva il visto simpatico. una specie di cicciobaciccio di quell'ammasso di potenziali nerd. era sempre sorridente, tranne quando lo interrogavano. si incupiva assaje, non dava l'idea di essere il più brillante di tutti. fu uno di quelli che senza troppi dubbi rimase nella metà di coloro che ripeterono l'anno - gli altri sedici. non è che abbia legato poi tanto con lui. aveva la mano felice nel disegnare. ed osservava con una certa arguzia i suoi compagni di classe. tanto che per ciascuno fece una specie di caricatura. ad ogni caricatura un nomignolo, per completarne la tipizzazione. ognuno era un los qualcosas. quindi girarono i fogli fotocopiati di trentadue los qualcunos, e forse anche qualche professore. la mia fu una delle prime che fece, assieme a coloro che stavano lì nei suoi dintorni, quando ancora l'idea di caricaturizzare tutti non gli era venuta. così io rimasi quello riprodotto in maniera poco rispondente l'aspetto fisico. e quindi fui: los secchiones. nel senso che ero un secchio antropomorfo, con la lingua prominente et pendula. come quasi tutti quelli della prima fila o coloro che a visione sua erano, appunto, dei leccaculo dei professori. ricordo che un po' ci rimasi male. ma non lo diedi molto a vedere. osservando quelle trentadue caricature di alcuni si intuiva il trasporto verso il compagno [di classe] rappresentato. di altri un deciso poco afflato, caricaturato. io né uno né l'altro. in una medietà, ed anche un po' straniato dal mio faccione intimidito.

tecnicamente non ci aveva preso in maniera irreprensibile. per due motivi semplici:

  • fino alla quinta superiore non ho mai secchiato 'sto granché. anzi. studiavo il minimo indispensabile. le cose mi riuscivano senza tutto 'sto gran sforzo o abnegazione;
  • non leccavo il culo ai professori. semmai avevo una fottuta esigenza di sentirmi riconosciuto dall'autorità, cui però riconoscevo autorevolezza. è tuttuncomplessodicose che non giova all'economia di questo sbrodolamento postico.

però, specie oggi, credo che potesse starci quell'intuizione da vignetta che mi fece. senza condividere molto altrogli apparivo così, e tanto basta. mi riconosceva una [spocchiosa?] alterità, magari anche legata ad elementi oggettivi, che poi erano i voti che non si misconoscevano. alterità che in fondo mi stava anche bene. una specie di necessità di sentirmi definito in un qualche modo, che avevano poi tutti. anche con il paradosso di sentirmi accettato pur nell'alterità: ero il secchione, non pervenuto come compagno cameratesco, diventavo una specie di metonimia di quello che studia.

stavo a metà classifica. non sarei potuto salire, di certo: stante il mio non essere esattamente un trascinatore di folle. avrei potuto, invece, finire tra gli ultimi degli stronzi. ma non ci finii perché in fondo stronzo non lo sono mai stato. e quindi, se e quando potevo, un'aiuto l'ho sempre dato. nei compiti in classe non mi limitava l'egoismo del pensar saccente che ognuno potesse starsene nella sua ignoranza, in presa diretta con il voto quattro conseguente. piuttosto il fatto avessi una paura fottuta mi sgamassero i professori, in quel pollaio potenzialmente pandemico. e non avrei sopportato l'onta. perché in fondo era più pressante la necessità di sentirmi riconosciuto dai prof, che paracularmi in un'amicizia in cui sarei stato quello più impacciato et timido.

ero a metà classifica, perché probabilmente non percepivano questa riottosità convinta verso quelli meno smart - che alcuni mostravano, peraltro. ma non avrei mai potuto essere uno di loro. un po' perché si fa casino e buuuurdello cameratesco nella pancia della gaussiana. un po' perché i professori mediamente stavano sui coglioni, più che percepirne l'autorevolezza. figurarsi uno che dei professori godeva di una certa stima. tirando un po' sui toni: uno non nemico del mio nemico, non può essere mio amico.

