Saturday, March 30, 2024

pasque

ho financo provato a passare in collegiata. chiusa, non ostante fossero passate da poco le diciassette. mi piace passare in collegiata il sabato di pasqua. ne si intuisce plasticamente il significato pesach, passaggio. tutto è ancora sospeso dal venerdì, giorno in cui i paramenti, viola, vengono lasciati cadere, il tabernacolo è vuotato, il sepolcro accoglie chi deve accogliere. nel sabato di pasqua, la collegiata, è simbolicamente in un limbo. poi, nel mentre, alacri pie e pii preparano l'altare, tornano a far spalancare i paramenti, bianchi, acciocché tutto sia pronto per la grande veglia pasquale, la più importante delle veglie.

per questo mi piace passare in collegiata, nel sabato di pasqua. perché io mi son fermato lì, è una sensazione di attinenza: spirituale e non [più] religiosa. certo che ci credevo, allora. o quanto meno ero convinto di. poi intuii fosse tutto il miscuglio di cose, dalla primavera - stagione - in avanti, speranza, fiducia, senso di esserci, chiamate ad aver un posto nel mondo. che sintetizzavo nella [credevo] fede nella resurrezione, redenzione, e tutto il resto. e la pasqua, quella pasqua, ne era il climax e il punto fondante assieme.

al netto che la veglia pasquale, credo, mi emozionerebbe ancora oggi. senza dover per forza crederci.

e invece, come al solito da anni, a breve le campane si scioglieranno a festa. ed io sarò sul soppalchino ad ascoltarle. non credo più con quello struggimento dei primi tempi, come una specie di eco che si smorza, per quanto non sia del tutto spenta. ancora: non credo sia necessario crederci, sono gli antri interiori, che l'educazione sentimentale ha modellato in certi modi. ed è un po' inutile abiurare anche quello. è solo prendere atto ci siano altre pasque.

il suono le campane che si sciolgono arriverà smorzato, chissà che effetto farà. smorzato perché piove, piove intenso e convinto. non si chiama maltempo, tanto più con la fame d'acqua, che venga costante ma non tutta assieme, che si ha. certo, non aiuta l'umore, l'unica cosa positiva è sapere che servirà, l'acqua. ma anche in questo caso è un po' una specie di attinenza: piove fuori e dentro nuvole, peraltro senza essere riuscito a passare in collegiata. per quanto non so quanto potesse servire, passare in collegiata intendo. le nuvole dentro non servono, ma è ben inutile far finta non vi siano. e non solo riempiendo post per ribadirlo, anche perché si può ribadire - sussurrandolo - che possono passare. anche se adesso piove, anche se il suono delle campane che si sciolgono arriverà smorzato.

dopo aver trovato chiusa a collegiata ho fatto due passi. ho scattato alcune foto, al lago e quel che si intravvede dell'altra sponda. sembrano foto in bianco e nero. anche questa sembra attinenza.

poi, se guardi bene, i colori si distinguono. poco, ma si distinguono. come fossero un sussurro.

 



Tuesday, March 26, 2024

eco

ho fatto la cosa giusta, e guarda caso ho re-incontrato l'amica paola. che poi, caso. avrei potuto semplicemente scriverle: ci vediamo allo stand dove ti incrociai l'anno scorso? ed invece ho lasciato che le cose venissero, a loro modo. l'avessi incrociata bene. poi uno dice che non ci ha il grip sulle cose che capitano.

l'amica paola, appunto. l'avevo rivista lo scorso anno, stessa fiera, stesso stand. erano lustri che non capitava ci incontrassimo. fu una bella emozione ed una chiacchierata intensa. oltre la sensazione di esserci lasciati un paio di giorni prima. con alcune persone capita. son poche, neh? ma capita, questa la cosa importante. in quella primavera stavo bene, e la sentivo dentro la primavera. forse anche per questo me uscii dalla fiera con una sensazione strana. scrissi un post [diommmmmio, che roba lunga che ogni tanto mi esce. che poi, ogni tanto...].

