Sunday, December 24, 2023

puoi dribblarlo, svuotarlo di senso, 'sto #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo. ma poi lui ritorna

e quindi sembra che te lo puoi anche dribblare, svuotare di senso, 'sto #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo. ma poi lui ritorna.

perché hai voglia a farti andare indigesto tutto er cenone della vigilia e i bagordi del giorno successivo. che sembra che il mondo che la festeggia 'sta roba sembra dividersi in: #quidanoièpiùimportantelacenadellavigliacheilpranzodelgiornodopo e gli altri. e non si sopporta più tutto il bieco consumismo che lo ammanta soffocandolo. e le cazzo di pubblicità che ci nevica dentro, che sembra ormai riesca solo lì dentro, nelle pubblicità intendo, che qui si sta colla giacchettina leggera e fa ancora caldazza che levati, che tranpò non regge più nemmeno la storia del nascituro che viene al freddo e al gelo che poi dice che la gente non crede più nella magia del natale, e già è un successo se le creature non ti sgamano con la storia del babbo natale che come farà a decollare la slitta che di neve appunto tranpò non ce ne sarà neppure al circolo polare artico. che adesso esco un attimo col suv da seilitriemezzo per far duecentometri e lasciarlo col motore acceso in seconda fila mentre finisco le compere in corso vercelli, che lì almeno ci sono ancora le luminarie con le lampadine incandescenti con grandissima buona pace e rosicamento di quei debosciati di #ultimagenerazione, 'sti fottuti iettatori, chissselincula che poi col suv ci vado fino cortina a sciare sulla neve sparata, sopra la pista lingua bianca e le pendici riarse attorno.

hai voglia a mettere in confronto a sinistra il profilo di un albero di natale, quello che è ancora in piedi dopo il proluvio di video di gatti e gattini e gattine che li abbattono gli alberi di natale, di cui si prende la parte a sinistra dell'illustrazione sfruttandone la simmetria orizzontale, e si fa fotocomposizione con a destra la forma sinistra, anche se sta a destra, dell'effetto dei circoli convettivi che sollevano dei detriti, che si sviluppano dopo l'esplosione di una bomba di un qualche quintale tipo che ne so a gaza, che magari quei moti convettivi non sono mica poi esattissamente di gaza o forse sì, ma in fondo importa fino ad un certo punto, sapendo che lì ci hanno pure detto che la metà degli ordigni utilizzati non erano intelligenti e di precisione, posto che vorrei trovarlo un ordigno intelligente, anzi forse ci sarebbero anche, quelli che decidono di non esplodere, ragionando di quanto siano coglioni, stronzi e inetti, coloro che li sganciano gli ordigni, cosicché l'ordigno non esplode ghignando saporitamente dei coglioni, stronzi e inetti e sbertucciandoli con: t'honculato, che non son esploso. anche se t'honculato potrebbe pure puzzare un po' di vetero patriarcalismo. ma tanto si addice ai coglioni, stronzi e inetti che sganciano ordigni. così che appunto abbiamo a sinistra della fotocomposizione l'albero, a destra i moti convettivi che risucchiano detriti. che poi quelli là manco so cristiani, cara grazia l'albero, mica il presepio, che ce lo meritiamo solo noi. al limite gli ucraini, che mo pure assieme a noi lo festeggino il #santonatale, mica come gli ortodossi, che ci son cristiani e cristiani, festeggiatori natalizi e festeggiatori, che gli altri attendono il settegennaio a festeggiarlo il #santonatale, quando qui ormai #eanchelefestequestannocelesemolevatedarcazzo, mentre gli ucraini ora assieme a noi. ragione che s'aggiunge al fatto siano bianchi, caucasici e pure festeggiatori ugualiuguali a noi il #santonatale, quindi si possono accogliere facile, mica come quelli che arrivano sulle barche che manco sanno cos'è il #santonatale.

e a proposito di #santonatale e di presepi e chi se li merita, hai voglia sui presepi, che resisto pervicacemente con l'isoglossa del presepio e mica presepe, ad ostentarlo e brandirlo il presepio che mi sa che tanto hanno capito un cazzo che lo rendono obbligatorio nelle scuole senza averne colto il senso profondo e di gloria in ecselsis e pacem in terram agli uomini di buona volontà, che poi secondo costoro sarebbero solo quelli che esaltano il presepio e lo rendono obbligatorio nelle scuole e decidendo loro chi sono, cosa devono credereobbedirecombattere quelli di buona volontà, gli altri sono sediziosi radicalscìc, prendeteveli voi a casa vostra buonisti  dercazzo che non siete altro. noi ci abbiamo le donne di cui andare nazionevolmente orgogliosi, come la donna che il ragazzo di destra protegge col tirapugni d'oro, che la sua donna gli dà un figlio naturale nella notte di natale quindi questa notte, mentre viene giù la neve, posto che nevica solo nelle pubblicità ed anche in alcune canzoni, anche quella di colapescedimartino, anche se non so mica ancora bene chi sia di martino e chi colapesce.

hai voglia a tutta 'sta paccottiglia qui, indigesta, complicata, sovrastrutturata, che poi quelli mezzi e mezzi oppure più o meno tieffe come me [tieffe, tagliati fuori, senza che smetta di essere un mezzo e mezzo], per tutte le strafottute ragioni di questo complesso mondo, vanno in sbadta per il combinato disposto della loro solitudine dentro e fuori qualsiasi cosa significhi, la luce fuori al solstizio che è sparita e che ricomincia a riconquistarsi però forse anche dentro la luce è sparita, e comunque cazzo è ancora bel buio presto fuori, e la melassa del tutti più buoni, passate buone feste serene, #ateefamiglia, e condivisione di gioia tra i cari, che poi si rivolta manco un otre di klein, e ti risputa addosso tutto quanto, contaminato, esacerbato, maldigerito, ricondizionato, ammalorato, spigolettaato, pubblicizzato, incoerizzato, coercizzato, mica innevato, e così uno vive la sensazione di alterità e pensa che porcodiquelcazzo se tutto il mondo se le vive bene sono io ad essere quello inadeguato e fuori standard, che così è tutto un fare ancora un giro più vorticoso che gira la testa e sale la nausea. quelli ancora quel filo sul pezzo magari hanno pure l'illuminazione, anche nel giorno breve attorno al solstizio, che poi tutto 'sto mondo che se la vive così bene forse non è tutto 'sto mondo. quelli più disillusi, o che scartano quel filo di lato, vivono la situazione lisergica del rifugiarsi a guardare una poltrona per due, che solo la sinfonia delle nozze di figaro sulle immagini e titoli di testa vale tutto il film, senza dimenticare che ad un certo punto jamie lee curtis mostrerà le tette, scena che oggi non avrebbe più molto senso però coerentissima col pieno edonismo sbracato fine anni ottanta, e mi autoperdono sia una cosa piacevole del film, che voglio cambiare per primo in me la storia del patriarcato di cui sono portatore sano, ma c'è quella gaia dolce tristezza sottile e persistente, di cui sono pervaso, per non dire della nostalgia che non si spiega e dico: ecccheccazzo, almeno a 'sto giro passatemela 'sta cosa delle tette della lee curtis. così dopo quel film non attenderà altro che augurarsi che arriverà 'sto #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo.

