Sunday, October 29, 2023

va bene la scelta. ma poi bisogna pur scegliere

la notte scorsa ho scritto un post da culo al caldo. molto culo al caldo. troppo culo al caldo. forse la sensazione uterina del soppalco dell'hometown. che tornarci è spesso meno semplice. e poi le mie bazzecole malinconichette, tristine, incazzatine, sfiduciatine. ho fatto loro maramao, e ho scritto, provando a pensare a cose qualche eone più serio delle mie cagatelle.

l'ho riletto. ero stanco, assonnato. l'editing dei refusi mi ha impiegato un po' di tempo. la contorsione di certi periodi l'ho lasciata così com'è. battaglia persa.

però, oggi, mi è montata la sensazione fosse un po' da culo al caldo. debosciato e al caldo.

non che quello che potrei scrivere in questo lo esponga di più il culo, neh?

però nella sensazione che la scelta sia solo quella della non violenza, del dialogo, del compromesso, è necessario scegliere.

perché ho idea non sia uscito granché, nel post prima. per certi versi 'sticazzi, neh? ma volevo segnar[me]lo, nell'irrimediabile impalpabilità di questo blogghettino della minchia.

tanto più sia irritante il giochetto della incriticabilità del governo di uno stato. probabilmente il peggiore nella storia di quel paese, nato per una risoluzione dell'onu - mica poi così condivisa, peraltro. uno stato che ha inanellato una serie di errori, inadempienze, scelte nefaste, ad ostacolare la soluzione della questione palestinese. criticare le scelte dei governi non è avere in odio la popolazione, anche se quei governi li vota. figurarsi metterne in discussione l'esistenza. è talmente ovvio e scontato che diventa quasi ridicolo ribadirne l'ovvietà.

e dall'altra parte è altrettanto è aberrante chiamare partigiani i militanti di hamas, resistenza quello che fanno. non mi sfugge che da qui, al caldo e al sicuro, sia semplice farlo. a vivere là dentro intuisco sia decisamente più complesso. tanto più ora. che la preoccupazione cogente è quella di rimanere vivi. avercela o non avercela con quelli che comandano nella striscia viene dopo, al limite. 

posto che criticare il governo in israele è possibile [ascolto e sento, credo con cognizione, di una stampa molto più libera e meno asservita al potere che qui]. criticare hamas nella striscia credo stia del tutto sull'asse immaginario.

sono fascismi che si scontrano. e nello scontro giustificano la loro ragione d'essere. è fascio-terrorismo-islamista fare quello che è stato il sette di ottobre. è fascismo-vendicativo, con strategia che non sembra emergere così chiaramente, l'assedio alla striscia [al netto di non disturbarsi troppo a contenere le azioni di quei pazzi invasati di coloni, le loro razzie, nei territori occupati].

il terrorismo verso cittadini israeliani non giustifica la vendetta israeliana. il fascismo di un gruppo di fanatici islamisti è funzionale al fascismo dell'assedio. una ritorsione prolungata e disumana. con il rapporto tra i morti dell'una e dell'altra parte a darne la tara.

sembra non volersi dare un qualche limite allo sgomento. sgomento che si è manifestato - improvviso, ma non imprevedibile [e non imprevedibile non significa giustificabile] - la mattina del sette ottobre. e sgomento che non si ferma nell'agire di uno stato democratico, che non riesce a contenere la sua necessità di vendicarsi.

ci sono solo torti da entrambe le parti. mica per altro sono fascismi speculari e contrapposti.

per quanto i torti e le nequizie, più o meno storiche, rischiano di distrarre dalla necessità faccia capolino un po' di umanità. che poi è quella che è stata violata e deturpata. che siano israeliani o palestinesi: sono vittime, quelle sì ingiustificabili.

e che quindi sia tregua, che significa anche liberare gli ostaggi israeliani, ovvio. non ostante tutto. soprattutto su tutto quello che di disumano si è agito e si agisce.

hanno già sbagliato tutti. prima si fermano, prima smettono di aggiungerne altri, di torti. torti che, mi arrogo quel minimo di visione critica, mi sono piuttosto ben chiari. non dimenticando, peraltro,  l'inestricabilità della situazione di quei luoghi, per un cazzo santi. ma in questo momento va su tutto la sicurezza e l'incolumità della popolazione civile. tutte e tutti. ogni pezzettino di umanità, che siamo ciascheduno di noi, viene ben prima della sua nazionalità o in quale fottuto dio creda.

a volte è financo necessario ribadire l'ovvio.