quest'anno, invece, mi ha trovato lei. stavo solo in un angolo ad ascoltare un incontro: non era sociopatia, ma star seduti sotto il diffusore acustico aiuta a sentire meglio nella bolgia di una fiera. parlavano  di gaza e la guernica che stanno compiendo laggiù. è comparsa lei e per un attimo ho tirato il fiato, in apnea per quel che stavo ascoltando. ci siamo dati appuntamento per dopo. e dopo, mentre la raggiungevo, pensavo ad una cosa accaduta giusto un anno prima, di cui avevo avuto contezza nei mesi a seguire. in realtà era poco più che una nebula, non un pensiero totalmente verbalizzato. mi son detto: quasi quasi glielo racconto, anche se non so se mi usciranno le parole più precise.

poi, invece, è uscito altro: parole fragili [cit.], troppe. sarà che la serotonina è ricaptata ancora tantino. sarà che l'amica paola è una persona che sembra ti abbracci, per il solo fatto di essere lì accanto a te. e se ne capita la necessità [capita, capita], farsi abbracciare è un po' taumaturgico. con l'effetto collaterale, appunto, della storia delle parole fragili.

ho poi salutato l'amica paola, con un po' di tepore in più e po' di patina addosso in meno. dimentico, bel bello, della faccenda della cosa accaduta un anno prima.

poi la mattina dopo ho capito. la nebula si è fatta immagine, per quanto metaforica, e mi son venute le parole.

me ne sono accorto dopo, neh? ma lo scorso anno, mentre eravamo lì a raccontarci, è come fosse venuto giù un diaframma. si parlava, l'amica paola ed io, ed ho cominciato a percepire una specie di eco. l'eco che riverberava in quel vuoto che mi son ritrovato dentro, venuto giù il diaframma. uno spazio che l'eco ha evocato di provare a colmare: una compagna, qualcosa che assomigliasse ad una relazione. il cambio di paradigma. suggestiva 'st'eco, come una sorta di armonia da primavera che non bussa. e che ha cominciato a dirmi: colmalo 'sto spazio, riempilo 'sto vuoto, estigrandissimicazzi se così non ci echeggerò più [è un'eco generosa, da primavera che entra sicura]. per questo uscii dalla fiera con questa specie di stordimento. un'esperienza nuova, a suo modo. nel senso che mi sarei scoperto nuovamente pronto, posto lo fossi mai stato davvero. e non credo c'entrasse solo la storia della serotonina ricaptata di meno.

sì, è successo lì. con l'amica paola che ha fatto venir giù il diaframma ed ho sentito l'eco.

non sarà mica un caso che ho ricominciato a desiderare, in maniera diversa ed intesa, un qualcosa che si approssimasse ad una relazione. qualcosa che surclassasse la storia del [bellissimo?] incubo delle passioni, da cui non ci si emancipa. qualcosa che andasse oltre, alla grande, la sola gran voglia di scopare [voglia tanta, pratica pochina]. proprio un altro campionato. e son venuti mesi in cui quella tensione era importante, forse anche vivificante: desiderio di colmare il vuoto. poi, il fatto è che 'sta roba non mi è propriproprio riuscita. e quindi non sarà un caso che quell'eco si è fatta via via più melodia malinconica. e credo c'entri più di qualcosina in quella sensazione, ex-post, di un anno che si è fatto via via più tristino. chissà se lo sfinimento lavorativo e molta serotonina ricaptata siano a parte oppure concause.

ora.

la domanda più ovvia potrebbe essere: perché non considerare l'amica paola? in fondo è stato con lei che è venuto giù il diaframma. perché non l'amica paola, che diventa solo Paola? il fatto di chiederselo è già un po' una risposta, al netto che i suoi occhioni azzurri mi hanno sempre fatto un po' sciogliere. posto che una risposta non ce l'ho, posto esista. posto faccio casino già di mio negli incroci, specie quelli intimi. posto che ora è tutto complicato a prescindere, anche le cose belle, anche il piacere. ed è come avessi una specie di pelle ruvidissima e delicatissima assieme: roba che si irrita per un nulla, e che ho timore di sbregare le persone senza pellaccia dura. [e non è che, da tracotante, non mi ponga la questione del: chissà cosa ne penserebbe l'amica paola. è che qui siamo qualche passaggio che sta ben prima.]

