Saturday, March 27, 2021

arroganziamenti e dintorni [forse è un'altro pezzo della lunga psicoppia multiripartita etc. etc. etc]

stamani, alla radio, vi è stato un microfono aperto condotto dal bacchetta. tema: l'arroganza. un po' perché al micser c'era il bacchetta, un po' perché son categorie complesse, ho pensato potesse venirne fuori una sorta di seduta autoterapica di gruppo. in parte è stato così. come sempre non ho telefonato mai telefonato - è un tuttuncomplessodicose - non ho mandato sms come facevo ogni tanto - ora non sono più nell'offerta smartfonifica. insomma, come al solito ho ascoltato. a volte commentando ad alta voce, con matreme a chiedermi: con chi stai parlando? molti i contribuiti degli ascoltatori. è arrivato un po' di tutto. tipo. non mettiamola giù che l'arroganza è di destra e la tolleranza è di sinistra, che è una minchiata. mi arrogo il diritto di essere arrogante con gli arroganti. vorrei una poesia di francesca carla [questi la capiscono solo i feticisti della radio], quindi francesca carla che telefona e chiede le sia spiegato un passo di seneca sugli arroganti. quindi l'intervento perla di un'ascoltatrice che denunciava irritata di due episodi di arroganza recenti a sinistra, tradotti in due casi su cui lei non era per nulla d'accordo: la posa di una ministra in una foto, il riassunto [non esattamente esaustivo, avevo letto il pezzo] dell'amaca di un noto opinionista preteso radicalscic. intervento che mi è sembrato arrogante, peraltro.

insomma. a volte in un microfono aperto arriva il contributo che dici: cazzo, avrei volta pensarla io una finezza del genere. stamani non è andata così. suvvia, capita.

però ho pensato per come la stava conducendo il bacchetta si stava avvicinando ad un mics di ragionamenti che mi gironzola in testa da un po'. peraltro sarebbero anche dei tentativi [vani?] di far prendere un po' d'aria al blogghettino. nel senso di non far sì sia solo un'elencazione sgarruppata di sgarruppatissimi pensieri intimi. poi ovvio ti leggono in tre. quattro, via. insomma. è la storia della psicopippa multiparipartita. che è talmente ripartita che devo aver scribacchiato tre-quattro post in dieci mesi. un bel groppo di pensieri che in effetti non son mica riuscito a filare e stendere come avrei desiderato. tanto più intorcigliati in una cifra che non riesto a dipanare. anche per il flusso coscienzoso che mi prende. o almeno così mi pare.

quella lunga psicopippa multiripartita avrebbe dovuto finire con considerazioni sull'arroganza, specie nella comunicazione. o forse passarci, tappa obbligata, per poi proseguire.

in quei pensieri intorcigliati intravvedevo un degradarsi dell'intelligenza collettiva [almeno] dell'italico stivalone. la poca cultura e l'ignoranza che va al potere, esticazzi l'ignoranza e la poca cultura. il revanscismo di quelli presi per l'orecchio [figurativamente] dai prof, quelli cui stavano sui coglioni i secchioni. così che capita di un'arroganza che diventa la cifra stilistica che va per la maggiore. specie se al potere ci vanno - mediamente - persone ignoranti, con poca cultura e poco preparate.

è un bell'incontrarsi di arroganze. perché il potere reca seco un potenziale generativo di arroganza come poco altro. forse è fatta giù col falcetto. ho fatto due ettiemmezzo, lascio? però. se chi detiene una qualsiasi forma di potere non vi arriva per una qualche forma di autorevolezza - autorevolezza, non autoritarismo - di correttezza e merito - nel senso più ampio ma non per questo fantasiosi dei termini - percepirà sempre - sempre - un fianco scoperto. che ne sia consapevole o meno. e come si difende il fianco scoperto, visto che da lì potrebbe venire chi ti si vuole 'ncular, 'ché cumannari è megghiou ca futtiri? dissimulando bastioni imprendibili: con l'arroganza e via via via più su. figurarsi se al potere ci va chi si è fatto punto d'onore di esaltare la mediocrità della gggggente comune. che peraltro è un talento pure quello. ma non devi applicartici. non serve studiare, non si deve imparare, non ci si deve applicare. quindi - mediamente - con meno possibiltà argomentative, che non sia la propaganda che titilla la pancia. e se si hanno meno capacità argomentative hai voglia ad esercitare la retorica per dare sostanza alla bontà delle tue idee, delle tue azioni. mica le geometrie perfette di una perfetta azione di contropiede. ci si difende buttando la palla in tribuna. in maniera arrogante, appunto.

gli ignoranti al potere. non possono che essere arroganti. anche se potere vuol dire un sacco di cose. mentre arroganza si declina in maniera mica tanto variegata.

