Saturday, May 29, 2021

post in itinere: idee spoltigliate

sono stanco. davvero. un sacco stanco.

è una settimana che sto nell'appartamentino. non ho incrociato nessuno, tranne là dentro. ci sono andato per forza un giorno. sono sette notti che non riesco a dormire liscio e riposantemente. forse è tutto il rumore di fondo della città. forse è il divano letto con il materasso spiattellato. forse è che sono stanco.

come se avessi la testa riempita, con dentro pigiate cose raffazzonate. tipo il bidone di cartone cilindrico, col coperchio di plastica, quello che prima teneva dentro il detersivo in polvere. e poi si riempiva di lego - nel senso dei mattoncini - e macchinine, e cazzogiocattolini e tuto quel delirio lì. tutto assieme mischiato e disordinato. contenitore rinfuso. che deve solo contenere.

ecco. come se avessi riempito la testa in quel modo lì. solo che il coperchio di plastica tiene giù tutto, a fatica e compresso. che non sono raccolte in 'sta maniera così efficiente. tipo i lego - nel senso di mattoncini - mischiati.

lo rovesciavo, quando ero bimbo, il contenuto del bidone. e si giocava. mentre ora è come se fosse tutto spoltigliato, nella testa.

con un po' di idee lì in mezzo. suggestioni che mi son detto: potrei buttar giù due righe postiche, nel senso di due righe di post. e poi mi passa. che è faticoso scrivere. anzi. un po' prima. è faticoso raccogliere le idee, quando sono così spoltigliate. è faticoso pensarle distinte, che filano fuori. l'unica cosa che mi riesce è quello che ormai va in automatico. cioè dirimere i piccoli deliri che succedono là dentro. metterli in ordine, allinearli, copiaincollarle, razionalizzare tutta la fuffa che tende ad autoalimentarsi, autogenerarsi. montare come le chiare dell'uovo. quello continua a riuscirmi. e faccio solo quello. acciocché non mi levi dal loop. e alimenti la stanchezza. e che spoltigli le idee. è una zona di comfort che reca nocumento. reca nocumento ma è zona di comfort. quindi figurarsi se riesco a levarmicivisi.

sono stanco. davvero. e non riesco a smettere.

volevo scrivere altro. alcune suggestioni. di quello che succede e leggo succedere e provo a pensarci su.

ma ora sono già stanco di scrivere. come se ci fosse una specie di repulsione. tipo chiudere il bidone che è strapieno di lego - nel senso di mattoncini - tutti mischiati alla rinfusa. non ci riesco. lo chiudo qui, che quindi non sarà esattamente un post in itinere.

sono stanco.

Tuesday, May 18, 2021

e il mio Maestro mi insegnò com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire

non lasciarti cullare dai ricordi, non vivere coll'eco del passato che è passato, dice.

sì. dico. provaci oggi, stamani, quando senti partire il tappeto degli archi e del synth che fa un po' evoluzione del moog. quel dispiegarsi placido e con incedere inevitabile di accordi che sembrano vadano da una parte, poi ti spiazzano e se ne vanno dall'altra. quindi il colpo deliato del tamburello. e attacca con "e ti vengo a cercare". è un'infilata di sei lustri e più. come arrivarci addietro di colpo. catapultato. a sentire quella stessa cosa alla pancia. la pelle d'oca [altaunnmetro [cit]] che imperla un po' tutto. provaci tu a non riconnetterti con quel groviglio che ero allora di speranze, di inesperienze saccenti, di ricerca assetata di indicazioni alte, sublimi, che facessero da piolo per elevarsi oltre quella banalità ed ovvietà che mi ha sempre un po' annoiato. cazzo. e ti vengo a cercare. con quei passaggi armonici che sterzavano di colpo. quei suoni essenziali che s'insinuavano di colpo. il crescendo degli archi che volteggiavano arabeschi, tanto belli quanto pazzeschi, attorno al cercare l'uno al di sopra del bene e del male. e ti vengo a cercare. avevo una fottutissima necessità allora. che quella roba che mi sembrava un assoluto, di connesso con quel grumo insondabile che sentivo pulsare dentro, non demandabile, fosse giustificato e inquadrato nel concetto di dio. che era la risposta più metafisica che mi avevano proposto. e che avevo fatto mia, tipo riflesso neonatale di presa. che non potevo non fare mia. e che ci fosse una cosa così avvolgente e trascinante come quella canzone, che lo andava a cercare, era una specie di razionalizzazione della radice di due. un cerchio che si chiudeva nella perfezione del dio che pulsava fuori. dell'eco di cui mi sentivo avviluppato. il fatto che uno potesse cantarlo, andare a cercarlo in quel modo totalmente sui generis. con un'onestà che - quando ci vuole ci vuole - bisogna riconoscere al prete di allora [l'unico, coi danni che ha poi causato, magari scrivo nartravorta], mi disse una cosa del tipo "quella ricerca che fa lui, può non essere dello stesso concetto di dio che abbiamo noi. ma è pur sempre una ricerca che va fatta". lui, che amava quella canzone esattamente tanto quanto me. l'unico che l'amava tra i conoscenti, assieme l'amico daniele. era un modo per sentirli distinti dal resto.

provaci oggi a non percepire il riverbero di quell'onda, ingenua e strutturante, che mi travolgeva in quei giorni così importanti. fondanti a loro modo. anche se l'incubo delle passioni, proprio, è un qualcosa che amo e rifuggo con un'alternanza quasi schizofrenica. e non so quanto davvero voglia, o possa, emanciparmi.