comunque sì. quell'incontro, lo scorso anno, fu una specie di svolta. o meglio: l'indicazione di una possibile svolta. poi le cose possono anche non accadere. infatti non sono accadute. e probabilmente non è che la responsabilità sta solo in capo a me.

intanto mi tengo l'eco. fa compagnia. nei giorni più o meno uguali. però ci si prova, passo a passo. a farli diventare diversi. e chissà se continuerò a volermi tenere quello spazio dentro. che è lì, in bella vista, dopo che il diaframma venuto giù con l'amica paola. e quell'eco, che chissà se mai saluterò.

Sunday, March 24, 2024

palme

che poi distribuiscono i rametti d'ulivo. anche se si chiama la domenica della palme.

ai tempi che furono quasi preferivo questa di domenica, rispetto quella di pasqua. era quella specie di attesa, che era esso stessa ragione di vivere il momento pasquale. quando professavo convintamente, ovvio. era quello il periodo più intenso. non che non rimangano ancora delle eco, pure ora. forse non ne sono fuori del tutto. o forse è qualcosa che sta più introiettato di quello che potrei attendermi. o forse non è roba che ho introiettato strada facendo. niente di metafisico, neh? qualcosa che approssima la questione dell'inconscio collettivo.

vabbhé.

meglio non pisciare fuori dalla tazza.

le palme. la domenica di. che poi il faber ha avuto gioco [relativamente] facile, con il calembour della domenica delle salme. le palme. anche se era la storia dei ramoscelli d'ulivo a coinvolgermi. un po' il valore simbolico della pace. un po' anche per la storia del fascino di quella pianta, e la sua capacità di vivere per secoli, trasformandosi con quel contorcersi, spaccarsi e rigenerarsi. lessi, qualche anno fa, che l'ulivo nasce, prospera e regala i suoi frutti solo là dove lo si cura, a partire dal territorio dove cresce. occorre applicare ancora più dedizione particolare, metodo attenzione. che è roba di decenni, secoli.

vabbhè.

continuo a pisciare fuori dalla tazza.

la domenica delle palme si faceva una piccola processione, con qualche palma e molto ulivo. io accompagnavo alla chitarra. ed un ramoscello incastrato, in cima alla tastiera, tra le chiavette tendicorde, e le corde tese medesime. in una di quelle domeniche delle palme, nel pomeriggio, fotografai il ramoscello incastrato in cima alla chitarra. eravamo nel giardino di quello che era un asilo d'infanzia delle suore, ora una stazione dei carabinieri [ed il gesto ancor m'offende]. in quel giardino avevo giocato anch'io. testa della chitarra, ramoscello d'ulivo incastrato, prato sullo sfondo, e luccichio del riflesso di una chiavetta tendicorde nel pieno sole di un pomeriggio in cui la primavera stordisce.

mi sembrava una foto bellissima, che si portava dietro tutto un complesso di cose, emozioni, sensazioni, bellissime. con dentro tipo lo stordire di un pomeriggio di primavera.

quella foto mi è tornata in mente stamani, mentre incrociavo gente con il proprio ramoscello d'ulivo.

ma non è per vivere nel passato [cit.].