[lo so, è da culo al caldo anche questo. ma d'altro canto noi ce l'abbiamo tutte e tutti, al sicuro. provo a non rimanerne indifferente, a quel che succede laggiù]

il capello arricciato, la complessità inestricabile, il solco strettissimo, l'inevitabilità di una scelta

sono almeno tre settimane che vorrei scriverci sopra. non mi veniva. troppo da metterci dentro, con l'inevitabile effetto di scrivere banalità. quantunque e qualunque [quasi] parole fossero. come probabile saranno anche queste.

poi ieri ho incrociato dopo un olimpiade l'amica serè. la nostra virgilio, laggiù, che di santo, quella terra, proprio non ha un cazzo. l'ho vista arricciarsi nervosamente il capello riccio attorno al dito. più nervosamente di quello che le vedevo fare laggiù. e l'occhietto triste. e la compulsione a guardare le notifiche dallo smartofono. e la voce a provare a dissimulare la tensione. però è stato l'attimo in cui ho percepito la sua angoscia. non ricevere notizie da qualcuno, da qualche ora, può significare più cose. che il pannello solare non è ancora riuscito a caricare il dispositivo. oppure che la rete non funziona. oppure che una bomba dell'aviazione l'ha fatto saltare in aria, assieme la sua famiglia e la bimba di otto mesi. avrei voluto risponderle più compiutamente. ma sentivo che la voce mi si incrinava in gola, prima ancora di pensare di farla uscire.

sarà [di nuovo] il periodo. sarà la stanchezza. sarà la debosciatezza. sarà che sento l'impotenza di fronte a quel gorgo oscuro. però sentivo la voce mi si incrinava in gola, prima ancora di pensare di farla uscire.

io e la mia debosciatezza e il ditino alzato verso un non meglio precisato destino contingente. ehi, cazzo, non è che si potrebbe dare una regolatina a questo e quello? "la mia non è proprio fame è più voglia di qualcosa di buono" [cit.]. ed un tocco di pensiero a ricordarmi quante millemiGlioni di persone non possono nemmeno cominciare a pensare cosa sia la debosciatezza. quando il pensiero cogente è quello di restare vivi, son cose che non stanno in cima alla pila dei ragionamenti.

così, posso intuire, non hanno tutto 'sto tempo a ragionare sulla complessità inestricabile di quella situazione. sia perché è il loro quotidiano totalizzate. sia perché basta una singola goccia nebulizzata di quella complessità, che può farsi destino per loro. e dare così la risposta alla domanda: sarò ancora vivo tra un'ora? anche se, intuisco col mio culo debosciato al sicuro e al caldo, nemmeno se la facciano quella domanda.

una complessità talmente inestricabile che, qualsiasi cosa si possa solo pensare, hai già pestato merda. figurarsi dirle. figurarsi dirle con la sicumera di chi ha capito e lo spiega. complessità inestricabile: le responsabilità che si rincorrono all'indietro, effetto da una causa. che è effetto di un'altra causa. che è effetto di un'altra causa ancora. indietro fino al 1948. e più indietro sul senso di colpa collettivo per quello che la razionalissima europa ha saputo fare, infliggere. quell'abominio talmente incommensurabile che ne siamo comunque coinvolti. possiamo rimuoverlo, ma mica ci si riesce. una tale non-estricabilità che non se ne esce. e in qualunque presa di posizione, rimane fuori qualcosa, che invece ha tutto il diritto di essere tenuto in considerazione. ma noi le analisi in una multidimensione mica siamo capaci di farne.