[peraltro, la smentita non fosse esattamente quel dio, o il concetto di e le sue sovrastrutture liturgiche, me la diede direttamente lui. nell'aula S02 del politecnico]

poi venne l'amica franz. che conobbi l'inizio di un caldissimo mese di settembre. era di una bellezza che non sapevo spiegarmi. totalmente fuori dai canoni delle bellezze scontate e normali. aveva qualcosa di magnetico, nella sua alterità un po' distaccata. era lì assieme ad altri. ma s'intuiva era altra dagli altri. naturalmente all'inizio credevo di starle sui coglioni. tanto quanto ne ero rimasto coinvolto. anni dopo lessi del fatto che ci sono donne che quando entrano cambiano la chimica della stanza. mi venne in mente subito lei. la mia amica franz. lei era una che cambiava la chimica della stanza, nella mia visione delle cose. quando scroprii di non starle proprio sui coglioni cominciammo a scriverci. mi ha sempre colpito la sua grafia. non esattamente femminile e sovrastrutturata. lineare ed essenziale. quasi austera. mi scriveva che amava guccini. mi scriveva che scriveva poesie. mi scriveva che si sentiva ispirata dal maestro dell'oceano di silenzio e dell'ombra della luce. era la terza persona che conoscevo ad ascoltarlo ed amarlo. prima ragazza, la prima donna. quasi a sostanziare quell'eco di codina della gaussiana che è sempre stata. come se tutto fosse andato un po' al suo posto, inquadrandosi. come a fissare quell'intuzione che ti si accende appena osservi lo sguardo di una ragazza. da cui non riesci a fuggire tanto quanto è distaccato. c'è stato poi un periodo in cui avevo quasi razionalizzato di essermene innamorato. tutttttuncomplessodicose di anni parimenti complessi e di smarrimento. un innamoramento che fu una delle cose più strampalate abbia mai immaginato. quasi a farle un torto. ma lo capii abbastanza in fretta. una come la franz era una che meritava quella pasione, quella dedizione, quella totalità che solo l'animale che mi porto dentro avrebbe dovuto volere.

e poi vennero gli uccelli che migravano della tesi di un'altra fanciulla. non ricordo nemmeno che nome avesse. ricordo solo il capello biondo, un viso particolare, un'arcata dentale importante quanto le sue tette, grandi e sode. l'avevo incrociata in un paio di corsi, che stavo recuperando strada facendo. più giovane di un paio d'anni, forse. si intuiva andasse spedita e convinta. esattamente come io mi credevo incerto in quelle aule. non avevo mai avuto modo di parlarci granché. oltre al fatto mi sembrasse semplicemente inarrivabile, per una qualche aura che non capivo bene. in realtà poi scoprii fosse la figlia di un ordinario del poli. anche piuttosto riverito e temuto. lei non sembrava curarsene, almeno da quel che dava a vedere. ma proseguiva convinta. me la ritrovai accanto nell'aula server del dipartimento, durante la tesi. stesso relatore. io con il mio malloppone pallosissimo, verosimilmente del tutto inutile, di cui mai capii il senso. per lei avevano tirato fuori dal cilindro una variazione da pensiero laterale dell'utilizzo dei radar metereologici: studiare i passaggi migratori degli uccelli. un'originalità dell'argomento di tesi - si relativizza, ovvio - che solo ad alcuni era concesso. in realtà in quelle settimane mi sembrò molto meno menosa di quello che mi ero immaginato prima. forse l'aiutai pure in qualche risvolto prammatico di come svangar cose dai server: quelli che non si spegnevano mai, che i bootstrap era tipo re-inventare la ruota. ad un certo punto venne fuori che le serviva una citazione colta da mettere in principio al volume della tesi. io le proposi le traiettorie impercettibili di codici di geometrie esistenziali de gli uccelli. lei mi guardò stranita. ma come? le avevano suggerito ovidio, dante, e chissà quale altro poeta. ed io le proponevo battiato? da una parte mi sentii un po' sfanculato. un po' di un'altra estrazione sociale [poi uno dice: di odg avevo un bisogno ex-ante]. però le suggestionai che con una citazione del genere, quanto meno, avrebbe guadagnato in orginalità. che le volute dell'introduzione, la planata e la ripartenza che t'avviluppa il percepire di quella canzone, è di un respiro che il solo volo libero può regalare. a noi, umani, ci è negato. chi aveva scritto quella canzone era riuscito a renderlo vivo lì dentro. aveva tutto il senso, l'imporanza, la pienezza di finire come citazione colta all'inizio della sua tesi. non so cosa ci infilò e che fu di lei. io, all'inizio della mia di tesi, ci misi pregno un verso della leva calcistica del '68. forse la cosa meglio riuscita assieme alla dedica e ai ringraziamenti. la fanciulla poi la incrociai un paio d'anni dopo. in piazza durante. avevo già capito di aver sminchiato la laurea, di aver sbagliato, in fatto di studi, abbastanza tutto. lei mi salutò con un trasporto che mi colpì, inaspettato. vabbhé rivedersi, ma tutto questo entusiasmo, suvvia. mi sembrò fin troppo sorridente per avermi incrociato di nuovo. mi balenò pure che il pensiero fosse inarrivabile era una totale stronzata. ma non aveva apprezzato la citazione tratta da gli uccelli. a posto così.