pensavo che poi, alla fin fine, quella foto era banale. caruccia, al limite, ma banale. come del resto, allora, abbastanza tutto appariva fottutamente tutto più semplice. non so se banale, ma semplice. con l'idea che hai davanti un gran pezzo di vita, ed un bel po' di tutto deve ancora venire. ed è più che banale la convinzione che, più o meno, ti sia dovuto in quel divenire. e che le cose si incaselleranno nel modellino sociale che uno si è già costruito. magari con un po' di eccentricità, anche un po' tanta. ma si incaselleranno. e sarà un divenire che darà soddisfazioni e gradevolezze. un bel quadretto, con soggetto un po' sui generis. tipo una fotografia della paletta della chitarra con incastrato il ramoscello d'ulivo. tutto sembra così serenamente già instradato. deve solo succedere, basta dare il tempo di. con altre domenica delle palme, che l'attesa della pasqua che è già vivere il tempo di pasqua. e così in avanti. con quel pensiero non so quanto nascosto, di certo rassicurante: ho il ramoscello d'ulivo incastrato sulle corde della chitarra. benedetto, s'intende. che fa anche una specie di strizzata d'occhio - figurata - a quel che sta in cielo, apotropaico. il ramoscello d'ulivo, benedetto s'intende. la sintesi di quella fede in sincrono con una visione tipo cose pacifiste, non violente. incasellato, ma con la mia originalità.

ma non è per vivere nel passato. appunto.

perché, non ostante tutto, non so mica quanto rimpianga quella domenica delle palme, la chitarra col ramoscello, la foto nel giardino della scuola d'infanzia delle suore. non credo sia la storia della volpe e dell'uva. è che tutto quella roba lì, di allora, era un soufflé che nemmeno lontanamente intuiva la complessità delle cose, e nemmeno lontanamente immaginava l'implacabilità del principio di realtà. tanto che, appunto, montavo soufflé. importa poco se mica tanto conformista. soufflé restava. ero davvero un imberbe, pace in gloria pensassi di essere già così adulto, con l'idea di essere finanche molto originale. oltre che con la spocchia di aver già capito abbastanza. fino a qualche tempo fa avrei scritto: che tenero coglioncello ero.

non so mica quanto lo rimpianga. non ostante la faticosa complessità di questi nuovi tempi - anche in contesti ben trascendenti da noi tutti. non ostante il divenire abbia preso direzioni che son andate un po' altrove - in contesti solo miei. e occhei le musate. che in fondo si vede che può ben andare ben peggio. l'allora era così ammantato di cose in fiore, che si faranno rigogliose. con tanta convinzione nell'alto dei cieli. sembrava così serenamente semplice. forse troppo semplice. quasi banale.

non mi viene di rimpiangere la banalità. mica per altro: per aver alimentato quel senso di speranza. mentre forse era un soufflé.

non suono più la chitarra [per quanto suonare mi manchi]. quindi nessuna altra foto con un ramoscello d'ulivo. anche se ora un ulivo lo poto. con la potenza simbolica di quella pianta che mica mi ha abbandonato. forse anche perché non è roba banale. per il resto, quel che è di risulta della potatura diventeranno molti ramoscelli d'ulivo, distribuiti la domenica delle palme. cosa che mi interessa il giusto. il mio l'ho fatto prima, potando.

 


 


Thursday, March 21, 2024

magnolie

fuori casa, quella di matreme, c'è una magnolia in fiore. è uno spettacolo. potrei riuscire a percepirlo pure io, in queste settimane, peddddddire.

primavera non bussa, lei entra sicura [cit]. e si porta dietro, ogni anno di più, quella sensazione di caducità, di cosa che scappa via, transeunte. e quel sottile giramento, misto a un piccolo groppo, che è come se non si riuscisse a sussumerla come si dovrebbe o come si vorrebbe. come ci fosse davanti quella patina, e si assorbe poco. e intanto la primavera scappa via.

ogni giorno ci sarebbe da assorbire cose. perché ogni giorno scappa via. e ce n'è uno in meno da provarci. quando poi è primavera sembra ancora più gettato al vento. un piccolo scandalo di vita avvolta nella patina.

e la primavera scappa via. e la magnolia sfiorirà. per lasciare il posto al resto. la ciclicità delle stagioni. e nel mentre il vento porterà - forse - il seme in altro luogo, per altre magnolie. per fare un albero ci vuole un fiore. e le cose che ricominciano.