io sono sempre più in fissa, o forse semplicemente convinto, che gran parte di queste disfunzioni relazionali siano intrecciate con la comuncazione e con il linguaggio. intrecciate come i rami del kiwi prima della potatura. e con la reiterazione di certi linguaggi, o dai contesti che ne favoriscono alcuni e non altri: bam, si fa il danno. continuo a farla giù a fette grosse. ma credo che il vaffanculo, la rottamazione, e ruspa siano declinazioni diverse di una medesima visione. con la stessa lente gravitazional-linguistica del modo di intendere di come si alimenta la propaganda. che è anche il modo di arrivarci e di intendere il potere. e più o meno  inevitabile diventano di moda. senza ci sia per forza una qualche forma di indottrinamento. ci si indottrina - mediamente - facile. aggiungo qualche fettazza grossolana da accetta con il filo della lama da molare. è un periodo dove - mediamente - non siamo così felici e fiduciosi. lo siamo via via un po' meno da qualche anno. figurarsi in questa rumba shit-pandemic. aggiungo. quanta comunicazione, quanto confrontarsi, variegamente argomentativo, viene veicolato con mezzi che tolgono l'altro dalla nostra prossimità interlocutoria, lo disintermediano. e le stesse modalità tendono a darti una possibilità di risposta rapida, di fatto immediata. è un bel combinato disposto. tipo ungere le suole di cuoio con dell'olio motore e mettersi a guidare. facilissimo scappi via il piede dalla frizione. metti stai discutendo con uno che non vedi, non senti, non ci parli, e puoi cantargliene in modo immediato se qualcosa di lui non ti convince. metti che a lui capiti la stessa cosa, a parti invertite. quanto ci vorrà a scatenarsi l'incazzo. e quindi l'insulto. cui seguirà ancora più incazzo. e le arroganze di quando si perde la lucidità razionalisticheggiante. frenali tu, adesso, gli insulti. eppure, accidenti, io non sono d'uso apparecchiare questo mood ideale per poter tirar fuori tutta l'arroganza che, giuringiurello, mica sono così, di solito. sarà l'esasperazione, forse. però poi il fastidio arrogantoso che si appiccica e levalo tu, se sei buono. oppure ti ci abitui. e diventa l'approccio via via sempre più normale. il linguaggio che determina la realtà anche di quanto si può diventare - o ci si può scoprire - arroganti, prima che stronzi.

quindi sì. credo che il bacchetta oggi l'abbia indovinata, proponendo quel microfono aperto. almeno, dal mio punto di vista. che ho la sensazione soprattutto di modi di porsi. mediamente più arroganti di quel che succedeva prima. soprattutto di leggere di modalità [più] arroganti. ma non solo. e mica necessariamente da satrapi in minatura più o meno ignorantelli. no. no. anche di gente che ogni tanto genera sprazzi di quell'unica [sana] invidia mi concedo: l'avessi potuta pensare, argomentare, scrivere così prima io quella cosa che ha tirato fuori costei o costui. poi ci sarebbe tutto il capitolo interessante, per dinamiche psicanalitiche collettive, dell'umanità variegata telefona ai microfoni aperti della radio. ma io ho studiato altro. e già fatto giù un bel po' di fettazze grosse e spesse. e poi devo pur finirlo 'sto post.

e a proposito di finirlo c'è la chiosa finale, inevitabile, sul fatto siano percezioni mie. la storia della sensazione di arroganza sempre più diffusa, dico. può essere che mi sia davvero indebosciato o infighettato, o un misto delle due cose. sarà l'età. saranno questi tempi nuovi complicati [per tutti]. non saprei. veramente. di certo provo un più che discreto fastidio. con una conseguenza, tra le tante, ed un piccolo paradosso.

la conseguenza tra le tante è che così tendo a rititarmi. per tutte le ragioni indebosciatorie o di stanchezze più o meno diffuse, più o meno strutturali. solo che così lasci le praterie, campo libero agli arroganti. ed è una questione non esattamente semplice da gestire.

il piccolo paradosso è che la percezione penso capiti per le consapevolezze di me che ho finalmente più o meno consolidato. che quindi mi è chiaro come e quando son stato arrogante, financo perché. e come e quanto ora non serva più lo sia. al netto possa passare per spocchia, ma in fondo sticazzi se passa per spocchia. e al netto del fatto mica è detto non mi scivolerà mai più il piede dalla frizione. anzi. non sono arrogansssfriiii, magari lo fossi. mica per altro. perché credo che alla lunghisssssssima, uscire da questa modalità sia un passo avanti mica da poco, per tutti. quasi contronatura. o forse è la direzione che la natura - qualsiasi cosa sia - ha pensato per noi. la cosa complicatina è che ora se ne accorgano abbastanza persone viene lunga. molto lunga. oltre al fatto che in qualche modo gli arroganti bisognerà trovare il modo di neutralizzarli, senza arroganza. però di tempo si troverà. magari non noi specificatemente contestuali a questo blogghettino. ma sticazzi. siam mica così speciali. e ci sarà sempre un futuro dopo di noi. però qui si è già nel contesto della psicopippa evanescente. da magnifiche sorti e progressive. meglio andare a dormire, ora.

Wednesday, March 24, 2021

i rami del chivuiii

la premessa è che penso ai rami dei kiwi da tre giorni. nel senso che questo post avrei voluto scriverlo tre giorni fa. questo è un bel riassunto del contesto. un po' per la mia capacità di rimandare l'azione, financo scrivere un post in un posto riservato come questo blogghettino. un po' per come il mio affannarmi retribuito stia occupando sempre più spazio, energie, entusiasmi. come stia ottuntendo il presente.

vabbhé.