che ci mancherà qualcosa, dopo. che ce l'hanno fottuto il rito. ma se quel cazzo di rito c'era da svariegati secoli et secoli et secoli, è perché ha un senso profondo e ormai radicato, che sia la storia del dies natalis solis invicti o per trasposizione di quella di colui che nasce per salvarci tutte, tutti e tutt*, col gloria in exelsis anche se poi han ben sempre perculato gli uomini di buona volontà. è quella roba lì, il rito, che ormai è dentro. va bene che ce ne inventiamo di altri, come ha suggerito di condividere cose il bacchetta in una puntata di tutto scorre, perché in fondo di riti, antropologicamente, abbiamo bisogno. e mica mi sfugge che, qualsiasi cosa significhi, quel rito in fondo mi manca. poi posso fare tutte le boccacce e linguacce del caso alla paccottiglia del meinstriiim che siamo sempre di più a sentircivisi inadeguati, mi balocco a scrivere post meno leggibili del solito che è da grinch verso i tre lettori, sfracassarmi i timpani ad ascoltarmi a tutto volume swatch degli stadio anche se il testo è del guccio, che funziona solo nella canzone tirar su le spalle e ghignar sul natale.

perché il resto è che sì, c'è qualcosa di cui sento nostalgia. profondissima nostalgia. che è una parola di una pienezza evocativa pazzesca ed etimo struggente. 

quindi non so se sia così semplice passare così lievemente sopra tutto il resto. finanche al #eanchequestannoernatalecelosemolevatodarcazzo.

c'è qualcosa che ho perso, anche se non so se l'abbia mai veramente avuto, che a che fare con l'esigenza sublimata di un rito, che forse è anche un pezzo di quell'eco profondo del significato di quel rito. forse arrendervicisi è un modo per non temerlo più così tanto. ed anche se è così distorto, traviato, impaccottgliato, quasi abiurato è ben lì. ben presente a tutto questa sensazione che non va bene non va male [cit.], la trascende e che come patto ed abbraccio ti fa pure dire, tra la nostalgia che non s'arrende cui non ci si arrende, che va bene così, passatori in questo mondo. va comunque bene così.

che le feste, comunque, sono in ognuno di noi. forse inutile espungerle, che il tentativo di espungerle lo guardano con tenerezza. come si guarda la bimba o il bimbo che di quel rito sa ancora farsi una bellissima e sincerissma scorpacciata. appunto. va bene così.

Sunday, December 17, 2023

vissuti, traumi, eredità collettive. santa proprio per un cazzo, quella terra

[disclaimer. questo è un post faticoso, per cui non smetterò mai di sentirmi inadeguato. però le suggestioni mi girano nella testa.]

ascoltare le notizie che arrivano da gaza, dalla west bank, non è meno doloroso di qualche settimana fa. vorrei evitare, peraltro, la trappola dell'assuefazione. penso, quasi ogni volta, a cosa lascerà questo mattatoio nel vissuto collettivo di quelle persone. vogliono annientare hamas. stanno mettendo le basi per altri dieci cose simili e forse peggiori.

che poi mica mi sfugge sia un ragionare da culo al caldo, neh? che per un paio di milioni di persone il pensiero cogente e come sopravvivere, tirar a sera e quindi mattino in quell'inferno sulla terra, vivi appunto. possibilmente con tutti i familiari.

e posso intuire, da lontanisssssssssimo e al sicuro, che delle notizie più tragiche, aberranti, si avrà del tutto contezza dopo: quando mantenersi vivi verrà molto più semplice. e con il la piena consapevolezza l'elaborazione di un trauma collettivo. bambini amputati senza anestesia, alcuni che non reggono lo shock del dolore e muoiono - i medici non chiedono più null'altro, se non che venga fornito loro anestetici e antidolorifici - l'impossibilità di curare degli ospedali, la fame, il freddo, gli istinti più primordiali e anti-sociali, le epidemie che si stanno diffondendo.

le amputazioni ai bambini senza anestesia, lo shock mortale per alcuni di costoro.

sono le cose che più mi hanno impressionato. non c'è ragione di non crederci. e soprattutto entreranno a far parte della narrazione condivisa, memoria collettiva di un popolo. si sedimenterà e diosolosa [nel senso di qualcosa che dubito esista, ma nel cui nome si fanno cose indicibili] cosa potrà far germogliare, come senso di rivalsa. non serve nemmeno capirlo o costruire artifici retorici per argomentare su una qualche forma di giustificazione. qualcosa da lì germoglierà a prescindere del nostro discutere di aria fritta più o meno propagandata. e quel germoglio porterà altro dolore. i palestinei, gazawi o meno, non sono hamas. non serve che quel germoglio metta radici in un popolo intero. ne bastano molti, molti, molti meno. ed altro dolore entrerà in circolo.

e sarà leva, giustificazione, rivalsa dell'altro popolo che sta lì, quello israeliano. che nella stragrande maggioranza non si oppone a quella tragedia, a quell'ecatombe. anche i meno invasati, anche coloro che sono ben lontani dai clerico-fascisti che li stanno governando. talmente traumatico è lo shock dell'attacco del 7 ottobre. sembrano disposti a rinunciare alla pietà, che l'è morta. è l'eco delle persecuzioni che si portano dietro da diciannove secoli. con l'ultimo abominio della soluzione finale. il scoprire, d'improvviso, il senso di insicurezza all'interno dello stato che era nato per dar loro protezione. per cui sembrano disposti a tutto. anche a generare vissuti e traumi collettivi del popolo vicino. e il senso di rivalsa anche di quelli accanto a loro. sedimenterà tutto. continueranno a germogliare istanze che metteranno in cima ai loro obiettivi l'eliminazione dello stato ebraico.

è una fottuta spirale soffocante di odio, che promette e preclude altro dolore.

così, da soli, non se ne esce. non ne escono. a costo che un popolo ne elimini un altro. la cosa peggiore di essere vittime, è essere vittime delle vittime. 

proprio, di santo, quella terra non ha nulla.


[ribadisco il disclaimer di cui sopra. fatico e mi sento anche molto inadeguato. ma son pensieri che mi girano dentro da un po'. inadeguato perché non ne so comunque abbastanza. e perché mi manca un pezzo. ci manca un pezzo. quello che non hanno coloro che non appartengono a popoli vessati e perseguitati storicamente. ci possiamo provare a ragionare, neh? ma ci mancherà comunque sempre un pezzo. un'incompletezza che - dubito - riuscirà mai a farci intuire davvero quello che succede laggiù. tranne forse il fatto che così, da soli, non ne usciranno]

Monday, December 11, 2023

I wish I knew [how it would fiiillltuuubiiifriiiii] - Nina, il Bachi, la Collega

la premessa è che il post andrebbe letto con il sottofondo di questa canzone. funziona meglio. capisco che leggere ed ascoltare non è mica semplice, specie per i maschi. e le parole di questa canzone - chi le capisce - sono importanti. ma è esattamente il mood che trasmette la cosa in più.

questa canzone è comparsa nel lettore ciddddddì, qualche giorno fa, mentre scendevo dal passo del ceneri, tornando verso l'hometown. ed è stato tornare a quella mattina di metà giugno, un venerdì. le cose belle dell'anno, mica bisogna per forza aspettare la fine per ricordarsele.

quel giorno niente lavoro da casa, me ne stavo andando là dentro. ero appena riemerso dai meandri della lilla, la radio effemme tornata a modulare. dalle cuffiette, inaspettata, la sigla del demone del tardi*. toh. che succede? erano settimane che non si sentiva, la sigla e il conduttore della trasmissione: il bachi. si sapeva fosse coinvolto in inciampi di salute non banali, non era più in onda qualche settimana, da quando mancava quella sigla.