mentre a te sembra che non sia solo la primavera a scappare via. anche se bisognerà far passare un altro anno per rivederla. un anno che sembra lungo ex-ante, ricordando quello andato, che ex-post sembra avvolto di quella patina. tutto moderatamente tristino.

la magnolia in fiore ha già lasciato cadere molti e molti petali. non ostante continui a rimanere uno spettacolo, per quanto percepito smorzato dalla patina. ci ho camminato sopra, a quel tappeto rosa pallido. stavo andando a gettare avanzi di umido, nel composter verde. sollevando il coperchio una spruzzata di moschini, così contestuali a quella massa organica che sta compiendo il suo giro, putrescendo.

mi ha fatto specie. la distesa di petali e lì accanto, la stormiglia di moschini e l'organico ed il olezzo - che comunque continuo a non percepire. troppo facile farsi venire in mente la storia che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. come quelli già petalosamente già oltre, lì a terra, su cui ho camminato. come a sentirsi un po' tutt'uno in quella specie di iato, che poi magari tanto iato non è.

il tempo sfiorito, la caducità, camminare su petali, il composter, e la patina che tutto sembra avvolgere. la stanchezza. l'inadeguatezza, la tristezza che sfuma la malinconia. le primavere scappate via. la ciclicità della magnolia che metterà su foglie, poi le perderà, poi i fiori, che poi cadranno ancora. e poi un altro giro. ed un altro. con la sensazione di non riuscire ad afferrarli. come assistere passivo al tempo che scivola. un giro, e poi un altro. inarrestabile. con talmente poco grip, che pare di scivolare e che  non si riesca fare altro. e lasciarselo fare. sentir la terra sotto i piedi, concimata dai petali che marciranno e dalle foglie lasciate lì, a far danzare il ciclo dell'azoto. e lì accanto il composter, e la nuvolaglia di moschini sotto il coperchio, e l'umido avanzato. che s'avanza di quando diventerà humus. concime.

e figurarsi che è primavera. che se sta lì ad esplodere, lo so, che c'è, oltre la patina. lo so. mentre io rimango colpito dal composter, e che ho camminato su un tappeto di petali.

però.

però.

ho anche percepito una specie di tenerezza, sotto i piedi, camminare su una distesa di fiori. una levità che spinge verso l'alto. non ostante la patina. e fanculo il composter. 

come il desiderio di smettere di sopravvivere. o vivere con la patina a smorzare più o meno la qualunque. alla stanchezza che tutto scivola via, può far capolino la stanchevolezza di vivicchiare così, anonimamente con poco entusiasmo, a voler usare un eufemismo.

non ho alzato lo sguardo ai rami della magnolia in fiore. lo so che ci sono anche quelli. cadranno, pure loro, mica non lo so. però intanto sono lì. lo so. non lo sento, ma lo so.

lo so. non basta ma è fondamentale. la consapevolezza. anche che ci si può provare di nuovo. un passo alla volta. che si comincia tipo su quei petali di magnolia.

ricominciamo. la serotonina questa volta è bianco rosata.

 


Thursday, February 29, 2024

scarti

non ho resistito: metterci un post il ventinovefebbraio. chissà che sarà il prossimo ventinovefebbraio. che poi mi girano dentro, i post. spesso mi censuro: che cazzo li scrivo a fare?

vabbhé.

l'amica amalia sostiene che ormai sono rimasti solo gli scarti. non le viene da usare la prima persona plurale, è un'interessante barlume di difesa. ma il senso è quello. quelli che ormai non si pigliano più, nemmeno tra scarti.

io altresì utilizzo il termine tieffe, nel senso di t ed f, che sta per tagliati fuori. espressione che mutuai dall'ermi. lui con il suo understatement scartavetrante si definiva così, intendendo per tagliati fuori da quelli che contano, cui dare retta, coloro che avranno una quale eco. sfuggente, l'understatement, considerata l'eco che ha lasciato. quasi asociale, l'understatement, almeno con me: che ne subii la fascinazione, con sempre la sensazione di stargli fondamentalmente sui coglioni.