l'ultimo post ha scatenato [piccole] reazioni. tra cui quella dell'amico luca. e la sua mail, che ho letto sulla riva del lago, mentre tirava una ventazza mica male. un [raro] momento di respiro e di sollievo - relativiziamo sempre: ce l'ho piccolo, l'elenco delle cose per cui davvero dipanar giaculatorie. quindi l'amico luca ha aggiunto una foto. uno struggente colpo basso. per tutto quell'ammasso di ricordi e di sensazioni e di percezioni e di considerazioni [di allora] e di intenzioni [disattese] e di emozioni che quel ricordo si è portato appresso. la cosa interessante è che lui aveva - sacrosantemente - i suoi. io rimanevo impigliato nei rimpianti dei miei. nel senso di quel disseminato di punticini che disegnano quel che fu solo in potenza, e non fu atto. e mentre venivo investito da quell'onda impalpabile l'amico luca mi ha buttato lì una suggestione. almeno. per quel che ho colto io. e che sarebbe che - in fondo - siamo variegatamente ossessionati in maniera dualmente distopica. la cosa che ci accomuna è il non essere del tutto centrati sul presente. lui con il portato [di educazione/formazione?] di preoccuparsi molto per il futuro. con l'ubbia importante di capire di come andarci incontro con quanti più cuscini per attutire la caduta, che evidentemente ritiene inevitabile. per quel che riguarda me, invece, è l'altra metà del signor crono. così da rimanere ancorato a contemplare il disegno dei puntini di cui sopra, di quel che avrei potuto fare e non ho fatto. di quel che avrebbe potuto essere e non è stato. degli errori inanellati, per quanto in buona fede, per cui continuare a puntarmi il ditino contro. una roba tutta interna tra il mio coinquilino e me. una declinazione dell'adagio del: meglio rimorsi che rimpianti. dev'essere la presenza ingombrante della morale cattolicheggiante che mi imbarcai allora [di educazione/formazione? auto-incul[c]ata?]. non ama il rimorso. e allora vai con la rumba dei rimpianti. [peraltro c'era pure la declinazione un po' più specifica ai richiami naturali dell'esssere umano. quella del padre di un altro amico. persona semplice, ma con alcune idee essenziali e chiare. strumenti culturali non immensi, ma una saggezza importante a prescindere, cui portare molto rispetto. il giorno che il figlio si lauerò gli regalò questa massima: nella vita meglio far la figura dei maiali che degli asini. ecco. appunto].

vabbhé. tornando alla variegata ossessione distopica dell'amico luca e mia. la distopia sta appunto nel mancato essere immersi compiutamente nel presente. nel senso più pieno e vivificante dei modi. la faccio giù col falcetto. ma è come se ci fosse un altro tempo cui proiettare energie importanti quando non lasciarcele impigliate. energie che se ammonticchiate qui, nell'adesso, farebbero rilucere meglio il momento che davvero conta. che è quello in cui si sta traguardando or ora. che è guarda un po' è quello in cui ci è dato vivere. ed in cui stiamo tanto o poco agevolmente. quello che è stato non è mica l'esserci, il viversela: passato. quello che verrà, se proprio va bene, è una possibilità su cui - a guardarla attentamente - non c'è proprio tutta 'sta certezza.

e quindi il punto è adoperarsi per stare qui, sull'ora, sull'oggi, sul presente. lo so, lo so che l'oggi, il presente, l'ora di questi tempi nuovi non è esattamente qualcosa che vien tutta 'sta voglia di prendere a modello. e che il presente presentissimo tutto un po' ottunde. o fa apparire tutto quello che sta attorno come deformato, da 'ste lenti un pochino destabilizzanti. ma è importante anche questo presente. non foss'altro per prepararsi al meglio a quando si tornerà a metter per bene il naso fuori. assieme. che non è buttarsi in avanti per ovviare a questo oggi, piuttosto angosciante. ma esser pronti un po' di più.

l'amico luca mi scriveva che ci avrebbe provato a trovare un modo per starsene più nel presente, viverselo come il momento, non quello che precede quelli che saranno. ed ho percepito convinzione. intuita pur da lontano quella pervicace volontà. come se sentissi riverberare l'eco dentro di me. con le medesime esigenze. e le energie da recuperare dall'altro versante del tempo che non è più. ed è come se avessi intravisto che un modo c'è. si può fare. che è un lavoro da indirizzare, ma che poi viene, passo passo. tipo il ramo del kiwi, che tende un po' ad andare per i cazzi suoi. così come tutti i rami gli vien di fare più o meno la stessa cosa. cosicché la sommatoria di rami che vanno per i cazzi loro è un bel bordello laocoontico. ma se ogni ramo lo afferri, lo leghi, gli dai la direzione, poi ci pensa lui, il ramo, ad andare dov'è opportuno vada. ci vuole un po' di tempo - quello che [ci] sembra fugga via. ci vuole anche la capacità di legarlo come serve. e mica detto che si riesca al primo tentativo. ma poi la cosa davvero interessante, forse quasi commovente, è che il resto viene e la cosa succede. certo, certo. non il ramo in sé. è tutto il nutrimento che l'albero di kiwi piglia dalla terra, attraverso le radici. è il sistema linfatico che pompa goccia a goccia. inesorabile. così è la pianta che si fa legno. il ramo che si allunga in armonia col resto. e tutti la melodia dell'albero di kiwi, ramo per ramo. e poi, toh, guarda 'sta cosa che diamo per scontata, ma che invece può sembrare anche un prodigio: il frutto. che è un po' come il presente. da cogliere.