e comunque, 'sto cazzo di sentimentonuevo. che sarebbe bellissimo perdersi in quell'incantesimo. sarebbe. appunto.

ma è difficile davvero fottutamente difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire. specie ora che esplode la luce e che si fa lunga. ma è come se ne cogliessi solo l'ombra.

e comunque, ad ascoltarla con attenzione, col cazzo è una canzone d'amore. è sorella morte che la canta, la voce narrante de la cura. funziona. certo che funziona. oltre le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare.

credeva nella reincarnazione. noi non siamo mai morti e non siamo mai nati. non la vedo esattamente nello stesso modo. quando vengono meno gli ultimi stimoli elettrochimici che alimentano i circuiti neuronali che sintetizzano il , la cosa si chiude lì. chissà quali note ha composto, quali versi ha inventato, quali immagini di mondi lontanissimi ha intuito in quegli attimi. le sue ultime visioni. che si è portato via.

 



Saturday, May 1, 2021

primo maggio: considerazioni sparse, sul lavoro dico [finito. ci ho messo più di quanto pensassi. ma lo avrei finito. il pezzo di titolo però lo lascio. a ricordare che è stato un post in aggiornamento]]

nobilita

allora ci si frequentava. siamo nel cortile sotto casa. osserva la creatura giocare sulle giostrine, o quella roba lì. esclama: se trovo quello che ha detto che il lavoro nobilita l'uomo lo inseguo per chilometri prendendolo calci nel culo. il lavoro l'uomo lo rende schiavo, bisona liberarsi di quelle catene. lo osservo, non dico nulla. alcune situazioni mi rendono [rendevano?] poco assertivo. o forse non ho voglia di intavolare una discussione da cui trasuderebbe inevitabile una vena polemica. non dico nulla. e penso a quanta ignoranza ci sia dietro un'uscita così stupida. decenni e decenni di presa di coscienza, consapevolezza, lotte di classe, drammi, ingiustizie, vittorie, conquiste, scienze sociali e coscienze collettive risolte con un buffetto saccente, totalmente ignorate. il lavoro come elemento fondamentale di realizzazione ed espressione del sé all'interno della collettività. azione fattiva in cui ciascuno fa una sua parte, contribuisce al fatto stia in piedi quella cosa complessa ed inevitabile che è la società. il cittadino che è parte fondante dello stato. non è solo il lavoro, ovvio. ma nel contesto della comunità è sicuramente soprattutto il lavoro. è il complemento oggetto del primo commaa del primo articolo della Costituzione. la ruota dentata che si innesta sulla stella [l'uomo] nel corpo centrale del simbolo della Repubblica. 

lui, oltre ad ignorare un sacco di cose, ha la fortuna di fare un lavoro che davvero gli piace. suona. [al netto delle difficoltà importanti degli ultimi quindici mesi, proprio perché musicista.]. la commistione di una grande fortuna che non ha contezza di sé medesima. o forse sentirsi addirittura superiori, mentre si ha solo avuto culo. gli effetti possono anche essere uscite così a minchia. 


causalità

ieri guardavo propagandalaiv, che poi è l'unica trasmissione tivvvù che guardo più o meno sistematicamente. c'è stato un passaggio con cisco, ex modena city rambler. ha raccontato che molti ggggggiovani pensano sia / pensavano fosse lui l'autore di bella ciao. un po' il tributo della loro versione. un po' lo sgomento per l'ignoranza della storia. e sono cazzi quando si dimentica la storia. [parentesi. qualche minuto prima, in studio, hanno ricordato quando il tipo coi capelli di kevlar si fece bello dichiarando che avrebbe conosciuto volentieri uno dei fratelli cervi. zoro, nel senso del conduttore di propaganda, con lo sguardo stupito ha ammesso di aver rimosso quel particolare. io invece lo ricordavo]. insomma. cisco ha poi anche raccontato quando nel 2002 - quello dai capelli di kevlar dominante - furono invitati al concerto del primo maggio, ma fu chiesto loro di non cantare bella ciao. occhei, risposero. comunicarono la scaletta. l'ultimo brano: uno in minore con un ritmo cadenzato. dopo pochi secondi attaccarrono bella ciao.