tieffe, tagliati fuori. che ora mi vedo il gioco delle sedie, quelli dove si corre in cerchio, e quelli che corrono sono sempre di più delle sedie a disposizione. al segnale convenuto tutti a provare a sedersi. ed almeno uno rimane in piedi. non ci sono sedie per tutte e tutti: tieffe. non mi è mai piaciuto quel gioco. forse per la sua stessa natura: escludente, per questo con quel non so che di disturbante. non ho mai capito perché. o forse intuivo in maniera anticausale che lo sarei stato, un tieffe, un giorno.

una volta era la sedia, ne mancava una per almeno una persona. ora, ogni giro, è quando si prova a tentare di nuovo con un'altra persona. magari incidentalmente con l'idea di farci allammmmore sulla sedia, se capita. non è strettamente indispensabile, ma ha il suo perché. ed ogni giro è come se si rimanesse [auto]tieffe. la delusione, il tocco di speranza che qualcosa potesse cambiare che si vaporizza, l'amarezza, la malinconia. being tieffe

che sembrava una specie di grazia ricevuta - laicamente - ci fosse da provare a fare di nuovo un giro. capitato così inaspettato, in un periodo non da argento vivo addosso [meno del solito, intendo, giusto per dar la tara]. però capitato, da vivere. e poi, più o meno d'emblée: rimaner ancora in piedi, non ci son abbastanza sedie. tieffe.

che a leggerla con i numeri freddi della sociologia del contemporaneo urbano, la città pullula di persone sole. che uno immaginerebbe di gente che manco deve farli i giri attorno alle sedie: ce ne sono così in abbondanza. ed invece sembra tutto così complesso. o complicato dalle sclerotizzazioni dei giri precedenti. ognuno che gira, con appresso la disillusione, la diffidenza, le spigolosità. tutto un portato dai giri precedenti. e così a cercare di occuparla, una cazzo di sedia libera, tutto tranne che semplice. facile che non si riesca, o la cosa è tutto tranne che appagante. così la volta dopo è peggio, ancora più titubanti, diffidenti, sclerotizzati, spigolosi. ed anche un po' incazzati. come a levare delle sedie per il giro successivo. sempre ci sia un giro successivo, che il timore sia l'ultimo rimane appiccicato addosso.

oppure che forse le sedie son talmente malridotte, scarti. che mica ti viene da sedervicisi sopra.

anche se, dopo gli ultimi tentativi di giro, forse arrivo ad intuire l'amica laura. ed il suo essere terrorizzata, la voce che le si incrinava struggente: non sopportare l'idea che quel desiderio di amore rimanesse incompiuto. non ne sono terrorizzato, forse perché perché sormontato dal fatto la speranza sia quasi terminata. dis-sperante. tieffe o scarti che sia. non ostante il desiderio. de sidera, allontanarsi della stelle.

o forse, di nuovo, l'inadeguatezza dopo un altro giro andato male. senza peraltro aver del tutto contezza del perché. forse non ne sono capace. forse è roba che non fa per me. punto.

mi sono riuscite alcune cose, al netto il fatto mi interessi ormai poco nulla di quello che mi è venuto.

altre no. scrivere una canzone decente. padroneggiare le espressioni regolari in javascript. imparare il francese: fondu, menù, lupin, e quella u che devo sforzarmi per pronunciarla giusta, quando ci riesco. oppure - vado per vie brevi e banali - conquistare il cuore di una persona che ha fatto battere il mio, di cuore. figurarsi quando all'inizio proprio non è dell'idea. e consolidare il tutto per un tempo congruo. ed in quel tempo essere parte di una relazione.

non è roba che fa per me.