 


Saturday, March 20, 2021

sul parlarne - piccolo post autocontraddittorio

parlarne è stato sempre terapeutico. nel senso ampio del termine. le amicizie, le relazioni hanno sempre avuto senso proprio perché fondate sull'interlocuzione, il confronto, il parlarsi. poi sì, vero, tendo ad essere flussocoscienzioso: quindi fino ad un certo punto - verosimilmente - ero più quello che parlava, piuttosto quello che ascoltava. in altre vite qualcuno me l'ha pure puntutamente stigmatizzato, nell'effluvio della propria logorrea. ho sempre ammirato nell'amico emanuele la capacità di osservarmi col viso rasserenato, mentre ascoltava, ascoltava, ascoltava davanti ad un birra [fitta di nostalgia. le birre dove è sempre: no, ma guarda che 'sta volta tocca a me, hai fatto tu la volta scorsa]. parlarne è sempre stato terapeutico. c'era la condivisione. che è come portare assieme qualcosa. specie i fardelli. ma non solo. era come se nel raccontare il disagio - qualsiasi cosa significhi - fiorisca la percezione di spiegarlo, innanzitutto a me. e poi all'altro, anche per farlo capire. cosicché da sentirmi capito, accettato. una cosa così. la psicoterapia è questa cosa qui, con densità emotive con un altro ordine di grandezza. senza la necessità di essere accettato. e con il ritorno tipo principio attivo, tintura madre.

ecco. sono stanco, sfibrato, scorato. come tutti. e non mi viene di parlarne con nessuno. alla domanda, che cerco di fare sempre per primo: come stai, rispondo "fisicamente bene". non aggiungo molto altro. non lo faccio censurandomi, non mi viene proprio di aggiungere altro. come se fossero intimamente cazzi miei. credo accada per la combinazione lineare di questi motivi:

  1. sarebbe la verità, solo rivestimento superficiale, ma la verità. oltre che cosa da non dare mai per scontato. e tanto basta;
  2. chiunque - chiunque - con cui interloquisco vive il suo personalissimo essere stanco, sfibrato, scorato. ed ho la vaga sensazione che la stragrande maggioranza ce l'abbiano ben più lungo. figurarsi se ho voglia a far la gara a misurarselo;
  3. il parlarne è come se intuissi non servisse a nulla. indi: perché sprecare fiato ed energie?

non sento nemmeno più lontana l'esigenza di cercare odg. e non è solo perché il soffio terapeutico è come se fosse affievolito da mesi e mesi e mesi. lo abbiamo intuito assieme, lei ed io, già prima dei tempi nuovi. ma proprio perché intuisco non [mi] aggiungerebbe nulla. la versione deluxe del punto 3, insomma.

sono stanco, sfibrato, scorato. come tutti. ed in fondo ho la vaga sensazione la stia svangando più che dignitosamente. non ostante tutto. è proprio il contesto ad essere demmmmmmerda. resta la sensazione di solitudine. ma è come ci toccasse un po' tutti. come se quelle propaggini che vanno qua e là a costuire le reti di relazioni si fossero ritirate, atrofizzate. sono solo. siamo soli. con legami fattisi esili. e quasi hai paura ad aggrapparvicisi. mica che si spezzi qualcosa e venga giù roba.

chissà come sarà rinsaldarli, rifarne nappe robuste e rinvigorite. come o quanto sarà rinfrancante. o forse straniante, se non destabilizzante all'inizio. tipo la luce del sole dopo il buio prolungato e permeante. nella stanchezza che mi ottunde - al netto dovrei lavorar un po' meno - c'è dentro anche quel zic di timore, o di imbarazzo. tipo un nuovo debutto. come tornare in scena. stapandemmmmmmiademmmerda trova nella prossimità dei corpi le praterie, le geodetiche per proliferare - che poi, il virus, fa il suo fottutissimo darwinistico lavoro. quindi la prossimità dei corpi, degli altri, ti si instilla dentro come cosa cui far attenzione, pericoloso. e 'sta cosa è tanto sottile quanto con dei riverberi devastanti. quasi contro-natura. pure per un orso tipo me ed altri che consoco. sarà un reliquio da smontare. accidenti se sarà da smontare. tanto o poco ci vorrà.

poi, chissà come sarà tornare a parlarsi. parlarne. dopo che ci saremo mancati. ora non riesco a farlo con nessuno. parlarne, dico. nemmeno col cane [per quanto ci sarà ancora chissà per quanto, peraltro]. tanto non serve, appunto. e non solo col cane.

poi però ci scrivo un post. autocontraddittorio. o forse la necessità di parlarne è perché, comunque, stiamo vincendo noi. cose così.

Sunday, March 14, 2021

non è tanto la zona rossa in sé, ma la zona rossa in me

non è andato tutto bene. proprio per un cazzo. a guardarla con occhio disincantato era già più che chiaro più o meno un anno fa. l'autocolonna dei mezzi militari il diciottodimarzoduemilaventi, a bergamo, lo ha ratificato iconicamente. cantavamo dai balconi, applaudivamo alle 18.00. era un succedaneo di solidarietà condivisa, per la prima volta eravamo tutti davvero sulla stessa barca. ho la sensazione fosse soprattutto un modo per esorcizzare la paura. più o meno consciamente ci stavamo cacando sotto. peraltro con ragioni più che giustificate, riassunte nella paura arcaica della malattia. le epidemie ci hanno decimato fino ad uno sputo di decenni fa. ovvio che abbiamo l'eco di quella paura nel cervello rettile, di prima ancora scendessimo dagli alberi.

