Sunday, December 24, 2023

puoi dribblarlo, svuotarlo di senso, 'sto #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo. ma poi lui ritorna

e quindi sembra che te lo puoi anche dribblare, svuotare di senso, 'sto #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo. ma poi lui ritorna.

perché hai voglia a farti andare indigesto tutto er cenone della vigilia e i bagordi del giorno successivo. che sembra che il mondo che la festeggia 'sta roba sembra dividersi in: #quidanoièpiùimportantelacenadellavigliacheilpranzodelgiornodopo e gli altri. e non si sopporta più tutto il bieco consumismo che lo ammanta soffocandolo. e le cazzo di pubblicità che ci nevica dentro, che sembra ormai riesca solo lì dentro, nelle pubblicità intendo, che qui si sta colla giacchettina leggera e fa ancora caldazza che levati, che tranpò non regge più nemmeno la storia del nascituro che viene al freddo e al gelo che poi dice che la gente non crede più nella magia del natale, e già è un successo se le creature non ti sgamano con la storia del babbo natale che come farà a decollare la slitta che di neve appunto tranpò non ce ne sarà neppure al circolo polare artico. che adesso esco un attimo col suv da seilitriemezzo per far duecentometri e lasciarlo col motore acceso in seconda fila mentre finisco le compere in corso vercelli, che lì almeno ci sono ancora le luminarie con le lampadine incandescenti con grandissima buona pace e rosicamento di quei debosciati di #ultimagenerazione, 'sti fottuti iettatori, chissselincula che poi col suv ci vado fino cortina a sciare sulla neve sparata, sopra la pista lingua bianca e le pendici riarse attorno.

hai voglia a mettere in confronto a sinistra il profilo di un albero di natale, quello che è ancora in piedi dopo il proluvio di video di gatti e gattini e gattine che li abbattono gli alberi di natale, di cui si prende la parte a sinistra dell'illustrazione sfruttandone la simmetria orizzontale, e si fa fotocomposizione con a destra la forma sinistra, anche se sta a destra, dell'effetto dei circoli convettivi che sollevano dei detriti, che si sviluppano dopo l'esplosione di una bomba di un qualche quintale tipo che ne so a gaza, che magari quei moti convettivi non sono mica poi esattissamente di gaza o forse sì, ma in fondo importa fino ad un certo punto, sapendo che lì ci hanno pure detto che la metà degli ordigni utilizzati non erano intelligenti e di precisione, posto che vorrei trovarlo un ordigno intelligente, anzi forse ci sarebbero anche, quelli che decidono di non esplodere, ragionando di quanto siano coglioni, stronzi e inetti, coloro che li sganciano gli ordigni, cosicché l'ordigno non esplode ghignando saporitamente dei coglioni, stronzi e inetti e sbertucciandoli con: t'honculato, che non son esploso. anche se t'honculato potrebbe pure puzzare un po' di vetero patriarcalismo. ma tanto si addice ai coglioni, stronzi e inetti che sganciano ordigni. così che appunto abbiamo a sinistra della fotocomposizione l'albero, a destra i moti convettivi che risucchiano detriti. che poi quelli là manco so cristiani, cara grazia l'albero, mica il presepio, che ce lo meritiamo solo noi. al limite gli ucraini, che mo pure assieme a noi lo festeggino il #santonatale, mica come gli ortodossi, che ci son cristiani e cristiani, festeggiatori natalizi e festeggiatori, che gli altri attendono il settegennaio a festeggiarlo il #santonatale, quando qui ormai #eanchelefestequestannocelesemolevatedarcazzo, mentre gli ucraini ora assieme a noi. ragione che s'aggiunge al fatto siano bianchi, caucasici e pure festeggiatori ugualiuguali a noi il #santonatale, quindi si possono accogliere facile, mica come quelli che arrivano sulle barche che manco sanno cos'è il #santonatale.