[parentesi - si può mettere in pausa nina simone. ora. il bachi. quando metti la sveglia in sincrono con quella sigla, iniziando la giornata ascoltando il suo buongiorno, ovvio che poi 'sto tizio, il suo incedere retorico, 'sta cosa di 'sta trasmissione diventa una cosa cui ti affezioni, famigliare - specie se ti svegli solo. il bachi non è solo una voce della radio, peraltro nemmeno troppo incidentalmente il direttore artistico dei programmi. il bachi è un menestrello della parola che cuce il forbito ed il popolarissimo, un ricamatore dell'ironia e della battuta, un maitre chocolatier della circonlocuzione, disegna perifrasi come il fantasista le trame di giuoco per i compagni. quello che insomma non riesce a me. il bachi, in quarantaminuti, con modi ficcanti, de-strutturanti, sapidi, emotivi, racconta la complessità delle pagine dei giornali. la sua non è una meta-rassegna stampa, è percepire come le notizie del mondo ti attraversano, e le si può restituire senza ti scivolino via indifferenti. e poi a tratti, ai fiumi di espedienti autoironici, quando la realtà schiaffeggia, un denso di emozioni profonde, di empatia, di totale trasparenza commovevole. specie se coinvolti sono i bambini. anche la voce gli si fa diversa. difficilmente dimenticherò - tra le altre - quando arrivò improvvisa la morte di battiato. o come ha raccontato l'inizio della guerra in ucraina.
fine parentesi -  se si vuole si può far ripartire nina simone]

insomma. quella mattina c'è la sigla del demone del tardi, sono al cancello di là dentro. dopo la sigla nina simone, quella che sarebbe bello ascoltaste ora. e quindi comincia a parlare il bachi. è l'ultima puntata della programmazione non-estiva della radio. ed il bachi voleva esserci a salutare e ringraziare. accenna a suo modo alle traversie che gli sono capitate, il fatto non sia in onda da un po', la difficoltà. ma soprattutto racconta la marea di affetto, di emozione, di vicinanza di cui si è sentito circondare. e vuole condividere l'effetto di quell'affetto. di come gli sia fottutamente servito a sopportare quel che è appena stato e che sarà, la ripresa lunga. un po' è il bachi, un po' è il modo di raccontarlo alla bachi, un po' è l'empatia che sa ritrasmettere sugli effemme centosette-punto-sei, un po' è l'eco di come deve essere rinfrancante sentirsi avvolti da quel genere di condivisione. insomma è tutta 'sta roba qui et alter. è una scarica di emozione pazzesca. roba che non dimenticherò. lo so.

roba di una briciolata di minuti, neh? meno di quel che dura la canzone di nina simone. che sembra fatta apposta per quel momento, il bachi sa come farsi accompagnare musicalmente. mica per altro è il bachi. io - appunto - sto entrando là dentro. dall'uscita della lilla al secondo tornello impiego, solitamente, molto, molto meno tempo. ma in quel momento, con nina simone in sottofondo ed il bachi che racconta, rallento il passo. voglio sussumere il più possibile da quegli attimi, ed anche il camminare è qualcosa che può distrarre, farmi perdere la più piccola nuance. quindi incedo lento, lento. il corridoio è deserto, sembra che là dentro siamo solo la guardia all'ingresso ed io. il bachi e nina simone nelle cuffiette.

mentre sono a metà corridoio vedo là, in fondo, una persona infilarsi rapida nel tornello. ha usato l'altro ingresso. mi pare sia quella collega che avrei molta voglia di salutare. forse mi scorge, però non si ferma, non dà cenni di avermi visto, o riconosciuto. e soprattutto io sono ancora un po' tramortito, circonfuso dall'effetto di quella sventagliata emotiva. voglio lasciarmela scorrere dentro per qualche attimo ancora. da solo.

c'era anche quella collega al praid, qualche giorno prima, nel gruppo di quelli di là dentro. lei non si era sorpresa di incrociarmi lì. mi aveva abbracciato, non era stata l'unica. però quell'abbraccio mi era fottutamente piaciuto. al termine, prendendo una birra con un altro di là dentro, avevo condiviso il fatto che boh, sì, beh, che quella collega mi avesse sempre incuriosito. ma vivevo la sensazione di sembrare un pirla impacciato, quando mi capitava di aver a che fare con lei. oppure se, davanti ad un'ipotetica birra, avremmo trovato da parlarci per almeno un quarto d'ora: poi il mio impaccio o chissà che altro avrebbe esaurito gli argomenti.

nina simone, il bachi, e poi la collega e quella curiosità un po' irrisolta.

poi accade che a metà mattina la collega mi contatta, sul tiiims aziendale:

- ce lo prendiamo un caffè? ti ho visto stamani, ma tu sembravi startene molto sulle tue.

- come posso dire di no proprio a te? - rispondo, quel filo paraculo. 

- beh, è facile, basta dire 'no', però sono contenta tu voglia prenderlo il caffè - ribatte, smontando la mia paraculaggine.

così ci incrociamo. le accenno del bachi, anche se lei non sa minimamente chi sia. le dico dell'emozione di quel mattino, mentre camminavo lento e che l'ho vista comparire improvvisa verso il tornello. e poi le cose divagano. anche in maniera molto fitta. tipo che sbucano cose da dire, nemmeno così banali, e troppo poco tempo, appoggiati ai tavolini trespoli accanto alle macchine del caffè. ho quasi la sensazione di non percepirmi poi così del tutto pirla. ho la sensazione ci sarebbe da rimanere a parlare per molto più tempo. mi sovviene che vorrei farle leggere un romanzo di missiroli, che tanto mi aveva segnato qualche anno fa. anzi, penso tra me e me, che quasi quasi glielo regalerò. e decido che quasi quasi gliela proporrò una birra. con qualcuno, là dentro, poteva ben capitare di farlo prima o poi.

cose che succederanno.

la storia del libro, la storia dell'invito, intendo. qualche settimana dopo. quando smetto di sentirmi pirla, ed ho ancora di più la percezione ce ne sarebbero di cose da dirsi. però fuori da là dentro.

com'è finita? mi ha scritto che il libro le è piaciuto. sembra anche abbastanza molto.

 

credo che la canzone di nina simone sia ormai terminata da un pezzo, per chi l'ha messa-sul-piatto dello iutiub, intendo.

ecco. a proposito di fine e di finali. I wish I knew [how it would fiiillltuuubiiifriiiii] ha una particolarità. la ripetizione degli ultimi ultimi versi: terminano sulla sesta minore. cioè se ne sta lontano dal passaggio che va all'accordo di quinta in settima, per poi chiudere sull'accordo del tono, come nelle strofe precedenti. non è solo una smargiassata la mia. è il trucchetto con cui nina simone non chiude armonicamente il verso, non lo risolve. come volesse riproporlo. e poi riproporlo ancora. come se quel "I'd know how it feels" bisognasse ripeterselo per non scordarselo. la consapevolezza ed il percepire. 

che poi è la fazenda del perché io sbreghi alcuni post di righe-su-righe, quando rivivo alcuni momenti così. l'emozione del bachi riverberata. così come il mio tentare, che finisce più o meno sempre allo stesso modo. ma che poi - prima o poi - [spero] rimanga la voglia di tentare, come nina simone ripete il verso. fattivamente non risolvo, [spero] ci sia altro tentare. sempre più nella consapevolezza e percezione. consapevolezza e percepire. percepire e consapevolezza...

consapevolezza e percepire .percepire e consapevolezza...

consapevolezza e percepire .percepire e consapevolezza...

consapevolezza e percepire .percepire e consapevolezza...