e dopo il giro, ballo lento il ballo-scopa, come quello rimasto in piedi alla festa delle medieue [manco il giuoco della bottiglia]. che sembra sia partito tutto da lì. ed ogni volta è quella specie di ritorno al quel momento fondante nell'essere un tieffe. una sorta di sliding doors, che è andata in quel modo, quindi a posto così, per sempre. quando nicoletta, camminando nel corridoio della scuola, mi vide con gli occhi a forma di cuore, o forse di pesce lesso. e mandò a dirmi, tramite orazio il messaggero, che no, non se ne faceva nulla. quel pomeriggio, nella cameretta, senza farmi scorgere da mio fratello, piansi lagrime che credevo inesauribili, stringendo al petto il gatto musty, peraltro piuttosto perplesso.

si torna lì. giro dopo giro. tieffe dopo tieffe. a domandarsi, con la paura della risposta, se l'inadeguatezza sia talmente manifesta che il resto è inutile. e se ormai si sia finiti tra gli scarti.

Sunday, February 25, 2024

dolori[smi]

abbracciare il dolore altrui è come aggrapparsi assieme, per sostenerlo in due. almeno per qualche attimo. è una piccola immersione, roba rapida neh? nulla di eroico, nel lacero dell'anima dell'altro. il dolore altrui serve a rimettere in prospettiva il proprio, relativizzarlo. ricordarsi che c'è sofferenza, variegatissima, oltre quello del nostro ombelico.

e in questo periodo sembra facilissimo trovare gente da abbracciare. come la sensazione vi sia un proliferare mai percepito prima. che magari è - appunto - una questione di percezione, perché l'ambito di personalissima risonanza è [solo?] quello. e quindi tanto, troppo, sembra riverberare attorno al cantuccio di anime che si lacerano. e mi riesca di ascoltare solo quelle eco.

ciascuna con la sua, piccola e grande. difficoltà a trovare degli squarci di luce oltre la nuvolaglia tenebrosa. lutti di genitori che vanno avanti. caducità di salute che spengono gli ultimi sorrisi. bandoli della matassa che ormai non si trovano più, oppure la matassa è sbrindellata, ed il resto che si ingarbuglia in un caos senza più sorriso, speranza, lucidità. occhietti vispi, ma con una luce triste dentro. fatiche, nelle più variegate declinazioni: dipanano dal coniugare, ognuno a suo modo, il senso di mettere a terra ogni giorno che dio manda in Terra [che poi sia dio, il cielo, il caso, il nulla: chi lo sa]. coniugazioni che son difficoltose.

il primo ribadire l'ovvio è che non c'è solo questo, e ci mancherebbe. è come se lasciassi fuori dal perimetro percettivo quasi tutto il resto.

il secondo ribadire l'ovvio è che siamo in situazione antipodale rispetto alla minchiata del mal comune e del mezzo gaudio. antipodali ad una minchiata non significa cosa intelligente. ma essere agli antipodi di una minchiata: è starsene già a buon punto. non basta, ma aiuta.

il terzo ribadire l'ovvio è il disclaimer che andrebbe messo in capo ad ogni post para-meta-simil-giaculatorio. c'è qualche miliardata di umanità che avrebbe tutte le sacrosante ragioni di mandarci a fare intouuuucuuuulo. e a noi non rimarrebbe che rispondere: eh, ci hai ragione!

mentre noi ci si arrovella nei nostri piccoli, imprescindibili, particolarissimi dolori. quando non si pensa di essere autorizzati a presentare il conto a quelli che, magari, passano vicino di lì. poco importa se quello che passa vicino di lì c'entri qualcosa, oppure nulla: qualcuno, 'stocazzodi conto, lo dovrà pur pagare, no?

abbracciare il dolore altrui è come aggrapparsi assieme, per sostenerlo in due.

se poi guardo il mio, di ombelico, mi accorgo che sto fuggendo gli abbracci che - in linea teorica - potrebbero arrivare dagli altri. che li fugga non significa che ce ne siano 'sta gran profusione, neh? per quanto qualcuno c'è, è lì. sì che c'è.

e poi ci sarebbe quella cosa che non se sia esattamente un dolore. o una specie di allarme tipo sala operativa dei pompieri che suona: nieeeec, nieeeec, nieeeec. è che quando sento, leggo, ascolto di gente che è andata avanti, c'è quel mezzo pensiero. sgorga prima che me renda del tutto conto, e che poi riesco a ricacciare indietro. ma intanto l'ho pensato. di quella gente che è andata avanti penso: almeno ha smesso di fare fatica.