e a proposito di #santonatale e di presepi e chi se li merita, hai voglia sui presepi, che resisto pervicacemente con l'isoglossa del presepio e mica presepe, ad ostentarlo e brandirlo il presepio che mi sa che tanto hanno capito un cazzo che lo rendono obbligatorio nelle scuole senza averne colto il senso profondo e di gloria in ecselsis e pacem in terram agli uomini di buona volontà, che poi secondo costoro sarebbero solo quelli che esaltano il presepio e lo rendono obbligatorio nelle scuole e decidendo loro chi sono, cosa devono credereobbedirecombattere quelli di buona volontà, gli altri sono sediziosi radicalscìc, prendeteveli voi a casa vostra buonisti  dercazzo che non siete altro. noi ci abbiamo le donne di cui andare nazionevolmente orgogliosi, come la donna che il ragazzo di destra protegge col tirapugni d'oro, che la sua donna gli dà un figlio naturale nella notte di natale quindi questa notte, mentre viene giù la neve, posto che nevica solo nelle pubblicità ed anche in alcune canzoni, anche quella di colapescedimartino, anche se non so mica ancora bene chi sia di martino e chi colapesce.

hai voglia a tutta 'sta paccottiglia qui, indigesta, complicata, sovrastrutturata, che poi quelli mezzi e mezzi oppure più o meno tieffe come me [tieffe, tagliati fuori, senza che smetta di essere un mezzo e mezzo], per tutte le strafottute ragioni di questo complesso mondo, vanno in sbadta per il combinato disposto della loro solitudine dentro e fuori qualsiasi cosa significhi, la luce fuori al solstizio che è sparita e che ricomincia a riconquistarsi però forse anche dentro la luce è sparita, e comunque cazzo è ancora bel buio presto fuori, e la melassa del tutti più buoni, passate buone feste serene, #ateefamiglia, e condivisione di gioia tra i cari, che poi si rivolta manco un otre di klein, e ti risputa addosso tutto quanto, contaminato, esacerbato, maldigerito, ricondizionato, ammalorato, spigolettaato, pubblicizzato, incoerizzato, coercizzato, mica innevato, e così uno vive la sensazione di alterità e pensa che porcodiquelcazzo se tutto il mondo se le vive bene sono io ad essere quello inadeguato e fuori standard, che così è tutto un fare ancora un giro più vorticoso che gira la testa e sale la nausea. quelli ancora quel filo sul pezzo magari hanno pure l'illuminazione, anche nel giorno breve attorno al solstizio, che poi tutto 'sto mondo che se la vive così bene forse non è tutto 'sto mondo. quelli più disillusi, o che scartano quel filo di lato, vivono la situazione lisergica del rifugiarsi a guardare una poltrona per due, che solo la sinfonia delle nozze di figaro sulle immagini e titoli di testa vale tutto il film, senza dimenticare che ad un certo punto jamie lee curtis mostrerà le tette, scena che oggi non avrebbe più molto senso però coerentissima col pieno edonismo sbracato fine anni ottanta, e mi autoperdono sia una cosa piacevole del film, che voglio cambiare per primo in me la storia del patriarcato di cui sono portatore sano, ma c'è quella gaia dolce tristezza sottile e persistente, di cui sono pervaso, per non dire della nostalgia che non si spiega e dico: ecccheccazzo, almeno a 'sto giro passatemela 'sta cosa delle tette della lee curtis. così dopo quel film non attenderà altro che augurarsi che arriverà 'sto #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo.

che ci mancherà qualcosa, dopo. che ce l'hanno fottuto il rito. ma se quel cazzo di rito c'era da svariegati secoli et secoli et secoli, è perché ha un senso profondo e ormai radicato, che sia la storia del dies natalis solis invicti o per trasposizione di quella di colui che nasce per salvarci tutte, tutti e tutt*, col gloria in exelsis anche se poi han ben sempre perculato gli uomini di buona volontà. è quella roba lì, il rito, che ormai è dentro. va bene che ce ne inventiamo di altri, come ha suggerito di condividere cose il bacchetta in una puntata di tutto scorre, perché in fondo di riti, antropologicamente, abbiamo bisogno. e mica mi sfugge che, qualsiasi cosa significhi, quel rito in fondo mi manca. poi posso fare tutte le boccacce e linguacce del caso alla paccottiglia del meinstriiim che siamo sempre di più a sentircivisi inadeguati, mi balocco a scrivere post meno leggibili del solito che è da grinch verso i tre lettori, sfracassarmi i timpani ad ascoltarmi a tutto volume swatch degli stadio anche se il testo è del guccio, che funziona solo nella canzone tirar su le spalle e ghignar sul natale.