 



[* qui altresì c'è la sigla de il demone, se interessa, nella sua lisergica coerenza e linearità. ovvio che nina simone in sottofondo fosse molto più importante]

Thursday, December 7, 2023

sant'ambroes della minchia [però non facciamone sineddoche]

tre vite fa omaggiai il [suo] parentado venuto dal napoletano. volevo loro bene, arrivai da sixtsaintjohn quasi felice, allora abitavo là. mi trovai a giocare le nipoti, con improbabile manuale per realizzare gli animali coi palloncini gonfiabili. proprio non ci riuscivo, e quella sottile sensazione di essere l'amico [utile idiota], usato alla bisogna.

infatti.

due-tre anni dopo, con l'aziendinadellaminchia nata da pochi mesi, arrivò la conferma del primo progetto da sviluppare. aggggggratiss, ovvio, ma vuoi mettere la visibilità ed il prestigio che ne sarebbe conseguito. poi magari avrebbero venduto gazziGlioni di cidddddì, qualcosa sarebbe arrivato anche a noi. la conferma il giorno di sant'ambroes: ci intravvidi uno [scaramantico] buon segno. il primo passo verso cose fantastiche e piene di soddisfazioni. come andò quel progetto? mi feci un grandissimo culo per imparare a svilupparlo, quindi realizzarlo. i ciddddì finirono imboscati dietro altra roba del bookshop del museo. grandissimo culo, zero guadagni, lustro che si presero altri. toh: quello che sarebbe successo per altri anni a venire.

recidivo.

qualche sant'ambroes dopo stavo ormai là dentro. quel giorno uscì dall'ufficio a metà giornata, una delle rarissime volte accadde in quel primo anno. mentre me ne tornavo, sulla lilla, capii di avercela quasi fatta: i primi dodici mesi, e la vittoria sulla tentazione di scappare o farmi cacciare. me ne tornavo, sulla lilla, anche incuriosito dalla storia della prima diffusa. avevo deciso di seguirla in triennale, con tanto di letture buzzatiane come antipasto. roba tutta molto milanese. fu una folgorazione. come trovarsi, d'improvviso, a condividere un qualcosa di emozionante, e financo scorgerci un senso di appartenenza. un po' sapiosecsual-elitario sì, ma appartenenza. lo condivisi con una foto della sala piena e immagine sul macsischermo, prima scena della giovanna d'arco. lo condivisi gasatissimo via uotsapp. lei non colse il riferimento e tanto meno l'entusiasmo: che cazz'è quella macchia chiara in mezzo al buio? e s'intavolò la discussione che poi finì in uno scazzo chattico. un po' lei in sbadta per la festa del compleanno del figlio, i mille modi di vivere ansie da prestazione.

solinghitudine.

un paio d'anni dopo, non lo immaginavo, ma fu l'ultima volta che la vidi. in ecestramis ci incontrammo compiutamente. poi lei tornò nella sua di città. la colazione in stazione centrale, un po' malinconica, un po' imbarazzata. il pomeriggio era la prima con l'andrea chenier. lo vidi in fondazione feltrinelli. alla fine del tutto inebriato da alcuni passaggi, un'altra fanciulla mi fece sapere: "ehh, ma poi alla fine c'è 'st'esplosione di amore eterno strappalagrime, che roba ovvia. e melensa". ah, ma eri anche tu a vederla alla prima diffusa. dove l'hai vista? a saperlo potevamo incrociarci.

[anti]profetico.

un paio d'anni dopo stavo andando al pacta teatro, lì avrei visto tosca. attendevo la cinquantotto, il sole cominciava a declinare, intanto mi avvolgeva e mi scaldava. e pensavo al progetto che mi attendeva l'anno successivo: comprare casa, mettere le basi poi per cambiare lavoro e vita. un progetto da realizzare: che bellissima sensazione. di nuovo un qualcosa di coinvolgente e vivificante. provai quella cosa inebriante et insolita che ero quasi felice. l'attimo fugace dove s'intuisce quell'acme, si è sul pezzo e ci si fa caso. volli condividerlo con odg, le scrissi un messaggio rapido. il concetto di progetto me l'aveva fatto intuire lei. ed eravamo giunti alla conclusione che la terapia fosse verosimilmente terminata. per il resto bisognava solo svoltare nel duemilaventi, e prendere la rincorsa.

appunto.

lo scorso anno, a sant'ambroes, scrissi l'ultimo messaggio a colei con cui sentivo si fosse avvicinato il cambio di paradigma, poi tutto era andato ammmminchia. ero in attesa ci facessero entrare dell'auditorium del mudec, da lì a breve il boris godunov. mi pregustavo il piacere della prima, a mitigare fossi rimasto deluso, sì. anche dalle altre interlocuzioni che si erano nel mentre vaporizzate. però pensavo che sì, fuori c'era sempre il sole, e la sensazione di aver capito come non sprofondare. poi si alzò il sipario. e comunque fu una cosa bellissima a vedersi.

illuso.


questo sant'ambroes non sono giornate facilissime. un po' mi sento sprofondato. tuttuncomplessodicose, deluso da persone più o meno a loro insaputa. pure con la percezione di essere uno stronzo, a pensare di biasimarmi intendo: considerato cosa cazzo succede vicino e lontano il mio ombelico. solo che il freddo non mi passa. la fame di luce è importante. e l'idea di non riuscire a scollarmi di dosso tutto questo. pensiero ed inazione. ora vado al pime, a guadarmi il don carlo. proverò a ricordarmi di non fare sineddoche di queste sensazioni, in questo giorno di rito, molto intimo, cerebrale, solitario. se è così oggi, anche oggi, non è necessariamente per sempre. forse sì. ma non necessariamente.