non c'è primo maggio senza bella ciao. che sta cosa doveva averla detta altre volte. e comunque non era la prima volta che la sentivo. l'avevo sempre presa alla lettera. un intercalare per far pogare più convinti la folla di ggggggggiovani. ieri però l'ho ascoltata in maniera diversa. e [mi] si è spalancato il senso oltre la semantica, quella facile ed immediata. quello della causalità. che non sono solo i sei giorni di differenza sul calendario. l'infilata di possibili ponti di piccole vacanze. bensì che c'è voluta la sequenza di una dittatura, un guerra mondiale, una guerra civile e di liberazione. per capire che le stronzate che l'uomo può fare sono enormi. e toccava rimediare ri-partendo con un paradigma del tutto nuovo. mica solo in italia, ma in gran parte dell'europa. provare ad accordarsi e vedersi un continente unito, più che una cozzaglia di stati nazionali che si sarebbero presi a mazzate di nuovo, da lì a breve. in italia, tra l'altro [e di nuovo] con la Costituzione. talmente pazzesca che è molto inattuata. ma quanto meno hanno scritto l'unità di intenti. fondata sul lavoro. e lavoro compare 23 volte [l'ho sentita stamani, dal ministro, immagino che gliel'abbiano scritto a ragion veduta quel passaggio]. di nuovo, qualcosa di fondante e fondamentale. quello che la Repubblica si impegna a fare e quello che ne dovrebbe uscire come il contributo dell'insieme dei cittadini. [che poi io sia un orso è un dettaglio squisitamente mio. che poi è un percorso ancora lungo, che spesso ci trattano, ci facciamo trattare, ci comportiamo mediamente come sudditi è perché abbiamo ancora molta strada da fare. è un noi per capirci, ovvio].


invidia

ho un sacco di difetti, e cose che non girano efficienti nella testa. ma non sono una persona invidiosa. una piccola e parziale eccezione, ma non nella variante tossica, è per le persone che amano il lavoro che fanno. è una delle poche cose che odg mi ha rivelato di lei, tra l'altro. l'ho invidiata in quel momento, oltre a tenere a bada il transfer. non credo siano in molti cui capita. ed in fondo è anche questa una botta di culo. mio fratello avrebbe dovuto portare avanti l'azienda florovivaistica di mio padre e dei suoi fratelli. aveva un sacco di idee, diceva. mio zio rispose: col cazzo, si va avanti come abbiamo sempre fatto. mio fratello: occhei, buona fortuna. iniziò la scuola di infermiere, gli piaceva. poi provò per caso l'ammissione a quella di fisioterapia, la passò. per qualche giorno si lambiccò nel dubbio: continuare per diventare infermiere o provare come terapista della riabilitazione? scelse di cambiare. si diplomò gasatissimo. giusto il tempo di cominciare a farsi largo ben accolto come terapista, che l'azienda di famiglia si trovò di fronte al fatto compiuto non avesse senso proseguire. e chiuse. in tutti questi anni mio fratello ha già ammonticchiato - strameritatamente - tante di quelle soddisfazioni, nel fare quel lavoro, che io per solo avvicinarmi dovrei andare in pensione a centotrentanni. provo invidia per chi ama il proprio lavoro perché è la combinazione perfetta: realizzare un bel pezzo di sé, all'interno nel contesto del patto sociale di convivenza, con la gratificazione che regala la passione di fare ciò che si ama. è la difesa immunizzante contro la frustrazione, che s'insinua in un sacco di altre situazioni, specie qundo il lavoro è subìto. io sono una persona fondamentalmente sola. non son riuscito a costruire e/o mantenere una relazione. tanto meno crescere delle creature - al netto dei casini avrei fatto. sto perdendo in maniera importante la capacità di costruire interrelazioni nuove. è come se mi stessi ingessando sempre di più [e non è esattamente una sensazione piacevole]. non mi sento 'sto granché completo. la realizzazione professionale, in senso compiuto, credo non arriverà mai: non in questi ambiti almeno. mi era rimasta "solo" quella. e non ne verrà fuori poi tanta. eppure, inutile che lo nasconda, io questo lavoro lo so fare bene. e mi riesce più che bene. pensa un po' se mi piacesse. [poi, il fatto non sappia trattenere i rinforzi positivi che sono arrivati, le consapevolezze che ho fatto mie, le sicurezze che ho acquisito è altra fazenda. come avessi un problema di assimilazione, ha buttato lì una volta odg, in maniera illuminante. è la storia del fatto che ho cose che non girano efficienti nella testa.]