il ceretti, oltre ad essere un bravo cristo - per quanto forse non velocissimo di testa - ed uno con il tratto felice, non era mio amico. ma non è importante. il ceretti non stava sul palmo dei professori. ed ho la pregna convizione che non li considerasse 'sto granché. giusto forse quel moderato timore. il ceretti - nella sua gioviale simpatia - era di certo più attratto da alcuni figuri. molto più trascinatori. di certo non dei fenomeni a scuola. e fottesega se i secchioni erano altri. non erano istanze che meritavano tutta questa stima. magari - anche - per una versione interiorizzata e molto inconscia del concetto di volpe e uva.

ecco. credo che il punto nodale della questione sia un po' questo. sull'autorevolezza che faceva altri giri. per quanto il problema, però, non è il voto in sé. il problema è che potenzialmente si ribalta il paradigma positivista [che nell'eccezioni nevrotiche mie può far comunque danno]. e si strizza l'occhio alla mancanza del voto che ti porterebbe avanti, nell'essere tra i sedici che passano in quarta. ma in fondo 'stigrandisssssssimicazzi. fino a farne motivo di vanto.

è come se cominciasse a rotolare la pallina. ed ingrossarsi. e se si ingrossa e può portare via l'aula professori. e se sai che non c'è più nessuno che entra in classe a dirti: separate i banchi - per quel che si può in spazi potenzialmente pandemici - compito a sorpresa, allora tutto diventa possibile. anche che gli affabulatori che sanno come affascinare il ceretti saltino sul banco e gridino: fanculo il compito in classe. e che vadano a far in culo i secchioni e i leccaculo. non siete [più] nessuno.

non deve fare poi tanto strano che dopo un po' ci si ritrovi circondati di laureati all'università della vita. quelli raffinati hanno l'ufficio stampa che funziona. quelli meno un social media manager senza scrupoli. ed il combinato disposto è un paese che sembra di peracottari.

con tutto il rispetto per i peracottari.

[occhei. forse l'ho fatta un po' tranchant, e banalizzante, da un certo punto in poi. ma c'è almeno un'altra parte dell'idea multipartita. che a volte mi si piazza nella testa con tutta il suo scintillio - per quanto scoraggiante nel significato ultimo. e poi scompare. cercherò di riprenderla. se e quando verrà].

Sunday, December 6, 2020

antonietta ed il goldrake [nel senso di robot giocattolo] alto così

sto leggendo un libro che a suo modo mi sta catturando. al momento è la storia di un bambino che vive e cresce in un paesino nei pressi di reggio calabria. situazione famigliare disagiata, e contesto socio culturale povero et arretrato, sottoproletariato senza coscienza di classe. la cosa interessante e importante è che il tutto è raccontato con soavità, disincantata. la leggerezza degli occhi del bimbo, per cui quello è il mondo, per quel che ne sa. che per percepire uno iato c'è sempre bisogno di un elemento di confronto. lo struggimento, la tensione si generano quando si sa di altre possibilità, diverse, verosimilmente migliori. che così si fanno desiderio, obiettivi, o necessità. per il momento il marcello del libro racconta. le cose vanno accussì. soavemente. sono io che osservo ammirato per come se la vive, il piccolo marcello. e tutti i casini che ammonticchia: foco fu.

per una serie di rimbalzi dei ricordi mi è sovvenuta antonietta. faceva di marzio di cognome. la trovai in prima elementare. ho memoria fosse ripetente. antonietta di marzio, bocciata in prima elementare. era bruttina. piutosto alta rispetto alle altre, ma bruttina. carnagione olivastra. aveva lo sguardo triste e degli orecchini tanto minuti quanto disturbanti. come se le fossero imposti. una specie di segnatura che le bambine dovevano portare. è incredibile come ricordi - o la memoria mi stia perculando buttandomi lì elementi netti e precisi - di come si muovesse e di come parlase, la sua voce nasale, accento marcato, non ancora livellato dal nostro, che ci sembra quello normale, che non è accento, appunto. era una bambina cui il destino sembrava già aver decretato una discreta situazione esistenziale di merda. ed i segnali dovevano esser ben chiari anche a dei bimbi come noi. senza che ce ne rendissimo conto. ma quello stigma era ben introiettato da tutti. insomma, era segnata. e non che ci fosse quel granché di perequativo nei comportamenti di tutti. anche della maestra. che è stata l'elemento fondante della mia prima educazione scolastica. ma mai del tutto comprensiva nei confronti di coloro che rimanevano più indietro - per quanto ho la sensazione che altre potessero far addirittura peggio. antonietta era quella che più indietro di tutti rimaneva. e nel termine fanciulli c'è dentro una specie di candore, che può far a pugni con la stronzaggine e perfidia che a volte i fanciulli sono capaci di mostrare. quasi un'eco di un darwinismo sociale che sta in una qualche zona profonda del cervello. o della memoria collettiva. e quindi con lei eravano fondamentalmente stronzi, quanto meno mai amichevoli. come guidati dallo stigma di cui sopra.