tanto più che, personalissimamente, il solco è strettissimo. una fascinazione inspiegabile per la cultura ebraica, quello che ha irradiato nel globo terracqueo, dalla diaspora in avanti. e la sensazione urticante di quello che, in nome di quella religione e modo di sentirsi eletti, viene compiuto. basta guardare l'evoluzione delle mappe di quelle terre: quello che è stato e di quello che è diventato. e che ho la sensazione diventerà: un popolo che ha subito l'espulsione da una terra diciannove secoli fa, ne espellerà un altro, da quella stessa terra. con un'azione pervicace, sistematica, inesorabile. come si sentono chiamati ad essere costoro. eletti.

il solco è stretto perché il confine tra antisionismo e antisemitismo è stato reso sottilissimo. surrettiziamente sottilissimo. con forzature altrettanto urticanti e fastidiose. la critica è di fatto bandita, con lo sventolio del senso di colpa che ci portiamo dentro. nun me criticà, che l'accusa di antisemitismo è un attimo. forse pure questo post fa di me un additato antisemita [però tanto è un blogghettino della minchia]. non importa cosa possa pensare di quella cultura. figurarsi la mia fascinazione.

il solco è stretto, la complessità inestricabile, il capello attorcigliato con tutta la sacrosanta inquietudine. è l'inquietudine che rende inevitabile la scelta. inevitabile, perché si può tirar fuori, dal cilindro delle possibilità, ben poco. ed il poco è considerare le vittime per quel che sono: vittime. figurarsi i bambini. e le vittime smettono di aver professato una religione o un'altra, avere avuto una cittadinanza oppure un'altra. se siano l'effetto di quale causa, o l'effetto ne determina un'altra, di causa. la scelta è prendere la complessità inestricabile e decidere che quello che è inestricato ad oggi rimane tale. e da oggi si prova a dipanare. sapendo che dal gorgo indipanato arriveranno - con molti diritti - tentativi a rendere ancora più inestricato il tutto.

ma - dal mio punto di vista - non si può fare altro che praticare la scelta della non violenza, del compromesso, del dialogo. tanto complessa, quanto con meno appiiilll. tanto utopistica, quanto necessaria. tanto più improbabile, quanto l'unica.

roba che quando ero giovane et fiducioso et pieno di belle speranze non avrei esitato un attimo a ribadire. che tenero sprovveduto ero, sembrava cosa meno semplice tra le molte più semplici. certo, comunque ignoravo la complessità. che si deve ammettere che hanno sbagliato entrambi e degli errori si prende atto, non è clava da usarsi per interposto errori altrui. e porca miseria: però sul pezzo avevo cazzo ragione. ci avevo visto giusto, tutto sommato. è semplicemente la scelta più complessa da fare. ma tanto più ovvia. proprio perché si è passati nella complessità inestricabile delle cose. nella strettevolezza del solco.

è il passaggio più impervio ma è l'unico che porta in vetta.

Saturday, October 14, 2023

piccolo post di piccole gioie casuali [d'altri]

dopo la mostra, tempo di rincasare. decido di pigliare il tram 16. penso: vado per la fermata dopo la solita, con la scusa di passare per piazza mercanti - che mi hanno ricordato quanto sia bella.

e lì, in quella piazza stanno cantando. c'è un piccolo totem più o meno tecnologico. sembra postazione per far esibire chi ne ha voglia, o abbia fatto richiesta. in quel momento vi è una ragazzina. voce e chitarra: una telecaster pezzotta bianca e giallina. vi arpeggia e canta. scuola cantautorale, testi con metriche lunghe, armonie semplici ma mica banali.

tra un brano e l'altro ricorda dei suoi canali soscial. e se si vuole si possono scaricare i testi. quindi passa ad una rapida presentazione della canzone successiva.

mi fa simpatia. mi viene da pensare: ti stimo sorè, tu ha scritto ed hai tutta la percezione di te medesima, per proporre e cantarle, le tue canzoni.