causalità - 2

durante la resistenza, la guerra di liberazione, la canzone che i partigiani cantavano era fischia il vento. i rossi, almeno. bella ciao venne dopo. quel canto esisteva già, ma con altre parole. il canto delle mondine. era un canto di lotta, donne contro il padrone che le sfrutta. due gradi di debolezze e minorità: lavoro sfruttato e donne. non è quindi casuale, bensì causale che quella canzone di lotta contro un tipo di ingiustizia sia diventato l'inno di coloro che combatterono - e vinsero con gli alleati - l'ontologia totale delle ingiustizie qual è il nazifascismo. [l'ho già scritto mi pare. ma giova ricordarcelo allo sfinimimento. per fortuna cantiamo bella ciao, oggi. e non giovinezza. ed meglio per tutti. pure per quelli che si ostinano a rimpiangere giovinezza. peraltro nemmeno da sono da paragonare, dal punto di vista della potenza melodica, quelle due canzoni. la differenza declina anche lì]. io la conosco decisamente poco, la mia ignoranza è sconfinata. ma ho letto e sentito di versioni decisamente splendide da parte di questa artista a tuttotondo. a proposito di gente che ama il suo lavoro a cui è riuscito in maniera mirabile.

 

offerta

il telefono squillò la mattina del 2 di novembre. numero (ex) tim di sole sei cifre, molto vecchio, pensai. ciao sono franco, avrei da proporti un lavoro, là dentro. pagano poco, ma magari ti interessa. quanto pagano, chiesi. la risposta mi lasciò interdetto: al giorno? mi sembrava una cifra pazzesca. chiesi, ingenuamente, con o senza iva? ovviamente senza. immaginai quella cifra ripetuta per le giornate lavorative di un mese. e per qualche mese consecutivo. roba che in sei mesi avrei fatturato come negli ultimi quattro-cinque anni. però significava andare là dentro. io che speravo di riuscire finalmente a tornare a fare il libero professionista. professionista più che libero. ed invece risucchiato di fatto in un lavoro impiegatizio, da simil-informatico. per una banca. ma era la possibilità di risollevarmi dal buco. mettere un altro iato tra me e quell'esperienza fallimentare di quel progetto piccolo aziendale. doveva essere un progetto di vita, si era rivelata una delle scelte più sciagurate della mia esistenza. mi stavano offrendo una ripartenza. eppure nicchiavo. esitavo. ero fottutamente spaventato. continuavo a ragionare quanti progettini della minchia avrei dovuto portare a casa per poter riuscire a fatturare qualcosa di simile. e non infilarmi là dentro. provare ad incassare anche meno, ma essere padrone del mio tempo. niente. i conti non tornavano. entrar là dentro era come far partire un tassametro e provare a fare del proprio meglio, e verosimilmente non farsi cacciare. per continuare a far andare il tassametro. ma esitavo. il giorno dopo andai alla palazzina liberty, uno spettacolo teatrale: "buon lavoro" [la vergani è più brava che bella, oltre che essere bellissima]. teatro realtà. chi il lavoro l'aveva perso, faticava a ritrovarlo, è a suo modo sfruttato, non ce l'ha, o chi è ripartito. fu un pugno in pancia. e mi sentii uno stronzo spocchioso. sentire raccontare - storie vere, interviste fatte agli autori ed interpreti - il dramma di coloro che davvero un lavoro non l'aveva, mentre mi lambiccavo se accettare quello che in pratica mi era caduto tra i piedi. il grido di coloro che si sentono persi 'ché non riescono a dar il proprio contributo, a sé stessi, alla società. il percepirsi senza dignità, senza quella nobilitazione [che quel fenomeno di cui sopra voleva prendere a calci nel culo per chilometri.] ed io che in fondo mi cacavo sotto, oltre che blateral sofismi per far un po' il difficile e sofisticato. che contrappunto irrispettoso. l'amico omar, da là dentro, mi chiamò e mi vellicò la suggestione: se non vieni sei un perfetto pirla. dai. facciamo qualche mese. c'è anche l'amico omar, appunto. se non mi piace cerco altro. l'altro ieri ho finito il settantasettesimo. [che non riesca trattenere i rinforzi positivi che giungono copiosi, come avessi un problema di assimilazione, perché ho cose che non girano efficienti nella testa, l'ho già scritto. vero?]