[nonvorreifossetroppoessere]fiducioso. [però che fatichina]




Sunday, November 26, 2023

piccolo post melanconico-inutile [che scoperte della minchia] [anche se poi il post non è così piccolo]

ieri, dopo la manifestazione contro la violenza di genere, ho incrociato lo sguardo di una donna. era un volto che non mi era nuovo, e nel contempo come estraneo. un volto stranamente noto. sono ragionevolmente certo abbia avuto la stessa percezione anche lei. stessa modalità. ho impiegato qualche secondo per riconoscerla: la prima fanciulla con cui interloquii col feisbuchmiiiting. roba di un paio di anni fa, nel periodo in cui il grigio stava ammantando tutto, incrociandosi con gli ultimi sussulti di un'amicizia - diciamo - intima, che mostrava da tempo la corda: ma non ancora conclusa. non esattamente le condizioni al contorno migliori. ci si vide solo in foto, una serie interlocuzioni chattiche interessanti. qualcosa [pochissimo] di colorato in quel periodo è stata [tra il pochissimo] anche l'idea la cosa potesse evolvere, nella spaventevolezza che mi attanagliava [c'era il grigio attorno]. le dedicai un post, in coabitazione con un'altra cosa che stava accadendo. glielo feci leggere, non mi pare apprezzò granché. non mi tolgo dalla testa che da lì si fece più evanescente. il tutto si allentò, non sembrò sperticarsi nel voler accettare un invito per una birra, "masssì, prima o poi ce la prenderemo". una sera cancellai contatti e altro: la cosa non aveva più ragione d'essere.

sì. ieri era lei. vista in carne ed ossa, riccioli forastici e occhietti vispi compresi. era con un'amica, mi ha ignorato, non so quanto consapevolmente. non ci è voluto molto acciocché un velo di rassegnata melanconia mi travolgesse. nemmeno il tempo di vederla scendere le scale della metropolitana di cadorna m1-m2 [il macellaio cadorna]. peraltro ragionando sul fatto dei primi sei-sette secondi di percezione iniziale, che mi avrebbero - decisamente - sospinto in un'attrazione verso di lei.

lei, ovviamente, non ha nulla a che vedere con l'architrave su cui poggia la melanconia, con la rassegnazione che viene appresso.

che la melanconia ha a che vedere, altresì, con quell'eco che riverbera in un vuoto che non riesco a colmare, per millemila ragioni. che un po' è il caso, un po' come il caso lo si orienta, un po' son le titubanze e difficoltà che vivono, con la loro eco, anche le donne là fuori. la rassegnazione invece è causa e effetto del convincimento di non essere poi [più?] così buono ad essere capace di colmarlo, quel vuoto, e smorzare l'eco. e più il tempo passa e sclerotizza gli spazi di comfort, tossici o meno, più la cosa si fa definitivamente proibita.

ho la sensazione di star facendo sineddoche, dello sconforto di adesso, con quello che sarà per sempre. che non va bene. capisco razionalmente sia una fottutissima trappola che sto architettandomi. però non riesco a togliermici dalle grinfie.

è qualche tempo che torno a volo d'uccello all'ultima dozzina di anni. mi rendo conto che i ricordi lieti son quasi solo grazie al relazionarmi con alcune persone. con un cantuccio particolare di quelli vissuti con alcune fanciulle. sono state relazioni a modo loro, mai compiute, strutturate, che occupassero la vicinanza della continuità quotidiana. roba che puoi solo rispondere quasi e/o forse alla domanda: hai mai avuto una compagna?

con tutte le approssimazioni, arrotondamenti per difetto, sublimazioni dei casi, è da lì che sgorgano i momenti fottutamente lieti. e non è nemmeno una questione di sesso, o di fare allammmmmore, considerato anche quel relazionarsi - importantissimo - in cui non ci si è quasi sfiorati. poco importa non siano mancati anche i momenti di deciso incazzo, delusione, volontà di darmela a gambe levate, fine più o meno acclarata. quel relazionarmi particolare son stati elementi di campionamento importanti - molto importanti - nel cercare di mettere assieme la melodia, che potrebbe intitolarsi: sì, a tratti sono pure stato felice.

che scoperta geniale, neh? la felicità - a tratti - nell'aver a che fare con qualcuno di importante ed unico in quel mentre. conclusione davvero originale. mi faccio pat-pat sulle spalle.

ora di questo, cazzo, sento una lancinante mancanza. come non accadeva da tempo, peraltro. con consapevolezze che, probabile, eviteranno incasinamenti, situazioni improbabili, dare il la del gran ballo della compulsione. ho già dato, dovrei riuscire a non ripetere. così come non dovrei finirne soverchiato come millemila anni fa. perché, come allora, sento una mancanza simile. senza più ansie prestazionali sociali: non ho trovato moglie, non ho figliato, non ho costituito una famiglia tradizionale. 'stigrandissssimicazzi. che superpotere è essere vulnerabili [cit]. così come anche con la libertà di non dover più sperare che, a furia di desiderarlo un po' commovevole, poi accadrà. proprio per un cazzo. non c'è nessun nesso causale. nessuna grazia [prima fideistiche, poi laiche] mi sarà fatta.

che poi, a dirla tutta, non è che qualcosa non si sia tentato, neh? prodromi interessanti, sempre. poi cose che s'afflosciano improvvise, spoffffffffiu, tipo i soufflè. un attimo sembrano golosissimi, quello dopo 'sta roba sgonfia e tristina. e io c'entro il giusto. di nuovo: è che dall'altra parte si trovano anche narcisismi, tic giudicanti, lunaticità, salti quantici d'umore, entusiasmi da fuoco di paglia, difficoltà strutturate. insomma, non sono l'unico a non essere del tutto in bolla. ed ogni volta è una nuova tacca da aggiungere all'elenco di discrete, infelici, sfiducianti delusioni. non ci si abitua mai del tutto.

so solo che ora, quel che non c'è, mi manca. melanconicamente, con l'abbrivio della rassegnazione. in tutta la sua banale ovvietà. rimarcata nell'inutilità di un post. succedaneo sgarruppato con cui illudersi di ovviare l'incantevole inazione. giusto per mettere una bandierina del tipo: il giorno della manifestazione sulla violenza di genere - io che, da maschio, son comunque portatore di privilegi, anche se non goduti - ero a questo punto qui.

quello in cui sento una mancanza, anche piuttosto importante. ma almeno ho smesso di raccontarmela che così non è, o non mi riguardi. [tralasciando un attimo il fatto stia maramaldeggiando il principio di non contraddizione: sono pronto, ma non so se son poi così buono di.]

almeno, ma troppo pochissimo.

anzi, giriamola.

troppo pochissimo, ma almeno.

Saturday, November 25, 2023

ennnnniente, caro maschio: sei comunque coinvolto

confesso che sì, ho sperato fin all'ultimo l'avesse solo rapita. solo. un pensiero a tener lontano l'altro, che era quello che si sapeva come sarebbe finita. è una delle centoquattro, centocinque, centosei - ad oggi - di quest'anno. per tutta quel tirar di dadi del caso, questo assassinio di una donna ha colpito molto. mi ha colpito molto.

e provo non lasciarmi affatto indifferente proprio oggi. che sono quelle giornate che col loro simbolo vorrebbero, dovrebbero portarsi appresso il valore che quel simbolo rappresenta. specie per l'attenzione e la sensibilizzazione che vorrebbe, dovrebbe instillare, sui temi specifici. che poi sono le declinazioni nel darci una dritta  come collocarci all'interno del vivere sociale.