finisce il brano. è l'ultimo. poi no, ci ripensa, ne riattacca un altro. mi colpisce più degli altri. ha una linea melodica decisamente più sui generis. il falso ritornello sembra chiudersi armonicamente, ed invece ecco l'accordo che riapre il fraseggio, ne dispiega un altro balzo. per poi ripiegare in una piccola sorpresa, oltre la previsione. questa è davvero bellina.

le sono quasi accanto, il pubblico è sul bordo della loggia, chi seduto sui tre gradini che postano alla piazza. posso osservarlo e nel contempo osservare lei che arpeggia e canta.

tra il pubblico vedo una ragazza. conosce il testo della canzone, il labiale è quello delle parole che stanno cantando. ne è coinvolta in quel cantarle assieme. sorride, le viene da accennare un piccolo danzante su quelle note. non lo fa, dentro al marsupio, agganciato al petto, vi è la sua creatura - bimba o bimbo che sia. deve essere colta da un momento di piccola gioia assoluta, mentre sta cantando anche lei, assieme la ragazzina. le si apre ancora di più il sorriso, e con un gesto tanto naturale, quanto bellissimo abbraccia la sua creatura, la coinvolge - ora sì - in quel piccolo danzare statico, oscillando i fianchi al tempo della melodia, guardando sorridente la sua creatura come la più preziosa e importante ragione di tutto di quel momento. è una specie di meta-cullamento. un'istantanea, tra le tante del pubblico che osserva, che è bellissima.

e penso che va bene così. in quel momento c'è una ragazzina che canta le sue canzoni. ed una madre che abbraccia felice la sua creatura. la complessità complessiva delle cose del mondo sembrerebbe vaticinare un disastro, cui non sfuggiremo. guerre, cambiamenti climatici, ingiustizie, gran bei cazzi advenienti. in millesimidimiliardesimi non me la sto passando benissimo. con tutto questo nuovo turbinare di incompletezza, irrisolutezza e poco grip a prender in mano la situazione. e pensieri che tornano a farsi preoccupantemente più scuri del grigio.

ma va bene così. ci sono gioie e momenti di felicità. non li intercetto io, non riesco. come se mi girassero attorno. ma ce ne sono là fuori. a posto. se qualcuno è capace di pigliarseli, a posto. davvero.

la ragazzina si chiama glicine. ha almeno quattro-cinque anni in più di quel che mi sarei aspettato. le chiedo come compone: se direttamente alla chitarra o con il pianoforte. ha un accento tra il bresciano ed il bergamasco. l'ultimo pezzo che ho cantato l'ho prodotto per intiero io. scrivo da quando ho quattordici anni, ne avrò già scritto un centinaio di canzoni. mi segua sui social. [il lei, mi fa sentire ancora più vecchio.]

certamente glicine. una di quelle che hai scritto è davvero bellina. e ho intravisto un momento di piccola gioia e felicità.

a posto così. 

 



[prequel. anche se non c'entra nulla. entro nella prima sala della mostra, una delle addette alla sala mi consiglia di lasciare lo zainetto al guardaroba, che le sale sono tante. cosa che faccio. quando torno le dico [è esercizio per smettere di aver imbarazzo a rivolgermi agli sconosciuti]: grazie del suggerimento, lei ha capito come vivo le visite alle mostre. cosìcché prosegue lei: ma lei è un artista? chi, io? sì lei! no. direi di no. ma per caso scrive? no in realtà scrivo psicopippe su un blog. e mitigo la fruestrazione di un lavoro che non è il mio, sussumendo il bello che alcune persone sanno regalarci. ah. buona visita. grazie e buon lavoro.]

