Thursday, November 28, 2019

blechfraidei, sticazzi

le suggestioni non mancano. e sono opposte, antipodali.
da una parte.
là dentro, coi colleghi che - verosimilmente - si sentono meno estranei all'andare delle cose del tempo, ho provato a sollevare la questione. provando a ribadire la mia alterità. a me, làamazson, non attira, anzi. se posso lo evito. e durante il blechfraidei tanto più. il più giovane, forse il più presente nel ribadire la propria visione, ha reagito in maniera quasi pavloviana. con un metaverbale che mi dava, secco, del fuori di testa. ma come? una multinazionale che fattura con arguzia gazziGlioni di eurI, come può esserti invisa? quando ha il fatturare gazziGlioni di eurI è la prova provata della sua arguzia, oltre che la sua abilità a far gazziGlioni di eurI, quindi non criticabile per l'essenza stessa di far argutamente gazziGlioni di eurI. è il capitalismo con strumenti e processi arguti, bellezza. altri, meno rumorosamente, mi hanno osservato: chi con stupita curiosità - l'esemplare esotico - chi con sufficienza - l'esemplare cagacazzo.
in realtà a me làamazson, non attira. ma voi accaparratevi pure un po' quella minchia che vi pare. siano oggetti inutili o quasi. in compulsione da blechfraidei o meno.
dall'altra.
ascolto la radio espressione del [variegatissssssssssssssimo] mondo della sinistra milanese. durante i microfoni aperti, contattano la radio un po' di tutto. e quindi quasi tutto lo scibile. chi acquista, pragmatico, i regali di natale col blechfraidei e con làamazson, se capita. chi discetta inorridito si possa solo pensare di portarsi a così pochi click di distanza da quella cosa lì. l'eponimo dello sfruttamento capitalistico dei lavoratori, usurpatore delle risorse del pianeta che corre verso la distruzione, drenatore fiscale di furbizia diabolica ed esecrabile. e pestelocolga chi non è d'accordo. insomma un po' di tutto.
in realtà a me làamazson, non attira. ma voi lanciate pure un po' quella minchia di strali offesissimi e indignati che vi pare. siano obiettivi o quasi. in parossismo da blechfraidei o meno.

da par mio, davvero, stigrandissimicazzi. con etimologia corretta, quella dell'articolo 7 della costituzione romana dico [vediamo se vi siete imparati].

e me lo ricordo, preciso preciso, il momento in cui presi atto dello stigrandissssimicazzi. per quanto làamazson c'entrasse poco, al limite come eponimo del fatto di voler acquistare cose.
si era in una sorta di declinazione materica, per quanto limitata, dellàamazson. un outlet. sulla via del ritorno di un weekend autunnale al mare. ma uno di quei weekend di confine. che lo inizi che sembra ancora propaggine dell'estate e lo finisci che è ormai grigioautunno. gli amici proposero di fermarsi. noi si fa un giro, dissero. io rimasi fuori dalle casette, invero quasi pre-infreddolito dentro la mia giacchetta di pelle nera. per ogni casetta, o che ad una casetta tipo casettaincanadà [ma più cuuuul] voleva assomigliare, uno o più marche - marchettose. o come dicono quelli bravi: una costruzione per ogni brand.
rimasi fuori per una questione molto semplice: le mie finanze erano ormai più che asfittiche da oltre un anno. lo sarebbero diventate ancora di più, ma allora non ne avevo contezza. quindi non potevo permettermeli quei prezzi, financo così imperdibilmente scontati. e poi, forse, non avevo davvero bisogno di nulla.
ma non fu solo questa cosa qui.
fuori dalle casette osservavo le persone entrarvi con sacchettoni giganti onusti di ogni bendidddddio marchettoso, e uscirvi magari con un sacchettone in più. vidi persone che tascinavano anche un paio di trolley, intuendone onusti di cose marchettose.
i visi di quelle persone, molti di quelli, non mi apparivano così felici. ma come incuriositi e tesi nello stesso modo. incuriositi di sapere quale occasione imperdibile potesse celarsi dentro la casetta. tesi dal fatto qualcosa potesse sfuggire loro.
in ogni caso visi non esattamente promananti guudvaibrescion.
ed in quel momento che capii, al netto del mio stato di [relativa] necessità, di quanto poco tutto quello mi importasse. quanto poco venissi coinvolto.
e capii anche con una limpidezza cristallina che non era la questione della volpe e l'uva. non era roba da: non posso permettermelo, quindi è roba inutile, quindi è pirla chi ci entra. e questo mi fece percepire una favolosa sensazione di leggerezza. nel senso che mi sentii davvero affrancato da quella specie di coinvolgimento paradigmatico, furbo consumistico o meno che fosse. e la leggerezza stava appunto nello stigrandisssssssimicazzi. che chi voleva facesse dentro e fuori quelle casette, con in mano i sacchettoni giganti. non mi sentivo né migliore né peggiore di costoro. non percepivo sensazioni né di sfighitudine - non ci potevo comprare -, né di illuminazione - era vacuo e superfluo comprare. mi percepivo semplicemente diverso. di quell'alterità che forse può essere confusa come snobbismo, ma in fondo stigrandisssssssssimicazzi pure se lo si pensa. io me ne sto tranquillo[?] con i miei alti e bassi da me. e gli altri forse felici con i loro sacchettoni giganti.
forse. nel senso che ho la vaga sensazione sia un succedaneo, financo blando.
ma in fondo chi sono io per alzar il ditino verso costoro, ed enunciare verità apodittiche giudicanti.
davvero.
ed in maniera antipodale chi sono io, per riprendere e confutare col sacro fuoco del proclama solenne, chi enuncia quelle [pretese] verità apodittiche e giudicanti. pâsdârân dell'anticapitalismo, anticonsumismo, anticonformismo. e coglioni irrecuperabili tutti gli altri.