tipo sul femminicidio, sulla violenza di genere, sulle le discriminazioni. non voglio rimanere [più] indifferente. anche, soprattutto per il fatto potrei elencare lenzuolate di giustificativi e tirarmi fuori: io sto in universi diversi. sono l'antinomia del maschio alfa-dominante. non mi è mai lontanamente venuto in mente di alzare le mani su chicchessia, figurarsi una donna [odddddio, quasi. l'amico emanuele non so se ricorda l'episodio con la compagna di corso. mi provocò in maniera gratuita, strumentale e stronza, a due dita dal viso. fu l'unica volta che provai la fortissima tentazione. pensai: so che non è giusto, ma avrei gran voglia di tirarle una sberla. non lo feci. pochi minuti dopo lei affettuosa e giuliva, come se nulla fosse accaduto. io provato e riverberante per quell'emozione tossica. non eravamo soli, qualcuno che assistette alla scena poi mi disse: mi chiedo come hai fatto a non metterle le mani addosso]. io che ho talmente introiettato l'idea di essere rimbalzato da una donna, che trovo in potenza infastidente anche solo l'abbozzo di un interesse, quando non so di interessare. figurare lanciarsi in un approccio senza la certezza, da ratifica notarile, che lei non disdegnerà. ed è probabile che siano di più le cose che non sono accadute, piuttosto che quelle successe, proprio per l'attimo che non colsi. io che a volte evito financo l'interlocuzione con sconosciute, che mai vorrei sembrare inopportuno, baldanzoso brillantoso seduttore sgarruppato. quand'anche in una relazione sono serenamente, ragionevolmente certo non la intenderei mai - mai - come un qualcosa di diverso dal paritetico, reciproco, rispettoso. così come ho cercato di fare, e credo riuscito, nelle situazioni che le si sono approssimate. 

proprio per questo, e non ostante questo, il tema della violenza e discriminazione di genere mi riguarda.

perché io non sono colpevole se una ristretta quantità di maschi agisce con violenza bastarda. io non sono responsabile, se una miriade di maschi perpetrano sopraffazioni e molestie verso le donne, nella loro amplissima e variegatissima gradazione.

assolversi con un io non c'entro, io sono altro, io non lo farei mai è ignavia.

io sono comunque coinvolto. sono, infatti, un maschio.

la violenza di genere, il femminicidio sono la vetta estrema, penale e mortifera, che poggiano sul corpaccione, incistato nella società, che è il patriarcato. io sono un maschio, io sono consustanziato in quell'orizzonte di potere e disuguaglianze che permeano il vivere di tutte e tutti. non importa non lo agisca, nelle mie azioni più sottili e dettagliate. non importa non faccia capolino nel mio linguaggio della quotidianità. non importa non si infili nei miei pensieri più intimi. tutte cose, peraltro, su cui non credo di poter affermare: mai, comunque e per sempre.

io sono maschio e sono latore di privilegi per il solo fatto di essere maschio. non cambia, in principio, rispetto all'essere bianco in sudafrica fino a pochi anni fa [?], oppure negli stati del sud degli iuesssssei, sessant'anni fa come oggi, con le nuances in mezzo. non cambia se la discriminazione è formalizzata per legge o se deriva da un brodo culturale da abbattere, tocco a tocco. discriminazione è. effetto del patriarcato che permea la cultura del nostro esistere.

in questi giorno ho ascoltato molte considerazioni, pareri, suggestioni. spesso urticate: di donne che rivendicano incazzate. di maschi: scocciati, quando non offesi nella loro pretesa alterità, che poi è conformismo che salta fuori con imbarazzante facilità. ho provato in alcuni brevi tratti un fastidio. da quello ho capito debba lavorarci, che è l'epifenomeno di una consapevolezza che fa litigare pezzi dentro di me. riconoscerlo non è semplice, specie se si fa parte e si appartiene alla componente privilegiata, quella del maschio. è ben più complesso accorgersene perché l'elemento discriminatorio, anche se non agiamo, non lo subiamo. non è immediato catturi lo sguardo della nostra intimità emotiva, perché ci risulta coerente al contesto che abbiamo calettato dentro. osserviamo il sole sorgere e tramontare, è nella natura della percezione starsene in panciolle e paciosi a pensare: ehi, guarda come ci gira attorno.

ci vuole una rivoluzione copernicana del maschio. e nel contempo mi sa che ha ragione la sorellanza che grida: se non torno, bruciate tutto.

se c'è qualche maschio, dei due o tre che passano di qui, che si sente variegatamente infastidito è perché qualcosa pungola, qualcosa non torna. se ci si sente offesi tanto meglio: fraté, hai un cazzo di problema, che averci il cazzo tra le gambe si è parte del problema, per quanto inerti e dormienti. mi viene in mente almeno una persona che mi perculerebbe, in maniera maschia ovviamente: tipica reazione delle varianti fascio-maschiliste. in qualunque forma declini il nervoso, l'eventuale nervoso, occhio che forse non è l'effetto di un post sgangherato, ma parte della causa di un problema ben più ampio e pervasivo, lungo di secoli.

vorrei si percepisse la sensazione urticante che a tratti mi pervade, a ripensarci ora. e sono certo non sia solo una versione particolarmente nevrotica dell'autocritica con cui mi piace baloccarmi. credo sia necessaria un grande lavoro di fregamento e abrasione dello status quo. come quando si prende un oggetto particolarmente incrostato di ruggine, articolazioni e snodi sclerotizzati da rimettere in movimento.

non importa se io non agirò mai in un certo modo. c'è l'ignavia a lasciar correre certi comportanti, digressioni, considerazioni in quel che ci capita di relazionarsi. c'è il tappeto multiforme dell'osservare, parlare, raccontare, pensare. che si può fare in un modo sottilmente prevaricante, oppure decidere in modo diametralmente opposto. è dai dettagli che si sostanzia un hombre vertical.

coraggio maschio. le consapevolezze delle donne, che si tramanda anche in quelle più giovani, capisco possa frastornare. mette in discussione un elemento fondante, per quanto noi maschi non ce ne siamo poi così accorti. e sarà mica anche che ci si senta un po' spiazzati, col pensiero giù in fondo, di chissà che ci capita se le donne prendono consapevolezza. e la spigolosità, la nettezza, e financo l'incazzo di molte di loro è la reazione di un discrimine collettivo subito. è la coscienza collettiva della sorellanza che alza la voce e infiamma i cuori. noi maschi ce lo siamo piuttosto meritato, collettivamente.

se ci pensi bene qualcosa di quel privilegio ci è scappato fuori e ne abbiamo più o meno goduto, più o meno in consapevolezza fosse un privilegio. coraggio maschio, non nasconderti dietro il dito delle manchevolezze di alcuni comportamenti di alcune donne, tanto o poche che siano: è un riflesso, un vellicare istanze patriarcali, forme meno nobili di difesa, che fanno peraltro leva su alcune coglionaggini mascule. il problema della violenza di genere e della discriminazione non sono loro. loro le subiscono.

coraggio, maschio. sono sicuro che puoi comunque migliorare. se riesci ad non fermarti ad un ovvio "occhei, tutto bellissimo, ma ora basta parlare di patriarcato e cose simili, avete rotto i coglioni" hai già fatto il primo, importantissimo passo. anche in nome, in memoria, in rispetto di tutte coloro che non ci sono più. tutte coloro che hanno subito violenza, discriminazioni, prevaricazioni, molestie di qualsiasi forma e declinazione.

coraggio maschio, ce la si può fare. non sarà per nulla semplice, ma è fottutamente necessario. che in un mondo di donne e di [compiutamente] uomini [e tutto quello che - vivaddddio - fluidifica in mezzo] abbiano un gran bel bisogno.