anch'io, ovvio. ma mi arrogo l'idea di ricordare anche una sensazione di compassione. forse è il perculamento delle memoria ancora. ma intuivo ci fosse un qualcosa di ingiusto nel modo in cui la percepivamo e la consideravamo. poi era un qualcosa che non sapevo contestualizzare. né mi portava ad adoperarmi in maniera così diversa rispetto agli altri. come se intravvedessi appena il quadro sfumato delle cose. senza sapere cosa farcene, nella pragmatica del comportarmi, o nel strutturare dei princîpi da cui provare a far discendere un atto. quindi non riuscivo a farmela stare simpatica, o considerarla amica. però cercavo di essere cortese e disponibile. simpatia, amicizia cortesia, disponibilità: nel potenziale di quel che si può fare a quell'età. lei forse 'sta cosa la percepiva. per questo ricordo considerazione nei miei riguardi da parte sua. o forse era così con tutte e tutti, tanto era il suo desiderio di essere accolta.

una volta mi raccontò di possedere un goldrake giocattolo alto così. ed io ne rimasi impressionato. lei probabile lo capì immediatamente. così mi disse che me lo poteva regalare. io comincai a fremere di desiderio, a capire poco un cazzo, obnubilando la [poca] razionalità di cui disponevo. senza sapere ovvio esistesse la parola obnubilare. [parentesi: di rimbalzo in rimbalzo quello è un meccanismo in cui sono scivolato altre volte, e nemmeno in tempi tanto andati. solo che da ultimo non è scattato quando mi han fatto subodorare dei goldrake alti così. bensì situazioni che si possono eponimizzare in quella cosa bellissima che sta appena sotto il baricentro delle fanciulle, possibilmente non troppo glabra. facendomi infilare - figurativamente ovvio - in situazioni quanto meno improbabili. dove a volte sono scappato a gambe levate. fine parentesi]. insomma, antonietta mi disse che 'sto goldrake alto così avrebbe potuto portarmelo il giorno appresso. io le chiedevo cose, dettagli, particolari di questo goldrake alto così. e lei mi rispondeva con una dovizia di particolari che mi titillavano, provocando sottili godimenti di quel che avrei potuto verificare io, possedendoli. ci ho ripensato parecchie volte negli anni a 'st'episodio. vai a capire perché. di certo allora non mi feci nessuna domanda del perché una femmina dovesse avere un goldrake alto così - non mi risultava che le femmine fossero interessate a guardare atlas ufo robot, quindi cazzo se ne facevano di un goldrake alto così? [parentesi: se qualche paladina incazzatissima della [sacrosanta] parità di genere, nel caso molto poco probabile passasse di qua e partisse la filippica con la questione del settarismo, che stabilisce quali debbano essere i giochi delle bimbe e quali quelli dei bimbi, e che allo stato dell'arte questo avvenga per delle costrizioni culturali, che impongono e non inseguono i desideri spontanei che sgorgano dalle creature. ecco. quello era il non mi ragionamento che non feci allora, in quel contesto di bimbo che veniva anche un po' perculato dagli altri maschi perché non era abbastanza stronzo con le femmine. fine parentesi]. inoltre non mi risultava che un goldrake alto così esistesse, nei negozi di giocattoli e nelle pubblicità che compulsavo. e soprattutto: perché avrebbe dovuto regalarmelo?