proprio nulla di tutto ciò.
la leggerezza che provai quel giorno, peraltro in periodi non proprioproprio così rasserenanti. fu una specie di piccolo unicum. il sentirmi affrancato e nello stesso momento distaccato e non giudicante. poter vivere quell'attimo, braccia conserte appoggiato un po' di sguincio ad un muro, l'essenza più rasserenante dello stigrandissssssssssssimicazzi.

ps.
la controprova è questa sequela di ultimi mesi. con i conti più che capienti. potrei permettermi di entrare in un sacco di casette. potrei farmi di brutto di blechfraidei. e invece stigrandisssssssssssssssssimicazzi. e la leggerezza di quel giorno di inizio autunno, è ancora più leggera. quasi non si fosse ancora stancato di essere sempre più rasserenante lo stigrandisssssssssssssssssssssssssimicazzi.

Wednesday, November 20, 2019

domani si chiude [ed io ne sono molto garrulo]

quando la mia [quasi] ex-socia mi propose di entrare nella compagine sociale provai un brivido, di gioia. ed il pensiero andò immediatamente ad una persona che mi stava diventando omologa. la sua ex-socia, sua nel senso della mia [quasi] ex-socia. quando la mia [quasi] ex-socia era all'interno di un'altra compagine sociale, che nel frattempo si era chiusa. e questa sua ex-socia era diventata ex con strascichi emotivi non indifferenti. sì, insomma, avevano scazzato mica poco. tutto però in maniera molto sacerdotale: senza far volare gli stracci, sorrisi di circostanza, livore sottotraccia.
pensai alla sua ex-socia [di cui peraltro, in nevrosi passate, pensavo di dovermi innamorare [occhioni azzurro-verdi, efelidi intriganti, due gran belle tette]]. e pensai al fatto avesse gettato al vento la possibilità di starsene in una compagine sociale con colei che sarebbe diventata, di lì a poco, la mia nuova socia. e mi rivolsi a lei in un dialogo immaginifico: hai sprecato una possibilità irripetibile, quella che ora si sta spalancando davanti a me. sei stata un po' pirletta.
ero felice.
poter lavorare con lei, arrrivare ad inventarsi cose mirabolanti, dedicarsi a contenuti alti, poter dimostrare di essere un ingegnere creativo, fregiarsi dell'aura di piccolo imprenditore di una startup innovativa, oltre che sicuramente arrivare a guadagnare gazziGlioni di eurI.
era la prima cosa veramente bella et importante mi stesse capitando da quando mio padre se n'era andato. la vidi come un ricominciare. una cosa viva. una progetto per ripartire, di cui sarebbe stato sicuramente fiero.
certo, certo.
c'era il suo nuovo compagno. loro due avevano avuto l'idea dell'aziendina [che sarebbe diventata un'azienda coi controcazzi], lui avevano già deciso sarebbe stato l'amministratore. quando ci conoscemmo, la primissima volta qualche settimana indietro, non era stato esattamente all'insegna della paciosa e reciproca stima.
c'erano un paio di altri due soci che, bedvaibrescion, mi avevano comunicato sensazioni non esattamente positive, o confortanti. uno inquietante, l'altro con una sovrastruttura cordiale ma egotica in maniera preoccupante.
io però ero il più giovane, inesperto, impreparato. solo laureato in ingegneria, non avevo di che imparare da questi maestri paludati et navigati.
e poi c'era lei. la colei di cui mi fidavo in modo ontologico. se c'era lei potevo star tranquillo, riporre tutte le perplessità nella sacca delle cose di cui non curarsi. lei avrebbe garantito per me, così come lei era garanzia ci fosse. tutto il resto sarebbe passato in secondo piano. ed io avrei dato il massimo perché potevo finalmente far azienda con lei. mica come quella stolta della sua ex-socia, che aveva sprecato l'occasione che ora capitava a me.