perché il resto è che sì, c'è qualcosa di cui sento nostalgia. profondissima nostalgia. che è una parola di una pienezza evocativa pazzesca ed etimo struggente. 

quindi non so se sia così semplice passare così lievemente sopra tutto il resto. finanche al #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo.

c'è qualcosa che ho perso, anche se non so se l'abbia mai veramente avuto, che a che fare con l'esigenza sublimata di un rito, che forse è anche un pezzo di quell'eco profondo del significato di quel rito. forse arrendervicisi è un modo per non temerlo più così tanto. ed anche se è così distorto, traviato, impaccottgliato, quasi abiurato è ben lì. ben presente a tutto questa sensazione che non va bene non va male [cit.], la trascende e che come patto ed abbraccio ti fa pure dire, tra la nostalgia che non s'arrende cui non ci si arrende, che va bene così, passatori in questo mondo. va comunque bene così.

che le feste, comunque, sono in ognuno di noi. forse inutile espungerle, che il tentativo di espungerle lo guardano con tenerezza. come si guarda la bimba o il bimbo che di quel rito sa ancora farsi una bellissima e sincerissma scorpacciata. appunto. va bene così.

Sunday, December 17, 2023

vissuti, traumi, eredità collettive. santa proprio per un cazzo, quella terra

[disclaimer. questo è un post faticoso, per cui non smetterò mai di sentirmi inadeguato. però le suggestioni mi girano nella testa.]

ascoltare le notizie che arrivano da gaza, dalla west bank, non è meno doloroso di qualche settimana fa. vorrei evitare, peraltro, la trappola dell'assuefazione. penso, quasi ogni volta, a cosa lascerà questo mattatoio nel vissuto collettivo di quelle persone. vogliono annientare hamas. stanno mettendo le basi per altri dieci cose simili e forse peggiori.

che poi mica mi sfugge sia un ragionare da culo al caldo, neh? che per un paio di milioni di persone il pensiero cogente e come sopravvivere, tirar a sera e quindi mattino in quell'inferno sulla terra, vivi appunto. possibilmente con tutti i familiari.

e posso intuire, da lontanisssssssssimo e al sicuro, che delle notizie più tragiche, aberranti, si avrà del tutto contezza dopo: quando mantenersi vivi verrà molto più semplice. e con il la piena consapevolezza l'elaborazione di un trauma collettivo. bambini amputati senza anestesia, alcuni che non reggono lo shock del dolore e muoiono - i medici non chiedono più null'altro, se non che venga fornito loro anestetici e antidolorifici - l'impossibilità di curare degli ospedali, la fame, il freddo, gli istinti più primordiali e anti-sociali, le epidemie che si stanno diffondendo.

le amputazioni ai bambini senza anestesia, lo shock mortale per alcuni di costoro.

sono le cose che più mi hanno impressionato. non c'è ragione di non crederci. e soprattutto entreranno a far parte della narrazione condivisa, memoria collettiva di un popolo. si sedimenterà e diosolosa [nel senso di qualcosa che dubito esista, ma nel cui nome si fanno cose indicibili] cosa potrà far germogliare, come senso di rivalsa. non serve nemmeno capirlo o costruire artifici retorici per argomentare su una qualche forma di giustificazione. qualcosa da lì germoglierà a prescindere del nostro discutere di aria fritta più o meno propagandata. e quel germoglio porterà altro dolore. i palestinei, gazawi o meno, non sono hamas. non serve che quel germoglio metta radici in un popolo intero. ne bastano molti, molti, molti meno. ed altro dolore entrerà in circolo.