io, tanto per cambiare, ero dicotomico. da una parte rimuovevo il problema di fondo e quel tempo nuovo significava che - finalmente - potevo lavorare non andando fisicamente là dentro. una specie di pausa, che mi aveva quasi ringalluzzito. dall'altra ho avuto paura, sì. non me ne rendevo del tutto conto, ma ho avuto paura. più che per me, per tutti. nel senso che ho temuto potesse venire giù tutto: ospedali bloccati, logistica globale saltata, disordini. ed il tutto chiuso in un appartamentino piano basso, da solo, in una città di cui si diceva si sarebbe dovuto vincere la battaglia più importante: che se attechiva lì, sarebbero stati cazzi. a distanza di mesi ci ho ripensato. ho avuto paura. anche di tutta la difficoltà che ne sarebbe venuta fuori. il tener a distanza le persone. l'unica prospettiva attendere il vaccino [ma se va bene è roba per l'estate prossima, qualcuno non ha smesso di ricordare]. guardavo la circonvallazione vuota e mi prendeva il magone. un po' la vertigine, un po' la percezione di chi stesse veramente in difficoltà. ho scritto un po' in quel periodo. ogni tanto leggo di quel che c'è indietro. quelle settimane le salto. oltre la cifra stilistica intricata so ci ritroverei il peso di quei tre mesi. mi trastullavo fossi in pausa da là dentro, pur lavorando quasi più di prima. ma avevo paura. e dal mio punto di vista la questione infettivo-pandemica non si è mai esaurita. anche quando taluni blateravano di virus clinicamente morto - e qualcuno dovrebbe rispondere per quell'affermazione scellerata - non mi sono mai sentito del tutto fuori dal delirio. ho abbassato un po' le difese in alcuni contesti relazionali - pochi, pochissimi. ma sapevo non se ne era fuori. seconda e terza ondata, nulla di imprevisto. non avevo invece previsto di sbroccare. cosa che in effetti è capitata sul finire della primavera.

ora.

può essere che questa sia veramente l'ultimo sforzo. ci si richiude perché qui la situazione non è bbbbuona [cit.]. e che forse si sia già svoltato per l'ultimo strappo, grazie ai vaccini. già i vaccini e la campagna di vaccinazione di massa. sulla zona rossa non è che a me cambi 'sto granché, in questo contesto, a lavorare come un pazzo da questo soppalchino che è arroccato e dà un gran senso di protezione. non è la zona rossa in sé. è che gli stati di prostrazione ciascuno si assomigliano tutti, ognuno poi è stanco nel suo personalissimo modo [semicit.]. quindi può essere che sia un rigurgito, da zona rossa e che - com'era? - l'ora più buia e quella che precede l'alba, o una retoricata simile. ma sto vivendo decisamente con grandissima amarezza la questione della cagnara e della canea che ognuno - si fa per dire - vorrebbe vaccinare con un ordine che sta nella sua capa. segnatamente che prima viene lui. poi gli altri. è un'iperbole, ovvio. ma è rappresentativo dell'iperbolico personalissimo giramento di coglioni. le precedenze vaccinali scecherate. dai furbetti, che le parole sono importanti, quindi costoro bisognerebbe definirli per quel che sono: infami. alle categorie variegatissime con pretese lisergiche. dal punto di vista simbolico il nadir e lo zenit sono rispettivamente il guappo vinny, presidente della campania [non governatore, la campania non è il wyoming - cit luca bottura] ed il PdR. il primo che salta la fila il giorno in cui si inaugura il piano vaccinale in campania, che è con lo sguardo ed il suo grugno che acclara con arroganza che lui è lui e gli altri non sono un cazzo. il secondo è la più alta carica dello stato che, come un signore ottantenne qualunque, si mette in fila il giorno in cui arriva il suo turno, ed attende assieme ad altri vaccinandi [parentesi: sembra che lo staff abbiano volutamente rinunciato alla photo opportunity [pessimo inglesismo] nei dintorni la vaccinazione. quindi. o sono molto distratti. oppure sapevano che una qualche foto con il PdR in attesa sarebbe stata scattata in maniera non troppo professionale, quindi diffusa, con tutta la potenza iconica che ne sarebbe venuta fuori. e che ne è uscita. la comunicazione efficace, se si è capaci, la si può fare anche solo sussurrando]. il fatto che si stia provando a derogare all'elenco: prima chi cura, forze dell'ordine e insegnanti [con tutti i distinguo dei casi], quindi le persone davvero deboli e per età in ordine inverso. si va in ordine inverso perché viene prima chi ha più probabilità di lasciarci la ghirba, quindi finire in terapia intensiva, quindi intasare i reparti degli ospedali. è un principio morale ed una questione di buon senso: inestricabilmente legati. ma è anche un patto di solidarietà condiviso, che sta alla base del patto che dovrebbe farci cittadini. è il sostanziarsi del cantare l'inno di mameli sui balconi, che senza quel patto diventa un banalissimo ed apotropaico toccarsi le palle - mi scusino le signore - senza ce ne si renda conto. e invece qualche categoria che rivendicano, loro, l'essere più importante di quel patto. che siamo tutti uguali, ma c'è qualcuno di più uguale. quando non l'idea indegna del: prima chi fa più pil, con l'accordo con le aziende di assolombarda e chi ci sta ci sta. che non so se son peggio le balle oppure le facce che riescono a fare [guarda un po' se uno deve arrivare a citare ligabue]. indegna perché è come mettere esplosivo dentro le crepe di una situazione già di per sé a privilegi differenziati. è mettere a principio che le disuguaglianze non siano da mitigare, ma da accentuare [toh, la destra economica]. è un'idea a controreazione positiva, che son quelle controreazioni che i sistemi li fanno saltare. è roba che declinerebbero in una gran bella serie di contraddizioni. ad aberrazione variabile. tipo - ad esempio - un trentenne sano, con contratto a tempo indeterminato in una grande azienda, avrebbe la precedenza su una sessantenne - magari con problemi di salute - che è diventato precario in un'aziendina che magari quell'accordo non riesce a stipularlo. oppure - altro esempio - un dipedente di banca, che lavora da casa sì, un tassista no. e ci potrebbe sbizzarrire, con un sacco di altri esempi esilaranti. più ci penso e più mi sembra una cosa che ha in nuce la deriva di cui è intrisa "la strada", di mccarthy, che è un libro potentissimo quanto un pugno nello stomaco. lì non c'è più nemmeno la legge della giungla, si è oltre. è il salto distopico del mors tua però dopo che hai dovuto rinnegare in maniera revanscistica il prima donne e bambini, e sei ancora più spietato.