giuringiurello.
non sto usando cifre stilistiche smaccatamente esagerate. quelle per portare da una parte il lettore, costruendo un bouquet mieloso che poi, ssssbbbbram, si demolisce con il colpo di scena che arriva di improvviso.
no. no.
io la vivevo esattamente così.
che fossi dentro un turbine nevrotico, a tratti disconnesso con il principio di realtà, non credo sia necessario sottolinearlo troppo.
poi uno dice che ha bisogno di uno bravo.

aprimmo l'azienda in un giorno di fine maggio che pioveva in maniera molto convinta. troppo convinta. quasi l'intemperia volesse farci [o farmi?] da monito: stattevi quieti, nun ce provate, fatichereste per nulla, stattevene buoni e accuorti, lassate peerde. io lessi quella avversione meteorologica come il segno sarebbe stata dura, ma che alla fine ce la si sarebbe fatta, ed avremmo vinto noi.
aveva ragione l'intemperia [forse].
per quanto anch'io ci presi, segnatamente nella prima parte dell'[auto]vaticinio. tanto che fu durissima, da subito.
guadagnavamo un cazzo.
lavoravo tantissimo.
imparavo cose nuove a furia di sessioni informatiche faticosissime.
però lavoravo con lei.
certo, certo.
a tratti cominciai ad avere la vaghissima sensazione di essermi infilato in un cul de sac.
forse non eravamo davvero tutti soci alla pari. ma un paio erano più alla pari di altri, che la sera desinavano allo stesso tavolo e dormivano nello stesso letto. noi tre avevamo il controllo del capitale sociale, mi dicevano. però mi sentivo minoranza nella maggioranza.
nel mentre cubavo tonnellate di ore lavorate in più degli altri. ma vuoi mettere l'impegno di portarsi a casa il pensiero dell'azienda quando desini allo stesso tavolo e dormi nello stesso letto: è come essere sempre al lavoro. mi facevano intendere. fortunato che non ero altro ad essere quello che apriva il mattino, e chiudeva la sera.
forse la socia non era esattamente quel quadretto idilliaco che mi ero dipinto [nevroticamente]. a lavorarci assieme tutti i giorni qualche vaga nota dissonante, ogni tanto, introduceva armonie nuove. forse pure troppo nuove.