 



Thursday, November 23, 2023

quel buio ed il nulla consolatorio

ogni tanto il pensiero finisce lì. al momento in cui ci si stringe al collo il cappio, qualsiasi cosa sia, che poi ti porterà via di qui. a vent'anni.

la sensazione sulla pelle, starsene al limite, quindi l'attimo successivo che non sarà più. e tutti gli infiniti attimi, uguali fra loro, di coloro che restano. con tutto il devastante senso di colpa che li soverchierà a chiedersi: perché, dove, come, quando si è sbagliato. dove, quando si è mancato.

non riesco a cominciare ad intuire cosa devono provare. genitori che seppelliscono figli, che se ne vanno per decisione loro. un qualcosa che è il quadrato delle istanze contronatura.

e sono sopraffatto, in questa giornata così a zigzag, da una specie di affetto che non so. come voler stringerla in una specie di abbraccio che non è. un vacuissimo, sgangherato, improbabile tentativo di blaterare tra me e me un baluginio per lei. che invece è stato il buio. il buio che deve aver provato attorno a sé. credo, penso, mi immagino, il buio che solo il nulla è l'unica consolazione. andarsene.

mi scuso con lei.

che quel buio l'ho intuito da molto lontano. tanto lontano. e per manciate di settimane. ed anche da così lontano e per così poco, è qualcosa che non voglio augurare a nessuno. 

mi scuso con lei.

perché le sensazioni che mi son passate in mezzo non credo siano comparabili con quello che deve aver provato lei. cosa deve aver vissuto, quella sofferenza che è stata solo sua.

insopportabilmente.

che solo il nulla ne diventa conseguenza

dove non ci sono più abbracci. quando non si è più 

che in questo caso vorrei tanto riuscire a credere ci sia qualcosa oltre. davvero. solo per poter pensare che, dopo tutto il buio di qui, lì ci sia la luce. tutta e solo per lei.

Friday, November 17, 2023

foglie et alter

in questi giorni raccolgo foglie. farlo regala sempre una sensazione ipnotica. o struggentemente malinconica. o non so bene neppure io come. c'è 'sta cosa del ritmo delle stagioni, la fine di quelle particole che hanno fotosintetizzato, l'albero che le restituisce ormai non più utili. il ciclo dell'azoto che andrebbe a compiersi lì, al pedice, se non le raccogliessi. qualcosa di caduco, leggero, che ha fatto il proprio tempo. peraltro facendolo come accade da milioni di anni.

quest'anno il folliage è in ritardo. quindi anche quelle che nel frattempo cadono, che quindi vado a raccogliere. sarà che ha fatto caldissimo fino all'altro ieri.

chissà che avrebbe pensato, o detto, mio padre, di 'sto caldo avanzatissimo. e chissà che avrebbe detto del raccogliere le foglie, quasi compulsivo. non lo sapeva, in quei giorni là, uscissi a raccoglierle per trovare una parentesi solo mia. che ad ogni sospiro lo osservavamo preoccupati, senza farsi scorgere. con l'apprensione capisse quel che gli stava capitando. il desiderio di regalargli una serenità di inconsapevolezza. qualcosa che è stato affettuosissimo, dolorosissimo, faticosissimo: tutto assieme. per mesi e mesi e mesi ho sognato di quel lasciarlo ignaro, che a volte nel sogno non riusciva. quelle giornate tutte uguali, anche il costante suo scivolare a peggiorare. che pare sian state tantissime, a contarle non furono che un paio di manciate. che sembra ieri, come se non fossero mai passate, ma son sempre più lontane. come l'eco che riverbera.

quest'anno il punto angoloso diventa maggiorenne. compie diciottanni anche il trucchetto per fuggire, futile, l'idea del fatto scocchi la ricorrenza di quel momento. era ancora la notte del mercoledì, ma si constatò la formalità dopo la mezzanotte del giovedì. quando, come ogni anno, arriva il sedici si pensa: vabbhè, la guardia medica scrisse diciassette. il diciassette si pensa: vabbhé, ma era ancora il sedici, quando matreme mi svegliò, da appisolato sulla poltrona che me ne stavo, che si era intuito che quella notte sarebbe stata lunghissima.

trucchetti.

raccolgo foglie, e sembrano tanti diciottanni, così come paiono susseguiti così rapidi. qualcosa passa e ritorna, come le foglie che ora raccolgo, che rispunteranno sugli alberi. respireranno assieme a loro giocando reazioni biochimiche, cui noi agiremo le nostre, respirando. fino a quello che ci rimarrà impigliato per sempre nei denti, quando ce ne andremo. stagioni che si compiono anche le nostre.

raccolgo foglie. che frusciano leggere, quasi croccanti, di colore così acceso, che però significa la loro caducità che si sostanzia. nei gesti ripetuti c'è anche quello di quasi abbracciarle, quando le sposto nei tini di plastica. e così penso a leo buscaglia, e quel libercolino che lessi durante il servizio civile. di come per buscaglia le foglie fossero importanti, come si collocavano nel suo agire terapeutico. e quello che sembrava avesse scritto esattamente a me: i tuoi genitori hanno fatto il meglio che potevano, per questo non bisognerebbe mai avercela con loro. si può far pace con tutte le recriminazioni che uno può portarsi appresso. è rasserenante, terapeutico.

e il senso delle foglie e di quelle parole solo pochissimi anni dopo. che sembra esserci un intervallo lunghissimo. ma a pensarci, ad esempio, ne è passato di più, di tempo, da che son là dentro: peddddddire.

un'esperienza molto emozionale della relatività del tempo. le stagioni che ci trascendono. il ricordo di un genitore, l'eco che risuona dentro, come tutto questo si è evoluto nel divenire del tempo. anche il suo non esserci più. la sua mancanza di allora e ora. e le domande, che non riuscirò mai a dominare: che figlio continuo ad essere, a che punto sono, che ci faccio qui, se sarà per forza sempre solo autunno, ormai, dentro.

e nel mentre raccolgo foglie. anche in questo di anno. le foglie, e la sensazione ipnotica che regalano. frusciano, crocchiano, con quel colore pare così vivo, mentre è la loro caducità che si sostanzia.

 



Saturday, November 4, 2023

di Cochi, passaggi, furori giovanili et alter [poi un po' sembra divaghi]

quell'anno non cadde esattamente di sabato, come oggi. fu però con la festa delle forze armate del quattronovembre che conobbi Cochi, il mio nonnetto putativo. sono venticinqueanni. cazzarola.

quei due-tre che passano di qui la storia forse se la ricordano. lo ascoltai alla orazione ufficiale di quella festa civile che sentivo lontanissima da me. avrei dovuto fare l'articolo sul giornaletto di cose così della mia hometown. avrebbe parlato un generale: non mi restava che attendere il suo argomentare, trovar facile quello da smontare, confutare con la mia cifra pugnace e puntuta. con la visione di uno che aveva appena finito il servizio civile, obiettore di coscienza convintissimo. solo che dal suo argomentare cose da smontare non ne saltavano fuori. com'è che un generale parlava così? quello che sosteneva lo avrei potuto [quasi] ribadire, punto a punto. pazzesco.

poi vero. ci conoscemmo compiutamente solo qualche mese dopo. il giorno del mio compleanno. la sera precedente avevo ascoltato il guccio: la prima volta. quando attaccò "canzone per un'amica" ebbi questa specie di sindrome di stendhal. un'emozione travolgente, intensissima. ebbi la sensazione, bellissima, di avere dentro un sacco di canzoni da tirar fuori. il fatto è che poi non le ho mai mica trovate, 'ste canzoni. meno bellissimo. vabbhé. divago.