e sarà leva, giustificazione, rivalsa dell'altro popolo che sta lì, quello israeliano. che nella stragrande maggioranza non si oppone a quella tragedia, a quell'ecatombe. anche i meno invasati, anche coloro che sono ben lontani dai clerico-fascisti che li stanno governando. talmente traumatico è lo shock dell'attacco del 7 ottobre. sembrano disposti a rinunciare alla pietà, che l'è morta. è l'eco delle persecuzioni che si portano dietro da diciannove secoli. con l'ultimo abominio della soluzione finale. il scoprire, d'improvviso, il senso di insicurezza all'interno dello stato che era nato per dar loro protezione. per cui sembrano disposti a tutto. anche a generare vissuti e traumi collettivi del popolo vicino. e il senso di rivalsa anche di quelli accanto a loro. sedimenterà tutto. continueranno a germogliare istanze che metteranno in cima ai loro obiettivi l'eliminazione dello stato ebraico.

è una fottuta spirale soffocante di odio, che promette e preclude altro dolore.

così, da soli, non se ne esce. non ne escono. a costo che un popolo ne elimini un altro. la cosa peggiore di essere vittime, è essere vittime delle vittime. 

proprio, di santo, quella terra non ha nulla.


[ribadisco il disclaimer di cui sopra. fatico e mi sento anche molto inadeguato. ma son pensieri che mi girano dentro da un po'. inadeguato perché non ne so comunque abbastanza. e perché mi manca un pezzo. ci manca un pezzo. quello che non hanno coloro che non appartengono a popoli vessati e perseguitati storicamente. ci possiamo provare a ragionare, neh? ma ci mancherà comunque sempre un pezzo. un'incompletezza che - dubito - riuscirà mai a farci intuire davvero quello che succede laggiù. tranne forse il fatto che così, da soli, non ne usciranno]

Monday, December 11, 2023

I wish I knew [how it would fiiillltuuubiiifriiiii] - Nina, il Bachi, la Collega

la premessa è che il post andrebbe letto con il sottofondo di questa canzone. funziona meglio. capisco che leggere ed ascoltare non è mica semplice, specie per i maschi. e le parole di questa canzone - chi le capisce - sono importanti. ma è esattamente il mood che trasmette la cosa in più.

questa canzone è comparsa nel lettore ciddddddì, qualche giorno fa, mentre scendevo dal passo del ceneri, tornando verso l'hometown. ed è stato tornare a quella mattina di metà giugno, un venerdì. le cose belle dell'anno, mica bisogna per forza aspettare la fine per ricordarsele.

quel giorno niente lavoro da casa, me ne stavo andando là dentro. ero appena riemerso dai meandri della lilla, la radio effemme tornata a modulare. dalle cuffiette, inaspettata, la sigla del demone del tardi*. toh. che succede? erano settimane che non si sentiva, la sigla e il conduttore della trasmissione: il bachi. si sapeva fosse coinvolto in inciampi di salute non banali, non era più in onda qualche settimana, da quando mancava quella sigla.

[parentesi - si può mettere in pausa nina simone. ora. il bachi. quando metti la sveglia in sincrono con quella sigla, iniziando la giornata ascoltando il suo buongiorno, ovvio che poi 'sto tizio, il suo incedere retorico, 'sta cosa di 'sta trasmissione diventa una cosa cui ti affezioni, famigliare - specie se ti svegli solo. il bachi non è solo una voce della radio, peraltro nemmeno troppo incidentalmente il direttore artistico dei programmi. il bachi è un menestrello della parola che cuce il forbito ed il popolarissimo, un ricamatore dell'ironia e della battuta, un maitre chocolatier della circonlocuzione, disegna perifrasi come il fantasista le trame di giuoco per i compagni. quello che insomma non riesce a me. il bachi, in quarantaminuti, con modi ficcanti, de-strutturanti, sapidi, emotivi, racconta la complessità delle pagine dei giornali. la sua non è una meta-rassegna stampa, è percepire come le notizie del mondo ti attraversano, e le si può restituire senza ti scivolino via indifferenti. e poi a tratti, ai fiumi di espedienti autoironici, quando la realtà schiaffeggia, un denso di emozioni profonde, di empatia, di totale trasparenza commovevole. specie se coinvolti sono i bambini. anche la voce gli si fa diversa. difficilmente dimenticherò - tra le altre - quando arrivò improvvisa la morte di battiato. o come ha raccontato l'inizio della guerra in ucraina.
fine parentesi -  se si vuole si può far ripartire nina simone]