 

ombelico

provo a sollevare lo sguardo dall'ombelico. in quest'anno, di questevirusssseemmmerda, sono stati persi novecentomila posti di lavoro. in prevalenza donne e giovani. novecentomila. le donne, che la parità di genere è strada lunga assaje. e non mi levo dalla testa che là dove le donne sono impiegate di più e meglio si finisce per guadagnarci tutti. [poi vale anche il contrario. donne che replicano le peggiori cifre stilistiche dei maschi fanno decisamente più danno di loro. non lo scrivo così per sentito dire.]. i giovani, che sono giovani, occhei ed hanno la gioventù dalla loro. però cosa sarà in prospettiva. quali e quante possibilità in meno avranno. quando non saranno invogliati ad andarsene da 'sto paese. depauperandolo. con fondamenta sempre meno solide per i giovani del futuro. c'è stato 'stovirusssssemerda, vero. ma è il sistema ad assere debole. sprecare le possibilità che verranno con la montagna di soldi che ci cadrà addosso sarebbe due volte criminogeno. anche se non sono così certo saremo esattamente all'altezza quanto sarebbe necessario esserlo.


morti

quest'anno, in italia, nei primi tre mesi sono già morte centoottantacinque persone. donne e uomini. lavoratrici e lavoratori. ogni tanto qualche caso buca la notizia di più di altri, in alcuni casi per nulla. alla radio - solitamente - almeno la notizia nei gierre la danno. il lavoro nobilita. in alcuni casi si muore. ricordo la sensazione che mi attraversavano quando scrissi questo post [due rilievi. cazzo, ci scrivevo che mi piaceva il lavoro che facevo. azz, che fuoco di paglia, via via quella cosa lì si è rivelata essere per quel che fu: una delle peggiori scelte abbia mai fatto. l'altro è che l'amico emanuele mi commentò, colpito]. poco dopo la tragedia della thyssen a torino. davvero un paio di vite fa. ed il senso da un lato molto semplice: a star sul soppalchino a smadonnare, per gli intorcigliamento che capitano là dentro, è decisamente meno pericoloso che lavorare in fonderia, sul ciglio di un'autostrada, nei pressi di una pressa, a costruire case, a spegnere incendi o tirar fuori persone da macerie [anche se il pompiere paura non ne ha, ne muoiono anche tra di loro]. il soppalchino è ambiente oltremodo protetto, invece. in un sacco di altre situazioni lavoratrici e i lavoratori possono morire, o inforturarsi in maniera più o meno definitiva. tra le cause c'è dentro di tutto. credo non sia mai solamente fatalità. certo, c'è anche quell'attimo di imperizia, di azzardo del singolo, che chiede indietro un fio anche esiziale. ma ci son dentro questioni legate alla precarietà, a certi carichi di lavoro, o il combinato di queste due cose. quando non un dolo più o meno consapevole da parte del datore del lavoro. a torino, per dirne una, non ci si era più occupati di manutenere le dotazioni di prevenzioni antincendio e antinfortunistica: dovevano dismettere la linea, lo stabilimento, perché sprecare soldi per la sicurezza dei lavoratori? i numeri fanno impressione. sono donne e uomini, persone. marco bazzoni da qualche anno ne tiene memoria, di tutti, ricorda e rammenta i nomi, le storie. dev'essere un qualcosa di fottutamente faticoso. ma guarda che si impegnano a fare, a volte le persone. [l'ho sentito spesso alla radio, nei gierre. ho un ricordo nitido della sua voce con l'accento fiorentino. io sono sulla novanta, nel punto di snodo delle due vetture, appoggiato alla balaustra, con un sonno che non se ne va. da lì a breve mi sarei infilato nella metro lilla, per uscirne una quindicina di fermate dopo. tornello, scale, ufficio. decisamente un posto meno pericoloso. un altro elemento della dicotomia, un po' lancinantina, di cui mi sento attraversare]