ma tanto era il desiderio di possedere il goldrake alto così. che ovviamente il giorno appresso non venne soddisfatto. e neppure quello dopo. non ostante le mie rimostranze. all'inizio placate con dei giustificativi tipo ho il gomito che fa contatto col piede [cit.], mitigando la mia rabbia e delusione con la promessa che sicuramente l'indomani me l'avrebbe sicuramente portato. oltretutto il goldrake non era alto così, bensì così. la questione del goldrake andò avanti qualche altro giorno. con lei che si faceva ogni mattina più umbratile: la bocca più piccola e contratta, gli occhietti tristi ravvicinati, lo sguardo più basso. io mi facevo più risentito e stronzo. il goldrake alto così mi era stato promesso. mi sentivo preso in giro. non volevo dargliela vinta per avermi abbindolato. non è escluso la presi a male parole, per quanto potevano essere male le parole quelle che mi permettevo di usare allora. ma col desiderio di ferirla, come uno stupido fallo di reazione. una parte della mia testa sapeva che non esisteva nessun goldrake alto così. pero non mi capacitavo di come ci si potesse inventare una balla del genere, sapendo che avrebbe dovuto rendere conto al furore desideroso che aveva appizzato. come si poteva essere tanto ingenue? quindi un'altra possibile risposta era che il goldrake alto così doveva pur esserci da qualche parte. e rimasi appeso a questa speranza. poi passò anche quella.

ovviamente non capii allora che era il tentativo di ottenere la considerazione di qualcuno. talmente sgarruppato o disperato da far quasi tenerezza. ma le era bastato aver suscitato l'attenzione. per quanto fosse come accendere il fuoco con della carta velina, pensando di farne un falò con cui affrontare la notte. forse è questo che me l'ha fatto tornare in mente altre volte, da allora. quella necessità profonda e tutti gli artifizi per darne seguito, soddisfazione. forse nella sua testa, in fondo, un goldrake alto così da regalarmi c'era eccome. come il desiderio ed il sogno di un'infanzia diversa. guarda invece a volte la realtà come sa essere spietata, che poi 'sto goldrake alto così mica te lo ritrovi quando te ne torni a casa: e dire che l'avevo promesso.

e per essere spietata, la realtà, lo fu davvero. e fu che, piuttosto d'un tratto, quella famiglia sparì dall'hometown. lasciò quell'appartamento, che uno si immaginava piccolo e modesto, di cui ancora oggi rimane la porticina, piccola e stretta che dà diretttamente sulla strada nazionale. che sembra non venga aperta da anni. le voci che girarono dissero di abusi da parte del padre - di cui ho ancora vivido il ricordo del fare dinoccolato, il viso oblungo, i cappelli corti e grigi. il sommesso chiacchiericcio raccontò che quando toccò ad antonietta, quello che era già capitato alla sorella più grande, lei rimase in cinta. la madre trovò il suo modo di difendere la sua creatura. lo fece accoltellando il marito, padre ed orco. lui finì in galera. madre e figlie se ne andarono. forse tornarono là dove l'accento di antonietta non era considerato un accento. fu la prima ed unica volta che seppi di queste cose dalle parti dell'hometown. di lei invece non seppi più nulla. accadde dopo la fine delle elementari. eravamo già abbastanza grandi per intuire la gravità ed il contesto di degradazione di cui antonietta era vittima. tutto riacquistò una luce diversa. da quel suo stigma che si portava appresso, come gli orecchini disturbanti. a quanto eravamo stati un po' tutti stronzi nei suoi confronti. chi in un modo. chi nell'altro.

e quel goldrake alto così che io di certo non mi sarei meritato di sottrarle. che avrebbe dovuto, altresì, animare la fantasia dei suoi di giochi. e che invece, immaginificamente, le era servito per sottrarsi, il tempo di un sospiro, dalla durezza ed ingiustizia della sua infanzia violata, che non merita nessuna fanciulla et fanciullo.