e poi per me l'azienda finì. forse di colpo. forse era solo questione di girarsi indietro e accorgersi delle mollichine di pane che nel frattempo il divenire delle cose aveva disseminato. a portarmi lì, a quella sera in cui l'azienda finì.
stava inziando l'estate. avevo appena cambiato casa, andando finalmente a vivere solo. vero: con quello sforzo, di fatto, avevo azzerato i risparmi residui, dopo tre anni a non guadagnare praticamente un cazzo. ma avevamo appena consegnato un progetto molto prestigioso. naturalmente gratis, ma vuoi mettere la visibilità che ne sarebbe seguita. un investimento per il futuro. ero ad un punto di svolta. ed il futuro sarebbe stato radioso.
invece l'azienda finì.
ascoltandola nel turbinare di un momento di rabbia con la madre - financo di una intensità del tutto fuori luogo - mi resi conto di come la mia socia intendesse l'amicizia con me. che poi, piccola coincidenza, era solamente una delle cose che ritenevo più importanti e preziose della mia vita. e di rimbalzo l'architrave su cui poggiava la mia concezione di azienda.
che finì quella sera.
in effetti fu un punto di svolta. anche se non propriamente come l'avevo immaginato.
non ebbi il coraggio di magnificare nulla di tutto questo.
e mi infilai in una delle estati più complicate e dolorose abbia mai vissuto. non ringrazierò mai abbastanza l'amica cummmmmmmmà Liude e l'amico Luca per avermi accudito et coccolato per qualche giorno in uno dei momenti più difficili.
pochi mesi dopo inziai la terapia con odg [diamo merito al socio di essersi accorto avessi bisogno di una mano, non sapendo il perché, ovviamente. e di avermi trovato il contatto con ella]. la prima cosa che le dissi? questa persona così importante per me mi ha fatto capire come intenda la nostra amicizia, ed a me è caduto tutto addosso. idea dell'azienda compresa.

poi l'azienda invece andò avanti. ma con la direzione che - dal mio punto di vista - aveva preso: verso il fondo.

e verso il fondo ha tirato giù finanze, consapevolezze, serenità, gioie, fiducia. è stato un declino lento ma costante, con qualche sobbalzo ogni tanto. giusto per ricordarci, o ricordarmi, che a fondo stavamo andando. ed io ero zavorrato da tutto questo, da tutto quello che non ero stato capace di scrollarmi di dosso. a cominciare dai soci.
poi alla fine ho rinculato, un fragoroso e cacofonico tummmccckk. la botta e la culata presa quando sul fondo si arrivò. raccontarla come culata improvvisa è solo perché uno non voleva vederlo si stesse affondando. non ostante le suggestioni di odg, e di [pochi] altri.

la culata dell'essere giunti in fondo arrivò praticamente dopo sette anni da quel pomeriggio in cui pioveva in maniera molto convinta. un altro periodo molto, molto, molto, molto complicato.
non è stato semplice ripartire. da allora sono passati più di cinque anni. ho in parte ribaltato l'esistenza. ma l'acuto di quella culata, il bubbone che esplose, ancora producono un'eco per un cazzo piacevole.

forse è [anche] per questo che sono garrulo che domani si chiuda. danno pioggia, ma senza che venga una cosa molto convinta.
domani si chiude. per certi aspetti una formalità. specie da che abbiamo assodato il fatto ciascuno dei soci si viva la vita a prescindere dagli altri, e da quell'idrovora di finanze, aspettative, progetti, speranze che si è rivelata essere quella specie di startup. quella cosa che è diventatata, dopo che per me finì in una sera di inzio estate di qualche anno prima, senza che gli altri ne avessero sentore. e poi son state le circostanze, il contesto, la congiuntura strutturale. roba che però è andata a passo di danza sgraziata con la mediocrità di chi si pensava imprenditore, per cultura acquisita o per la percezione di sé medesima.

l'aziendina si è rivelata essere la scelta più sciagurata abbia mai fatto. involontariamente, ovvio. ma la più sciagurata rimane.
e domani chiudiamo.
ed io ne sono molto garrulo.
perché il positivo di [alcune] persone che ho conosciuto grazie all'aziendina, non me lo leverà nessuna firma da un notaio con cui mettere la parola fine.
e poi perché, comunque, ad oggi io ce la sto facendo. per quanto sia stata ed è ancora molto dura. minchia se è dura.
ma vuoi vedere che forse, quel giorno di fine maggio, avevo ragione io? mica l'intemperia.