Saturday, February 17, 2024

scopare

se ci finisco a letto, poi le cose si complicano.

mi piace il sesso - toh, quando si dice una considerazione che fa esclamare: uau! - mi piace scopare, mi piace fare l'amore. non son mai riuscito a capire se esistano e quali i confini fra queste cose, che succede, cosa si prova se e quando si passa da una all'altra, e viceversa. qualcuno potrebbe facilmente osservare: pistola, evidentemente non hai mai fatto davvero l'amore. può essere. ci ho ragionato sopra come un vegliardo ottantenne, ho l'esperienza di un diciannovenne impacciato.

è che se ci finisco a letto, poi le cose si complicano.

ci ho pensato al perché di 'sta cosa qui.

una chiave di lettura con nuance para-romantico-profonda potrebbe essere: se si condividono certe prossemiche, se ci si dona nell'intimità - fisica - più profonda che abbiamo, se ci si lascia andare alle reciproche piccole morti, ovvio si stabilisca una relazione. pure di quelle importanti. che magari dura l'evanescenza di un'alba. ma che ti [mi] rimane addosso. roba che non si risolve girandosi dall'altra parte ad addormentarsi, dopo aver fumato la sigaretta, figurativamente ovvio.

e sono questo tipo di relazioni in cui rimango intrappolato, emotivamente. che mi riverberano dentro. per quanto sia riuscito a tacitare abbastanza del tutto il diavoletto e l'angioletto, quelli che stanno ognuno su una delle due spalle. il diavoletto esorta: la prossima volta sarà ancora più godereccia, altrimenti mollala; l'angioletto mi riprende: devi volerle ancora più bene ora, nel caso sposala. tacitati abbastanza questi due, rimane l'eco ed il riverbero. e non credo sia un bias della morale cattolicheggiante, quella che non si leva dal fondo, il brecciolino compatto su cui poggiano le fondamenta.

quindi se ci finisco a letto, poi le cose si complicano.

forse è che, come succedaneo, funziona fino ad un certo punto. provo a spiegarmi. [forse] vorrei una relazione sentimentale, compiuta e corrisposta [probabilmente], in cui scopare è una delle cose da fare assieme. contenuto nel fare l'amore. il desiderio di una relazione mi vagola dentro, come il desiderio di fare sesso. stessa portante, ma le due cose sono modulate in bande separate in frequenza. in una c'è l'informazione in cui un desiderio si porta dentro l'altro, completandolo. nell'altra il desiderio - a tratti soverchiante - della scopata corrisposta, roba comunque importante, neh? non si banalizzano 'ste cose.

ecco. capita che arrivi a demodulare una banda. vorrei una cosa. ci trovo quella meno completa. e la cosa mi stordisce. abbastanza da crollare un po'. perché [forse] desidero, in maniera profonda, di più l'altra [probabilmente]. perché comunque, in ogni caso, la relazione con l'altra persona riverbera, e ci si sente un po' inadeguati e disorientati: perché scoparci è bello, lo si fa con amorevolezza, e l'abbraccio dopo non è di circostanza. ma tu avresti voluto demodulare l'altra banda.

se poi il periodo è affaticato di suo [e scopare con amorevolezza richiede un po' di energia, fisica ed emotiva]. se sa come di lunga coda di cose che non si schiodano. se la stanchezza non molla. ecco, anche con questo si rischia di finire in una buca, di quelle importanti. 

appunto.