insomma. quella mattina c'è la sigla del demone del tardi, sono al cancello di là dentro. dopo la sigla nina simone, quella che sarebbe bello ascoltaste ora. e quindi comincia a parlare il bachi. è l'ultima puntata della programmazione non-estiva della radio. ed il bachi voleva esserci a salutare e ringraziare. accenna a suo modo alle traversie che gli sono capitate, il fatto non sia in onda da un po', la difficoltà. ma soprattutto racconta la marea di affetto, di emozione, di vicinanza di cui si è sentito circondare. e vuole condividere l'effetto di quell'affetto. di come gli sia fottutamente servito a sopportare quel che è appena stato e che sarà, la ripresa lunga. un po' è il bachi, un po' è il modo di raccontarlo alla bachi, un po' è l'empatia che sa ritrasmettere sugli effemme centosette-punto-sei, un po' è l'eco di come deve essere rinfrancante sentirsi avvolti da quel genere di condivisione. insomma è tutta 'sta roba qui et alter. è una scarica di emozione pazzesca. roba che non dimenticherò. lo so.

roba di una briciolata di minuti, neh? meno di quel che dura la canzone di nina simone. che sembra fatta apposta per quel momento, il bachi sa come farsi accompagnare musicalmente. mica per altro è il bachi. io - appunto - sto entrando là dentro. dall'uscita della lilla al secondo tornello impiego, solitamente, molto, molto meno tempo. ma in quel momento, con nina simone in sottofondo ed il bachi che racconta, rallento il passo. voglio sussumere il più possibile da quegli attimi, ed anche il camminare è qualcosa che può distrarre, farmi perdere la più piccola nuance. quindi incedo lento, lento. il corridoio è deserto, sembra che là dentro siamo solo la guardia all'ingresso ed io. il bachi e nina simone nelle cuffiette.

mentre sono a metà corridoio vedo là, in fondo, una persona infilarsi rapida nel tornello. ha usato l'altro ingresso. mi pare sia quella collega che avrei molta voglia di salutare. forse mi scorge, però non si ferma, non dà cenni di avermi visto, o riconosciuto. e soprattutto io sono ancora un po' tramortito, circonfuso dall'effetto di quella sventagliata emotiva. voglio lasciarmela scorrere dentro per qualche attimo ancora. da solo.

c'era anche quella collega al praid, qualche giorno prima, nel gruppo di quelli di là dentro. lei non si era sorpresa di incrociarmi lì. mi aveva abbracciato, non era stata l'unica. però quell'abbraccio mi era fottutamente piaciuto. al termine, prendendo una birra con un altro di là dentro, avevo condiviso il fatto che boh, sì, beh, che quella collega mi avesse sempre incuriosito. ma vivevo la sensazione di sembrare un pirla impacciato, quando mi capitava di aver a che fare con lei. oppure se, davanti ad un'ipotetica birra, avremmo trovato da parlarci per almeno un quarto d'ora: poi il mio impaccio o chissà che altro avrebbe esaurito gli argomenti.

nina simone, il bachi, e poi la collega e quella curiosità un po' irrisolta.

poi accade che a metà mattina la collega mi contatta, sul tiiims aziendale:

- ce lo prendiamo un caffè? ti ho visto stamani, ma tu sembravi startene molto sulle tue.

- come posso dire di no proprio a te? - rispondo, quel filo paraculo. 