Sunday, November 17, 2019

sull'implicazione delle isoglosse, in questo uichend un po' particolare

questo è un uichend un po' particolare. però sono un po' quei giorni in cui, passati questiduni, è come dare una bella mazzata al novembre. che vabbhé che pesa meno, occhei. però quando sarà finito è quel pochino meglio.
è anche il uichend di bookcity. che ormai è una specie di luogo di perdizione dell'anima, del desiderio e del bisogno. vagolo in maniera solitaria et rabdomantica. cerco spunti per suggestioni psicopipponiche. le propongono quelli che di mestiere fanno gli scrittori, o attraverso i libri trovano modo di raggranellare qualche spicciolo, oltre che la possibilità di confrontarsi con i lettori. compulsivi più o meno. io abbastanza più.
sono suggestioni succedanee a qualcosa di intenso che ormai non so desiderare o non so se davvero vorrei. [peraltro non trombo, indi qualche acme emotivo-intellettivo me lo scelgo per compensare]. confrontarmi in quei modi mi mostra la curvatura terrestre che si riesce a percepire, per arrivare ad intuire gli sconfini della mia ignoranza. questo però è sempre positivo. perché confrontarsi con quelli più bravi fa sgorgare una specie di tentativo di mimesi. ma nel senso che è l'esatto opposto dell'invidia o del disconoscimento [massssssì, quello in fondo è un pirla, capìss nagot]. che sono le direzioni che mica bisogna pigliare. inoltre mi ricordano che, qualche volta, qualche idea abborracciata ce l'avevo in testa. poi è appunto solo abborracciata. manca il tempo, la costanza, la formazione. probabilmente non manca la sensibilità, il terreno di coltura. cosicché, in qualche modo, l'idea c'è.
insomma.
spesso è facile che al termine di tutto questo arrivi ad essere financo quasi euforico.
non è così, questa sera.
credo anche perché è un uichend un po' particolare, appunto.
e forse è perché da stamani che ogni tanto penso a mio padre. che poi è anche la storia del uichend un po' particolare. e per cui, tutto sommato, me lo voglio vivere in maniera un po' intimista. per quanto andare a bookcity possa non sembrare così, in battuta.
e ci sto pensando anche alla luce della mancanza, anche se forse non me ne sono mai reso troppo conto, quando c'era. e che ha dovuto smettere di esserci, per capire come [mi] sia mancato. per certi versi. mentre per altri quanto lui sia stato più formativo di quel intuissi allora.
riconoscimento e lamentela. gratitudine ed incazzo. essere molto più figlio di mio padre di quanto abbia capito e accettato, prima. e quanto avrebbe potuto essermi più padre lui, durante. un po' mastincando amaro sia con me che con lui. che lo so non serve a nulla. ma mastico comunque. smettere di farlo sarebbe peggio della sensazione un po' così, che mi sento appiccata addosso in questo momento.
ed il tutto è partito con la storia delle isoglosse.
che il linguista primo relatore - l'autore del libro - ad un certo punto ha nominato nel suo intervento. intervento invero molto più scoppiettante di quello che è venuto dopo, la star mediatica, che fa da spalla al fatto si compri 'sto cazzo di libro, e poi si può far la fila per la firma. la star mediatica, a 'sto giro, impersonata da massimo cacciari. solo che cacciari, è tipo un diesel vecchia generazione di un mezzo con le marce ridotte e mozzi bloccati. forse è meno brillante, specie se viene dopo uno che ha una parlata ed un ritmo che mettono quasi allegria. quando però entra a régime aggrappa il ragionamento e pare lo domini, lo avviluppi, salendo le irte scoscesità delle sue tesi, e lo fa demolendo la sensazione di essere in salita. la sua erre arrotata ti dà quasi quella sensazione fisica.
insomma. quel ragionare di un'oretta sulle "sei lezioni di linguistica contro il razzismo" si sono distillate - tra l'altro - nell'idea, bellissima, che quando si scorgono alterità, differenze, peculiarità alternative, bisogna sempre metterle in comparazione, mai in gerarchia. perché nella comparazione della varietà è possibile individuare elementi che possano influenzare, e quindi arricchire in maniera vicendevole. se queste varietà sono impilate secondo una gerarchia, la mutua contaminazione - sono sempre più convinto, arricchente - ovvio non può esserci. e si dà il la a possibili effetti collaterali poco lieti.
il tema dell'incontro - a titillare il libro - era quello se esistano lingue migliori di altre [in passato han pure provato ad usare questo elemento per rimbalzare fino a pensare esistessero razze migliori di altre, illudendosi di esserci pure riusciti a dimostrarlo]. ma la questione si è allargata, ovvio, su questioni molto più ampie.
mentre andavo a pigliare il tramme, per raggiungere il luogo del secondo incontro che mi ero segnato di seguire, ho avuto questa specie di flash.
che quest'idea di fondo, la comparazione che è meglio della gerarchizzazione, in fondo non mi era così estranea. come se ce l'avessi nel manuale delle istruzioni che partono da lontano. molto lontano. roba che si acquisce mentre non si ha la benché minima intuizione stia accadendo. credo sian quelle cose che arrivano dai genitori, o chi genitore tuo diventa.
ed ho avuto la sensazione che l'imprinting di questa propensione a pensarla già così, che 'sta cosa arrivi da mio padre. che per ragioni variegate, forse pure per gli strumenti culturali che aveva, non è stato un gran comparatore. ma sicuramente un ontologico anti-gerarchizzante. ad occhio ho idea non avesse idea di esserlo. e non ostante fosse rimasto folgorato dall'esperienza della naja, e mettersi sull'attenti col cappello d'alpino, e 'ste cose qui. era piuttosto anarcoide, per quanto col volto pacioso perculasse ad insaputa di tutti, anche di lui medesimo, non lo fosse. con l'idea di non voler essere poi così conformizzato. anche se non l'avresti detto. tanto poi faceva quel pareva a lui, senza necessità di acclararlo.
credo di essergli debitore anche di questo. che la storia dell'anarcoidismo l'ho acclarata un po' di più. ma da lui credo di aver intuito la dritta per evitare di infilarsi in questo genere di processi mentali che, passettino dopo passettino, tende a mettere sempre e comunque qualcosa come migliore di altri.
sempre e comunque.
migliori e peggiori.
credo di aver assorbito da lui quest'automatismo a rejettare la pars destruens del ragionamento di cacciari. non è stata l'unica cosa, ovvio. e molto altro ho assorbito da matreme, ovvio. ma mi piace pensare che questo possa non essere solo merito mio.
sono cose che spuntano in maniera quasi foscoliana. e ci sta tutto.
[e se le facessi spuntare altresì io, per certi versi, stigrandisssssimicazzi. e comunque foscoliani rimarrebbero].
in questo uichend un po' particolare, che non smette di essere particolare non ostante tutto il tempo passato. che rimesta anche nel senso di quello che sono diventato, come e perché. e che provo a diventare [anche] come effetto di quello che è stato. che è stato anche prima di me, corredocromosomicamente e molto altro oltre.