ora.

questa reazione, quasi itterica, a queste istanze che sovvertono, o vorrebbero sovvertire, il principio di mutua solidarietà condivisa, potrebbe essere un effetto da ipersensibilizzazione da zona rossa [in me] con l'effetto accumulo che ci si porta dietro tutti. forse coloro che han saltato la fila, sono stati percentualmente una minoranza davvero esigua. una irriducibile graniglia statistica della sciatta furberia italica. tanto pochi tanto quanta l'eco mediatica per il meritato: stronzi, andatevene afffffanculo, e magari un po' di dissenteria - suvvia, non troppo: il giusto. un riverbero di sdegno proprio perché c'è la stragrande maggioranza che crede in quel principio di mutua solidarietà. i rappresentanti delle categorie che dicono: prima noi, o i governanti che pretendono prima chi fa pil sono davvero mica tanti [vero, ci sarebbe la quisquilia che sono in posizioni più o meno apicali, che hanno effetto leva pragmatici non proprio indifferenti]. comunque saranno le disposizioni centrali - che sono pure Costituzionalmente più coerenti - quelle che daranno i tempi e i modi. e gli altri si adegueranno. ci hanno provato. ma gli ha detto male. sono mossi da princîpi stronzi, ma son stati fermati in tempo. quindi potrebbe essere che a guardarla con meno isteria da fighetteria radical chic debosciata faccia un po' meno impressione. non che non sia tecnicamente indegno. o che possa scriverne solitario, rivendicando i miei di princîpi. in questo sì rasserenato: non devo mica più giustificarli a nessuno, non mi servono per dare una mano a strutturarmi o identificarmi [non questi almeno].

non si diceva solo: andrà tutto bene. proprio per un cazzo. si diceva anche che ne saremmo usciti migliori. posto che non ne siamo mica ancora usciti. e ce ne vorrà. però su questo provo a non pensare già da ora: proprio per un cazzo. ne usciremo diversi. chi è peggio avrà dato il peggio. gli altri avranno fatto quel che potevano: che tanto o poco. molti avranno dovuto fare anche la parte di pochi, o viceversa. che è ovvio che se ne usciamo lo faremo solo se lo facciamo assieme. e ci sarà pure qualche fenomeno che pagaiava dalla parte sbagliata, e magari alla fine si convincerà pure che lo faceva dalla quella giusta: visto che si è fuori e lui lo faceva in quella direzione. e magari stracasserà li coglioni per ribadirlo. non so se saremo necessariamente migliori, dopo. sicuramente saremo diversi. la cosa migliore sarebbe se si imparasse da tutta 'sta situazione. sul cosa e come ci sarebbe da ragionarci, discutere, confrontarsi per gazziGlioni di bicchieri di vino - figurativamente. io sarò di certo diverso. so che un brivido di vertigine mi prenderà quando si tratterà di fare le cose per cui credo di aver capito valga la pena adoperarsi, o che mi sono mancate, o la combinazione lineare delle due cose. un brivido di vertigine perché gli spazi aperti possono disorientare, all'inizio. e poi non ci sarà più da ragionarci, o pensarle o peggio ancora idealizzarle, ma fare, appunto. ecco. siamo tutti variegatamente scoglionati e provati. quando chi non colpito in maniera variegatamente pesante. e dopo tutta questa fatica, collettiva e privata, sarebbe davvero uno spreco non aver imparato nulla. e almeno provarci, ciascheduno, ad essere pezzi di umanità uno zic migliori: qualsiasi cosa significhi, qualsiasi consapevolezza implichi. ma fare assolutamente in modo che questo infarto della storia [cit] non sia venuto invano. per chi, invece, in caso contrario: serenamente, pacatamente, senza giudizio alcuno: andatevene pure affanculo.

 



Monday, March 8, 2021

di disuguaglianze, linguaggi, fascinazioni. e di donne [buonlottomarzo]

l'uovo o la gallina. nel senso di chi è venuto prima? vi è una declinazione anche in ambito linguistico. la semplifico, per come la ricordo. l'amica viburna la spiegherebbe meglio, in maniera più articolata e con cognizione di causa. ma tant'è. ci provo io. la declinazione sarebbe questa. una branchia della linguistica sostiene che la lingua serva per descrivere, semantizzare, la realtà. si articola - ed evolve - per come è - e come muta - la realtà in cui sono immersi coloro che la parlano. una cosa del tipo passivo-descrittiva. l'esempio da giocarsi agli aperitivi - se e quando ci si potrà tornare - sono gli inuit e le loro diecine di parole per definire la neve. al netto sembra sia una bufala involontaria, il senso dovrebbe essere chiaro. c'è poi un'altra branchia che sostiene il duale. che cioè sia la lingua che va a determinare come si percepisce la realtà, e quindi la condizioni. una cosa del tipo attivo-prodromica. ad un evento di bookcity - fitta di nostalgia - mi colpì la suggesione del relatore, quando buttò lì che il greco ἀλήθεια (aletheia) non è probabilmente lo stesso concetto latino di veritas che è a sua volta diverso dalla nostra verità. al netto siano lingue diverse, sono concetti cangianti perché la costruzione simbolica che ne deriva è cambiata via via. enunciata dall'evoluzione della parola con cui riferirsi. [parentesi: quell'incontro di bookcity me lo ricordo in come fosse cosa viva, quasi quanto lancinante. un po' per il giorno in cui capitò. un po' per i pensieri che si scatenarono a riguardo. tanto che a quel punto ci ho pure psicopipponizzato sopra. oltre al fatto che quello che accadeva prima di questi tempi nuovi, sembra stia dentro una bolla di stranezza percepita ex-post. roba del tipo: ci si assembrava che era una bellezza, fa senso a pensarlo. eppure succedeva.]