classe

ieri sera, a propaganda [nel senso della puntata successiva di quella del primo punto], è stato mostrato un racconto per immagini sui braccianti indiani dell'agro pontino. che forse spesso non sono nemmeno più lavoratori, ma qualcosa di prossimo agli schiavi. orari massacranti, paghe da fame, spesso clandestini. lavorano zitti e muti. qualuno prova a recriminare qualcosa che spetta di diritto o di più dignitoso. quando non sono botte e violenza, la risposta è quasi sempre: non ti sta bene? c'è la fila dietro di te, ti saluto. quando polverizzi le istanze di chi lavora, ovvio sia più facile fare quel cazzo che ti pare. bisogna esserne stronzamente capaci, ovvio. i braccianti li chiamano padroni, come se loro stessi fossero di proprietà di costoro. datore di lavoro, semanticamente, è un salto di paradigma: loro non l'hanno ancora fatto. polverizzare le istanze di chi lavora può accadere ovunque vi sia tanta richiesta di lavoro, più che offerta. funziona il principio primo economico. solo che il lavoro [proprio perché nobilita l'uomo] non è una mera questione economica. per il semplice fatto ci siano di mezzo donne e uomini: persone. che da soli, singolarmente, saranno sempre in minorità, quindi la parte debole del rapporto tra esigenze contrapposte. ci voleva qualcuno che fornisse e ispirasse il concetto di classe. averne contezza dovrebbe farti sentire meno solo, con l'idea che si è un'entità che va oltre il singolo lavoratore. ovvio che funziona bene là dove ci sono masse critiche, che ne so: le fabbriche. e che si adoperino, coerentemente, nella medesima direzione: i campi isotropici tutta 'sta grande efficienza non l'hanno mai mostrata. 'sta cosa funziona meno quando appunto si è polverizzati, specie nelle consapevolezze. che si è appunto classe, non solamente singoli. in alcuni contesti è più semplice, vuoi per la prossemica che vivi ogni giorno. in altri è più complicato, dove te ne stai più solo, e può non essere così semplice fuggire alla sensazione che si sia un po' tutti contro tutti. quando manca la consapevolezza 'sta cosa entra come un coltello arroventato nel burro. con qualche strumento culturale in più si resiste meglio. oltre che la congiuntura può aiutare, ovvio. si è portatori di diritti al pari dei doveri. nell'unico posto di lavoro dove ho firmato un contratto a tempo indeterminato mi hanno spiegato si tratta di un rapporto di tipo sinallagmatico tra datore di lavoro e lavoratore. diritti e doveri si sostanziano assieme e reciprocamente, in maniera duale. quel contratto è durato diciotto mesi, anche per il fatto che il caso ha voluto che, proprio in quel posto, capissi avessi sbagliato abbastanza tutto a studiare quello che ho studiato. ma questo è un aspetto personale che non c'entra, e vorrei continuare a tenere alto lo sguardo dal mio ombelico. non ostant mi fa strano scrivere di coscienza di classe. io, che nel mio disagio contestuale, cercavo di starmene sempre isolato a lavorare, là dentro.


destra

dev'essere un retaggio arcaico. ma - mediamente - vorremmo continuare ad accumulare. declinandolo in ambito lavorativo, per quel che riguarda il compenso, ci fosse la possibilità vorremmo averne di più. ti raddoppio lo stipendio: qualcuno direbbe, no dai, va bene così? dove poi inizi l'avidità non lo so. però la tensione è in quella direzione, se non la si mitiga. ne sono convinto. ne sono certo. io 'sta cosa la vivo. 'ché lavorando - di fatto - a cottimo, tante più ore, tanto più fattura. non solo però. la tariffa, di quando entrai là dentro, mi si declinava in quello che mi parevano un sacco di soldi. ora la perceipirei come decisamente bassina. e non solo perché da allora ho ben altre competenze, capacità d'intervento, d'efficacia, d'utilità. il mio contributo, oggi, ha ben altro valore. tanto che ora, la tariffa di adesso, mi sta stretta. non foss'altro per arrogarmi di vedermi riconosciuto economicmante il fatto che quel lavoro mi frustra assaje. prostituisco la mia intelligenza, me lo chiedete con convinzione, non mi piace: pagatemi, il più possibile. oltre che prossimo al burnout, sono avido? non so. però la tensione verso quella direzione la percepisco eccome. credo che lo stesso sia anche per chi il lavoro lo offre - pur senza frustrazione ovvio. chi è imprenditore. o rappresenta chi ha la proprietà dei mezzi per cui il lavoro è offerto, in cambio di un salario. è la contropartita del rischio di impresa, vedersi spettare il plus-valore del lavoro del lavoratore. solo che senza mitigazione questa tensione a volerne sempre di più non si arresta. mitigazione di varia natura, anche interiore e personale, neh? e dove non è personale o interiore è salubre, giusto, che intervenga un'entità che ci trascende. le scienze politiche e giuridiche lo incasellano nello stato e nelle norme che regolano la convivenza e che guidano i cittadini. per noi dal primo comma del primo articolo della Costituzione in giù, peraltro. anche chi detiene i mezzi di produzione. specie per chi detiene i mezzi di produzione. è mitigazione necessaria, per chi non si mitiga da sé. quindi son norme che regolano e definiscono diritti e doveri. è del 1970 lo statuto dei lavoratori. in quel decennio hanno sistematizzato delle conquiste che ora sembrano lunari. forse anche perché ora le si guarda da qui. dopo l'egemonia culturale della destra economica degli ultimi quarant'anni. la destra economica, quella che sostiene che lo stato non è la soluzione, lo stato è il problema. quella che sostiene che il capitalismo è in grado di autoregolarsi. non sono esattamente d'accordo - uso un eufemismo. siamo uomini. siamo mediamente accumulatori. siamo in potenza avidi. bisogna porre una controreazione negativa al sistema complesso qual è il mondo e l'umanità che lo permea [su sta cosa ho in mente un post, che magari prima o poi mi verrà fuori]. di nuovo. il paradosso. mi sento un intimo ma convinto anarcoide. e scrivo di necessità di regolamentazione da parte dello stato. ma non ci vedo tutta questa inevitabile contraddizione. solo una consequenzialità, che però non credo farò mai in tempo a vedere.