Saturday, October 7, 2023

luci accese e dopo spente [cit.]

oggi stetti al lido dell'hometown a leggere. seduto su una panchina. accarezzato alle spalle dal sole gentile.

mi sovviene che proprio lì correva garrula la cagnolina. si era durante l'inverno del secondo lockdown. aveva appena messo giù neve, sul prato del lido una coltre, quasi immacolata. la cagnolina correva felice, correva quanto ancora più veloce un cane della sua età, correva con la lingua a penzoloni. la combinazione spazi aperti e quel velo di bianco. si divertì. oggi ho pensato che fu l'ultima volta in cui la vidi fare cose da cane in salute e con molta gioiosa esuberanza. tempo pochissimi mesi sarebbe iniziato il lento, inesorabile declino. era l'autunno-inverno della speranza. eravamo chiusi ed ancora limitati. ma confidavo sarebbe finita e saremmo ripartiti, sarei ripartito, lasciando alle spalle quell'infarto della storia. ci credevo, ci contavo, ci fantasticavo. mentre la cagnolina correva come non dovesse aver mai a finire il fiato. ora è sotto il kiwi. da tempo so che la speranza di quell'autunno e quell'inverno è evaporata: la primavera non è stata quella che pensavo fosse.

alzo lo guardo. le fronde dell'albero lì accanto, già piuttosto dorate, non ostante il caldo anomalo. l'albero ed io osserviamo. una coppia con il loro cane che scatta, scarta, balza felice. perché può correre, perché è lì assieme ai padroni. poco più in là un papà gioca a far librar quel po' nell'aria la sua creatura. il bimbo probabilmente ride a sentirsi volare, fermarsi, tornare tra le braccia del padre. immagino il ridere sganasciato e coinvolgente che sanno regalare i piccoli-piccoli.

per quelle due coppie quali saranno ricordi di questo pomeriggio? il cane che vortica le zampe felice. i ridolini della creatura al librarsi.

e le altre persone lì con noi in quello spazio ampio. chissà quali ricordi si portano appresso. magari anche legati a questo lido. magari chi ha perso qualcuno che è altro una bestiolina d'affezione. magari chi ha perso ben altro che la speranza dopo l'inverno. magari qualcuno soverchiato da dolori importanti, mica dalla malinconia poco fiduciosa, come accade a me.

ed in quel momento percepisco di come noi si sia fottutamente di passaggio. ed il lido dell'hometown come sia uno dei millemilioni di paesaggi del nostro passaggio. luci accese e dopo spente [cit.]. la lenta stazionarietà dei luoghi. il nostro passarci in mezzo con rapidità inusitata. inconsapevoli, placidi, sicuri, arrancanti, arroganti, irrisolti, cinici, utopici, sprovveduti, egoriferiti, imbarazzati, spaesati, empatici, incuriositi, entusiasti, apatici, stronzi, buoni. più verosimilmente una combinazione lineare di questo e molto altro.

per ancorarmi un poco, in questo volgere turbinante di pensieri, alzo di nuovo lo sguardo alle fronde piuttosto dorate dell'albero. sono arrivato prima io dell'albero - occhio e croce - ma è molto probabile mi sopravviverà. chissà se era lì quando al lido ci andavo in quelle giornate che sembravano lunghissime e puccianti nel lago. c'era quando si consumava il rito dei teli spiaggi distesi mezze dozzine alla volta, posizionati secondo pattern che raccontavano le dinamiche della cumpa più o meno oratoriana. quando capii, proprio lì, su quella spiaggia, di come non sarei mai stato in grado di corteggiare una ragazza, una donna. corteggiarla nel senso di convincerla dell'inevitabilità del mio esserne innamorato [quella cosa lì, qualsiasi cosa significhi]. mentre il sole abbronzava la pelle. ed in parte il caldo mi avvolgeva in quella consapevolezza ex-ante.

il muover di fronde. una panchina dove accanto corse garrula la cagnolina. la percezione pugnace di come cambi tutto, seppure in un paeseggio che sembra immoto. cambiamenti a cominciare da tocchi di noi medesimi, nevrosi e compulsioni a parte. e di come si sia fottutamente di passaggio. noi che ci crediamo il centro di chissacccché.

[peraltro ci avevo visto giusto, ex-ante. e per fortuna qualcuna si è convinta da sé, mica ha aspettato la convincessi io. sennò]