quindi, prima l'uovo o la gallina?

la linguistica non è una scienza esatta, e qualcuno li percula dicendo di loro cose del tipo: un linguista è un matematico che non ce l'ha fatta. quindi, riguardo quelle due branchie, tutti più o meno convergono sul fatto che le cose stanno in una qualche parte nel mezzo. una lingua descrive una realtà e nel contempo ne determina la percezione per far sì la condizioni e la indirizzi.

perché questo pipponcino iniziale?

perché mi torna in mente spesso questo dualismo, quando penso o mi riferisco alle donne. alla loro condizione [media], a quello iato da colmare in termini di possibilità che a loro [non] viene mediamente concesso. oltre che è tutto un danzare di dualismi, specie in questa giornata. [l]ottomarzo, la giornata internazionale delle donne. già festa delle donne. che ovviamente c'è poco un cazzo da festeggiare.

ad esempio il dualismo di cui sopra. è spesso chiamata festa anche se si decise venisse celebrata nel giorno anniversario di un evento tragico, scelto come simbolo - eponimo - per porre l'attenzione ad una insopportabile diverità e discriminazioni [updt: in effetti sono stato impreciso. il giorno 8 marzo non vi fu nessun rogo dove morirono solo donne. crazie miko luca].  il termine festa non è dei più riusciti. e non solo per gli sbrachi triviali-similimaschilisti delle cene con spogliarello finale di quello glabro palestrato. e quindi - le parole sono importanti - meglio chiamarla per quello che è: giornata internazionale delle donne. perché la realtà è di un processo in atto, in divernire. per tendere a ridurre quelle disuguaglianze, quelle discriminaizioni.

poi c'è un altro dualismo. più personale, tutto mio. che è quello di vivere pur io questa giornata con un'intimissima compatercipazione. e nello stesso tempo sentirmi come una specie di intruso. sono pur sempre un rappresentante involontario della categoria in assoluto meno discriminata: maschio, bianco-caucasico, ad elevata scolarità, nato in uno dei luoghi con più opportunità del primomondo occidentale, in un momento storico favorevole. [poi che abbia sminchiato gran parte delle possibilità, è altro discorso. ma in questa categoria privilegiata sto e son stato]. e non importa la consapevolezza di quanto siano ingiuste quelle discriminazioni. di quanto sia convinto del senso di giustizia che c'è nell'adoperarsi per provare ad ovviarle. quanto auspichi il cambio culturale che sarebbe necessario e quanto sarebbe un bene per tutte e tutti. io altro rimango sempre e comunque.

poi c'è il dualismo ontologico del fatto siano l'altra metà del cielo. l'altra, non migliore o di minorità: altra - le parole sono importanti. quindi qualcuno che mi piacerebbe davvero capire, intuire. ma che rimane qualcuno che mai mi sarà del tutto comprensibile. tanto più ineludibile tanto quanto desiderabile. e solo il cielo - o quella roba lì - sa quanto mi manchi l'intelligenza di una donna. con le interlocuzioni profonde, stimolanti, rinfrancanti, costruttive, che mi è capitato di fare specialmente con alcune donne. donne capaci e sicuramente fuori dal comune, di cui sfruttare quel qualcosa di inafferrabile in più. [e poi c'è la parentesi. ogni tanto mi viene da pensare quanto l'unione fisica, tra una donna ed un uomo, sia qualcosa che vada ben oltre l'atto sessuale in sé. per essere uno degli attimi in cui si compie una compenetrazione reciproca. la possibilità di essere una cosa sola anche per pochi istanti. al netto del fatto che, nel divenire della storia, questa intuizione da inconscio collettivo sia stata disarticolata e frantumata. imprigionata, messa dentro alcune modalità che l'hanno deturpata, inibita, resa occlusa, con la scusa di sacrarizzarla. con tutte le storture, le devianze, le mancanze, le violenze che ne sono discese nei secoli dei secoli dei secoli. per dare peraltro un sacco da lavorare agli psicoanalisti, nei tempi più recenti. [ed è per questo che mi girano un po' i coglioni. per averlo dovuto teorizzare in maniera quasi ossessiva. e di averlo fatto poco, tanto quanto invece avrei desiderato. e almeno tanto quanto mi avrebbe fatto davvero bene]. insomma anche quando si scopa, in realtà non si sta solo scopando. anche se pensiamo sia solo una scopata. invece è un tentativo di cattura di qualcosa di profondissimo, l'eco evanescente di un'unione che arriva dall'eternità che ci ha preceduto: donne e uomini solo dopo. fine parentesi].