intierezza

stamani ho acceso il piccccì alle 7.45. giornata intensa. poco più di undici ore dopo ero ancora lì col piccccì acceso. stavo smadonnando. anche se era appena stato trovato il file della cui assenza mi ero accorto quasi due ore addietro. trovato pochi minuti prima iniziasse un giro settimanale di lavorazione automatica, che aveva bisogno anche di quel file. due ore a chiedere a chi poteva verificare dove recuperarlo, che però non lo trovava, e allora dimmi di questo dettaglio, poi quello, indaga sul come, ipotizza sul perché, controlla quest'altro, cerca questo, condividimi quello script, inviami questa evidenza, guarda in quel path: eccolo lì [porcodiquelcazzo - ho pensato], copiamelo là, grazie mille a tutti [fanculo a te, coglione: per la fatica che mi hai fatto fare - pensavo mentre scrivevo l'ultima mail]. due ore a guidare passo passo uno con l'accesso ai server, e che con un po' di proattività lo avrebbe fatto saltar fuori in cinque minuti. cinque. smadonnavo un po' incazzato, un po' soddisfatto per avercela fatta, soprattutto sollevato per la gragnuola di rotture di coglioni procedurali che avrei dovuto altrimenti gestire l'indomani mattina. oltre alle mail formali, segnalazione danno banca, e cose così. due ore, dopo altre nove ore di rogne e rognette una via l'altra. eppure potevo lasciar perdere. ci avrei pensato il giorno dopo. rotture di cazzo, ma pace. l'ora di metter giù la penna era passata da un bel po'. in fondo non sarebbe mica morto nessuno. e invece no. 'sto merdosissimo file da qualche pare deve pur essere. quel cazzo di processo settimanale sarebbe stato meglio partisse come ogni lunedì sera. io non so dove finisca l'etica [consiglio di lettura spassionato: la chiave a stella] e dove inizi la nevrosi. se c'è un confine, è labile. so che altresì non riesco a porre limiti. ad un lavoro che, per la vastità delle cose da fare, controllare, sistemare, razionalizzare là dentro, non ha di fatto dei limiti. è il connubio perfetto, o pericolosissimo. non riesco a pormi limiti perché lo sto facendo diventare intierezza del mio tempo [il tempo. il mio tempo. la cosa quasi più preziosa dopo la salute. ho in mente un altro post. prima o poi chissà]. credo che al momento sia una specie di tossicissima comfort zone esistenziale. sono bloccato. pancia a terra ad esaurirmi con un qualcosa che non aspetta altro che soverchiarmi. non riesco a porre limiti. è intierezza e non solo di tempo. per una cosa che - comunque - non mi piace. e che non trovo davvero utile. invece di files da far trovare ad un accidioso, vorrei tirar fuori dal mare le persone che affogano nel canale di sicilia, per dire. chissà come mi sentirei riempito da quella intierezza. ed invece continuo con questa qui. un po' perché paga bene, un po' perché è zona di conforto continuare a pensarmi incapace di uscirci da questa comfort zone. non so quanto mi nobiliti tutto ciò. sarei dinonesto se però non riconoscessi che sono soddisfatto del ricordo che avranno di me, quando finirà là dentro. che è una forma di piccola nobilitazione. qualcosa che per fortuna si risolve, nel coacervo di un frullato di elementi che non riesco a razionalizzare, che non riesco a ricondurre ad un rapporto armonico. centratura su sé medesimi, realizzazione, serenità, equilibrio financo temporaneo. come se spazzassi via tutto. facendo vorticare e fondendo elementi che dovrebbero starsene distinti. un gran mischione. o forse mi rimane poco altro. o me la racconto su. che là dentro è tutto piuttosto complesso. ma in fondo non avete idea di quanto mi sia tutto sommato semplice. il difficile è farne a meno. e che ne avrei molto da guadagnare. molto di più delle fatture che riesco ad emettere. ma ho la sensazione sarebbe davvero una ficata nobilitarsi così.

non è solo lavoro. ma è anche [tanto] lavoro. e che mi strugge. un po' è perché sono diciottomesi che non stacco più di tre giorni. un po' perché credo sia giusto farlo al meglio. anche per rispetto a tutti coloro che un lavoro non ce l'hanno, l'hanno perso, sono sfruttati e tutte le situazioni per cui 'sto cazzo di lavoro declina in dramma. e questo dovrebbe bastare [vero, ci sono migLioni di fancazzisti, che rubano lo stipendio e lo portano via a chi lo meriterebbe. tutti quelli che con la scusa che non hanno l'accesso in produzione compilano i fogli excel e si atteggiano. ma questo sarebbe un post sul primo maggio. è altra roba dal loro essere acqua saponata di risulta dopo aver lavato i piatti]