- beh, è facile, basta dire 'no', però sono contenta tu voglia prenderlo il caffè - ribatte, smontando la mia paraculaggine.

così ci incrociamo. le accenno del bachi, anche se lei non sa minimamente chi sia. le dico dell'emozione di quel mattino, mentre camminavo lento e che l'ho vista comparire improvvisa verso il tornello. e poi le cose divagano. anche in maniera molto fitta. tipo che sbucano cose da dire, nemmeno così banali, e troppo poco tempo, appoggiati ai tavolini trespoli accanto alle macchine del caffè. ho quasi la sensazione di non percepirmi poi così del tutto pirla. ho la sensazione ci sarebbe da rimanere a parlare per molto più tempo. mi sovviene che vorrei farle leggere un romanzo di missiroli, che tanto mi aveva segnato qualche anno fa. anzi, penso tra me e me, che quasi quasi glielo regalerò. e decido che quasi quasi gliela proporrò una birra. con qualcuno, là dentro, poteva ben capitare di farlo prima o poi.

cose che succederanno.

la storia del libro, la storia dell'invito, intendo. qualche settimana dopo. quando smetto di sentirmi pirla, ed ho ancora di più la percezione ce ne sarebbero di cose da dirsi. però fuori da là dentro.

com'è finita? mi ha scritto che il libro le è piaciuto. sembra anche abbastanza molto.

 

credo che la canzone di nina simone sia ormai terminata da un pezzo, per chi l'ha messa-sul-piatto dello iutiub, intendo.

ecco. a proposito di fine e di finali. I wish I knew [how it would fiiillltuuubiiifriiiii] ha una particolarità. la ripetizione degli ultimi ultimi versi: terminano sulla sesta minore. cioè se ne sta lontano dal passaggio che va all'accordo di quinta in settima, per poi chiudere sull'accordo del tono, come nelle strofe precedenti. non è solo una smargiassata la mia. è il trucchetto con cui nina simone non chiude armonicamente il verso, non lo risolve. come volesse riproporlo. e poi riproporlo ancora. come se quel "I'd know how it feels" bisognasse ripeterselo per non scordarselo. la consapevolezza ed il percepire. 

che poi è la fazenda del perché io sbreghi alcuni post di righe-su-righe, quando rivivo alcuni momenti così. l'emozione del bachi riverberata. così come il mio tentare, che finisce più o meno sempre allo stesso modo. ma che poi - prima o poi - [spero] rimanga la voglia di tentare, come nina simone ripete il verso. fattivamente non risolvo, [spero] ci sia altro tentare. sempre più nella consapevolezza e percezione. consapevolezza e percepire. percepire e consapevolezza...

consapevolezza e percepire .percepire e consapevolezza...

consapevolezza e percepire .percepire e consapevolezza...

consapevolezza e percepire .percepire e consapevolezza...

 



[* qui altresì c'è la sigla de il demone, se interessa, nella sua lisergica coerenza e linearità. ovvio che nina simone in sottofondo fosse molto più importante]

Thursday, December 7, 2023

sant'ambroes della minchia [però non facciamone sineddoche]

tre vite fa omaggiai il [suo] parentado venuto dal napoletano. volevo loro bene, arrivai da sixtsaintjohn quasi felice, allora abitavo là. mi trovai a giocare le nipoti, con improbabile manuale per realizzare gli animali coi palloncini gonfiabili. proprio non ci riuscivo, e quella sottile sensazione di essere l'amico [utile idiota], usato alla bisogna.

infatti.

due-tre anni dopo, con l'aziendinadellaminchia nata da pochi mesi, arrivò la conferma del primo progetto da sviluppare. aggggggratiss, ovvio, ma vuoi mettere la visibilità ed il prestigio che ne sarebbe conseguito. poi magari avrebbero venduto gazziGlioni di cidddddì, qualcosa sarebbe arrivato anche a noi. la conferma il giorno di sant'ambroes: ci intravvidi uno [scaramantico] buon segno. il primo passo verso cose fantastiche e piene di soddisfazioni. come andò quel progetto? mi feci un grandissimo culo per imparare a svilupparlo, quindi realizzarlo. i ciddddì finirono imboscati dietro altra roba del bookshop del museo. grandissimo culo, zero guadagni, lustro che si presero altri. toh: quello che sarebbe successo per altri anni a venire.

recidivo.