e poi c'è il dualismo della mia psicopipppa, e l'immensità di quel che resta da fare. specie quel che posso fare io. però se ci penso bene, qualcosa possa fare in effetti c'è. non è sufficiente, ovvio. ma è il mio personalissimo contribuito. non è il primo. non sarà l'ultimo. e pesca a piene mani dalla declinazione linguistica di cui sopra. la seconda, quella attivo-prodromica. l'uso della lingua, del mio parlare, del mio scrivere, del mio interloquire, per scalfire poco a poco, a poco, a poco, la realtà cui mi riferisco quando comunico con gli altri. per esemplificare, pure troppo, basta dire cose tipo: donna con le palle, per complimentarmi per la volitività di una bimba, di una ragazza, di una signora. al netto sia un'espressione non utilizzi più da tempo. c'è tutta una distesa di piccole attenzioni sintattiche, che però ad esserne convinto si fanno semantiche e poi pragmatiche. quel che posso fare è - tra l'altro - essere consapevole di come sia lingua utilizzi. e quindi, altro esempio, in una mail di lavoro, se tra i destinatari cvi è almeno una donna salutare con un "buondì a tutte e tutti,". declinare al femminile i sostantivi quando si riferiscono ad una donna. se uso la lingua in un certo modo, è perché arriverò a pensare in un modo coerente. e a farci l'abitudine si agirà in un certo modo. c'è di mezzo, come spesso capita, questa storia del fare. ma è così che cambia la realtà.

mica non lo so che ci vorrebbe altro. figurarsi. specie dopo che questi tempi nuovi di questa pandemmmiademmmmerda hanno fatto esplodere quello che era in essere da sempre. questi tempi hanno picchiato duro lì, allargando lo iato proprio in quelle disuguaglianze de facto. quale percentuale di donne, più degli uomini, hanno dovuto rinunciare a lavorare, quante donne lo hanno perso. mica non lo so che la battaglia è ben lontana dall'essere vinta. per quanto mi faccia sempre un po' specie utilizzare anche solo la sintassi guerreggifera. ma dicono che la rivoluzione non sia esattamente un pranzo di gala. e qui c'è da ribaltare un paradigma di fondo che è calettato, tanto o poco, nella testa di tutti, femmine e maschi. e pace se quelle più incazzate, quelle più volitive, quelle più attive ogni tanto danno l'impressione di vederti come un intruso. quando non scatenare sottilmente il senso di farti sentire una merdicciuola, in quanto maschio, come un effetto accumulo di un società storicamente e pervicacemente maschilista. non fa piacere, ovvio che no. ma credo sia pure un inevitabile effetto ciclo di isteresi della storia. tipo che fa freddo, e si regola il termostato su 19.2°, la temperatura ideale di equilibrio. il boiler di accende, la stanza si scalda, solo che poi il termostato spegne il boiler quando la temperatura è 19.5°, e per un po' la stanza continuerà a scaldarsi, per inerzia termica, allontantadosi ancora di più dai 19.2° di un paio di righe sopra. ecco, quell'incazzo è l'inerzia termica di secoli, millenni di freddo.

si passa [anche] dalle parole. quelle che si usano. quelle che stanno provando porre al centro della questione. tra le millemila la michela murgia ne ha fatto un punto di riflessione interessante [è di quello che ho letto in questi giorni. e per quanto lei mi dia delle vaibrescion non esattamente positive. anche per il suo [meta]linguaggio. e forse sia un filo sopravvalutata, IMHO]. anche il ragionamento sulla modifica dei riferimenti sessisti sulla treccani. con l'interlocuzione tra chi promuove l'iniziativa e la direttrice della treccani stessa. come in tutte le questioni di una certa complessità, tutte le parti portano argomentazioni interessanti [e se proprioproprio devo scegliere, quelle della direttrice mi convincono di più].

insomma. non so se sia una questione di rapporto non del tutto strutturato con l'autostima, ma continuo a pensare che le donne siano - mediamente - quel zic più avanti di noi uomini. credo ci sia di mezzo la questione non proprio da quisquilia che siano coloro che danno la vita - che ha valore simbolico ben più intenso che mettere al mondo. e quindi la predisposizione neuro-fisiologica conseguente. con le disparità [positive, per loro] del caso, che rimangono tali e non nulla cambia se poi madri mai lo diventeranno. ed ho la vaga sensazione che l'uomo, che le donne siano più avanti, questa cosa la sappia ben bene, giù-giù nel profondo del suo intimo. e per questo ne ha avuto un po' paura, da sempre. e gli ha dato bene di essere - fisicamente - più prestante. solo che questa quisquilia di essere quello forzutamente più debole si è deteriorato parecchio nei secoli, nelle culture, nella realtà in cui sbattiamo - mediamente - oggi. soltanto che blop-blop sono bolle di consapevolezza che affiorano qua e là da qualche tempo. sempre più convintamente. e se da una parte ormai le disuguaglianze, che si prova a ridurre, si siano acclarate per quel che dono: ingiuste. dall'altra i paradigmi, inevitabilmente, non possono che cambiare con una certa gradualità. che magari si vuole repentina. ma gradualità non può che essere. i punti angolosi sono dei traumi che portano riflussi, revanchismi. che poi la gradualità la rallentano. visto che gradualità sarà comunque.

ma è per questo che è necessario fare, agire, come conseguenza del pensare perché si parla in una certa maniera.

non è il primo post che sbribacchio per la giornata internazionale delle donne. forse è quello meno - boh - diciamo aulico. o forse è perché lo percepisco come quello più fattivo. per quanto siano piccoli spunti. piccolissime istanze. ma parola dopo parola vedrai che si sostanziano.

e che quindi sia buona giornata internazionale delle donne. chi festeggia per l'orgoglio di sentirsi donna, mica solo quel giorno. chi lotta per annullare quelle disuguaglianze quelle discriminazioni per sempre, per tutte e per tutti [anche perché vivranno meglio anche i maschi, ne sono strasicurissimamentecerto]. e per quanto non [mi] sarà mai possibile trovare le parole esatte per poter raccontare quel senso di ineluttabile, inviolabile, incolmabile fascinazione. che posso solo percepire. ma va bene accussì.