Wednesday, November 6, 2019

piccolo post ipotetico [retoricamente ipotetico]

ma se io intravvedessi, in una qualunque caleidoscopica modalità, un qualcosa che possa diventare un obiettivo a medio-corto termine. diciamo uno, due anni. obiettivo tutto sommato abbastanza preciso e definito.
e se questo obiettivo a medio-corto termine fosse un qualcosa che, una volta raggiunto, realizzato, messoinsaccocciato significasse un'istanza ormai inalienabile. impegnativa, magari, ma che si può concretizzare a fronte di incroci di condizioni che non si presentano così, a gratis, e quando capitano allora bisogna più o meno cogliere l'attimo. ma poi il grosso appunto è fatto.
e se poi, una volta che il grosso è stato fatto, si possa pensare che a quel punto fosse anche possibile portarsi avanti più tranquilli, financo più lenti, senza prescia o affanni, anche perché ormai col culo al caldo.
e quindi, grazie a questa minore ansia prestazionale, pensare di dedicarsi a cose più confacenti, che non serve mica poi 'sto granché per viversela dignitosamente. e serenamente appagati.
e se si riuscisse pure a trovare cose più confacenti.
e se questo diventasse così un obiettivo a medio termine. diciamo tre, quattro anni. per quanto con meno precisione su come declinare quell'istanza, rispetto a quella precedente dico. però sapendo che si può anche pensare di andare in quella direzione. e non solo pensarlo. ma che si può fare. diventa possibile.

sapere cioè di poterle fare, le cose. come se fossero sorte al di qua degli orizzonti degli eventi. in cieli che stanno in un emisfero non solo ed esclusivamente immaginifico.

nei giorni scorsi ho accarezzato questo brivido rassicurante.

non so quanto durerà. non so quanto il tutto si scontrerà con quella cosa che poi si chiama vita, calata dentro il principio di realtà.

però, per la prima volta in gazziGlioni di anni, ho la vaga impressione che pianificare le cose - anche solo un minimo - e definire degli obiettivi siano possibilità concessemi.
e che non sarebbe così idiota sfruttare queste possibilità unite alla consapevolezza. e poter passare dalla potenza all'atto.

chi l'avrebbe mai detto, peraltro.