qualche sant'ambroes dopo stavo ormai là dentro. quel giorno uscì dall'ufficio a metà giornata, una delle rarissime volte accadde in quel primo anno. mentre me ne tornavo, sulla lilla, capii di avercela quasi fatta: i primi dodici mesi, e la vittoria sulla tentazione di scappare o farmi cacciare. me ne tornavo, sulla lilla, anche incuriosito dalla storia della prima diffusa. avevo deciso di seguirla in triennale, con tanto di letture buzzatiane come antipasto. roba tutta molto milanese. fu una folgorazione. come trovarsi, d'improvviso, a condividere un qualcosa di emozionante, e financo scorgerci un senso di appartenenza. un po' sapiosecsual-elitario sì, ma appartenenza. lo condivisi con una foto della sala piena e immagine sul macsischermo, prima scena della giovanna d'arco. lo condivisi gasatissimo via uotsapp. lei non colse il riferimento e tanto meno l'entusiasmo: che cazz'è quella macchia chiara in mezzo al buio? e s'intavolò la discussione che poi finì in uno scazzo chattico. un po' lei in sbadta per la festa del compleanno del figlio, i mille modi di vivere ansie da prestazione.

solinghitudine.

un paio d'anni dopo, non lo immaginavo, ma fu l'ultima volta che la vidi. in ecestramis ci incontrammo compiutamente. poi lei tornò nella sua di città. la colazione in stazione centrale, un po' malinconica, un po' imbarazzata. il pomeriggio era la prima con l'andrea chenier. lo vidi in fondazione feltrinelli. alla fine del tutto inebriato da alcuni passaggi, un'altra fanciulla mi fece sapere: "ehh, ma poi alla fine c'è 'st'esplosione di amore eterno strappalagrime, che roba ovvia. e melensa". ah, ma eri anche tu a vederla alla prima diffusa. dove l'hai vista? a saperlo potevamo incrociarci.

[anti]profetico.

un paio d'anni dopo stavo andando al pacta teatro, lì avrei visto tosca. attendevo la cinquantotto, il sole cominciava a declinare, intanto mi avvolgeva e mi scaldava. e pensavo al progetto che mi attendeva l'anno successivo: comprare casa, mettere le basi poi per cambiare lavoro e vita. un progetto da realizzare: che bellissima sensazione. di nuovo un qualcosa di coinvolgente e vivificante. provai quella cosa inebriante et insolita che ero quasi felice. l'attimo fugace dove s'intuisce quell'acme, si è sul pezzo e ci si fa caso. volli condividerlo con odg, le scrissi un messaggio rapido. il concetto di progetto me l'aveva fatto intuire lei. ed eravamo giunti alla conclusione che la terapia fosse verosimilmente terminata. per il resto bisognava solo svoltare nel duemilaventi, e prendere la rincorsa.

appunto.

lo scorso anno, a sant'ambroes, scrissi l'ultimo messaggio a colei con cui sentivo si fosse avvicinato il cambio di paradigma, poi tutto era andato ammmminchia. ero in attesa ci facessero entrare dell'auditorium del mudec, da lì a breve il boris godunov. mi pregustavo il piacere della prima, a mitigare fossi rimasto deluso, sì. anche dalle altre interlocuzioni che si erano nel mentre vaporizzate. però pensavo che sì, fuori c'era sempre il sole, e la sensazione di aver capito come non sprofondare. poi si alzò il sipario. e comunque fu una cosa bellissima a vedersi.

illuso.


questo sant'ambroes non sono giornate facilissime. un po' mi sento sprofondato. tuttuncomplessodicose, deluso da persone più o meno a loro insaputa. pure con la percezione di essere uno stronzo, a pensare di biasimarmi intendo: considerato cosa cazzo succede vicino e lontano il mio ombelico. solo che il freddo non mi passa. la fame di luce è importante. e l'idea di non riuscire a scollarmi di dosso tutto questo. pensiero ed inazione. ora vado al pime, a guadarmi il don carlo. proverò a ricordarmi di non fare sineddoche di queste sensazioni, in questo giorno di rito, molto intimo, cerebrale, solitario. se è così oggi, anche oggi, non è necessariamente per sempre. forse sì. ma non necessariamente.

[nonvorreifossetroppoessere]fiducioso. [però che fatichina]