dicevo. l'amicizia di Cochi fu un suo bellissimo regalo di compleanno. però ho ben in testa, e nel cuore, quella prima volta, quell'orazione ufficiale, il quattronovembre - anche se non era un quattro di novembre.

ci pensavo. ed ho pensato a cosa ne è, oggi, di allora. e mi sono sovvenute due cose, per cui il nonnetto ha agito con la sua bella azione dispositiva. due ambiti un po' diversi, ma è pur sempre roba che mi emoziona dentro.

la prima è piuttosto semplice da spiegare. lui è la sua Lola sono state tra le persone che più mi hanno voluto bene. un abbraccio, un calore, un affetto che arrivava dritto e pulito. roba tanto disinteressata quanto sincera. non si poteva non percepire. sensazione che mi sento addosso ancora ora, e che ogni tanto mi commuove: il groppo in gola arriva a volte inaspettato. e quando c'è te lo tieni.

non solo.

passano gli anni, una delle cose che capitano sono le sportellate in faccia, si ricevono da persone variegatamente importanti. a cui ho voluto o voglio variegatamente bene. spesso, spessissimo, mica è roba volontaria o puntiglio personale verso di me, neh? e chissà che ne ho pure provocate io, senza volerlo, neh? è la vita che capita, con le sportellate. però poi l'effetto della botta c'è. e al limite ce ne si sta in un cantuccio, a tamponare i lividi. ecco. con Cochi sono certo non sarebbe mai successo. è una specie di sicurezza ex-post. e che un po' aiuta.

la seconda è un po' più articolata. può sembrare divagherò. ma poi le cose tornano. si dipana da quello che ero quel quattronovembre. alla luce di quel punto di passaggio in cui mi trovavo in quel momento. l'apostasia da lì ad un po'. le amicizie di quell'esperienza che si sarebbero sfilacciate, una nuova solitudine. e l'inizio del lavoro. il tempo conculcato sistematicamente, il mercimonio [prostituzione?] dell'intelligenza. un po' per campà. un po' per trovare un posto nella società degli adulti. io che ci arrivavo coi miei ideali cristallini e poco negoziabili. un furore in purezza, una purezza furoreggiante, tipica dell'adolescenza. c'era il pacifismo, la non violenza, la giustizia sociale, uno spontaneo diffidare l'autorità costituita. avevo messo assieme 'ste cosette, un po' in maniera quasi istintiva. un po' per differenziarmi da mio padre, pensando di creare uno iato tra me e lui. [parentesi. ci ho messo un po' a comprendere che nel profondo non c'è 'sto gran iato. un bel po' di cose [belle] le ho prese da lui. e che non volevo lo iato, ma cercavo di distinguermi per cercare di farmi riconoscere da lui. cosa che per lui non era così necessaria. lo aveva comunque già fatto. non è riuscito a farmelo arrivare. non sono riuscito a capirlo].

insomma. 'ste cosette. anche per quelle andai ad ascoltare Cochi prevenuto. è stato grazie anche a lui che quelle cosette si sono evolute.

ad essere il pessimo nemico di me medesimo mi ricorderei così: che tenero coglioncello ero, a crederci in quel modo. cosa che spesso mi ripeto. poi uno dice dell'autostima a gruviera.

provo a cambiare la prospettiva. 'ste cosette, questi ideali sono roba preziosa. e per fortuna ci credevo. mi era [ancora] piuttosto ignota la complessità del principio di realtà. o forse era più eccitante lasciarlo a parte. erano così luccichevoli quelle cosette, belle appoggiate su di un piano. decisamente meno fascinevole osservarle in prospettiva, più faticoso valutarne la profondità. roba che ne sarebbero uscite meno in purezza. ecco. Cochi è stato una di quelle persone che mi ha aiutato a sollevare la cornice e osservarle oltre la superficie luccichevole. è come se mi avesse detto: coraggio, ragionale nel casino delle cose che vengono nel mondo, che sono spesso tremende e orribili. ma non si può prescinderne.

più di una volta mi ha detto di aver intravisto, in me, i suoi furori ideali di gioventù. poi un conto è farlo nel contesto in cui sono cresciuto io. un conto è farlo durante il fascismo e poi combattendo con gli alleati dopo l'ottosettembre. però lui ci vide comunanza.

però, oggi, proprio in questi tempi, mi rendo conto quanto sia importante tutto questo. averci creduto in quelle cosette, 'sticazzi il furore in purezza. come siano fondamentali nel turbinio delle cose, che sembrano precipitare, come se ci fossimo dimenticati di tutto quello che il passato avrebbe dovuto insegnarci. quello che ha accompagnato i passaggi cogenti della formazione di Cochi.

'ste cosette sono fondamento di prospettiva proprio in questi frangenti, complessi, dolorosi [per molti, noi comunque ancora culo al caldo]. indicano il modo di uscirne che salvaguardi l'umanità. considerare la complessità ispirati da quelle cosette. il fatto fossero furoreggianti in purezza è perché eravamo ragazzi. la portata dell'importanza è forse ben maggiore proprio oltre quel furore puro.

gira che ti rigira, sono ancora più convinto nella necessità dell'andare oltre i conflitti. nella non violenza a partire dai pensieri. e questo funziona se si tirano dentro le contraddizioni, la complessità delle cose: a partire dal considerare le istanze di cui ciascuno è latore. ovvio sia difficile e faticoso. ma se non si passa da lì si va verso la voragine.

questo oltre le mie piccole disperazioni, le mie fatiche, le mie irrealizzazioni. anzi. è un modo proprio per andare oltre sé ed il proprio ombelico. capire, ragionare, fuggire la banalizzazione delle contrapposizioni da tifosi sugli spalti. che quelli sotto nel frattempo muoiono: con sproporzioni, ingiustizie, che sono un'offesa alla pietà. ma la prima cosa a non essere violento, appunto, deve essere il pensiero. per quanto critico e spietatamente onesto sia.

sarebbe stato utile, importante, e rassicurante discuterne anche con Cochi, per me e per lui. visto che non c'è più provo a ragionare anche su come avremmo potuto farlo assieme. cosa mi avrebbe raccontato. cosa gli avrei condiviso.

è un modo per portarselo dentro. sono certo ne sarebbe stato lieto.

Sunday, October 29, 2023

va bene la scelta. ma poi bisogna pur scegliere

la notte scorsa ho scritto un post da culo al caldo. molto culo al caldo. troppo culo al caldo. forse la sensazione uterina del soppalco dell'hometown. che tornarci è spesso meno semplice. e poi le mie bazzecole malinconichette, tristine, incazzatine, sfiduciatine. ho fatto loro maramao, e ho scritto, provando a pensare a cose qualche eone più serio delle mie cagatelle.

l'ho riletto. ero stanco, assonnato. l'editing dei refusi mi ha impiegato un po' di tempo. la contorsione di certi periodi l'ho lasciata così com'è. battaglia persa.

però, oggi, mi è montata la sensazione fosse un po' da culo al caldo. debosciato e al caldo.

non che quello che potrei scrivere in questo lo esponga di più il culo, neh?

però nella sensazione che la scelta sia solo quella della non violenza, del dialogo, del compromesso, è necessario scegliere.

perché ho idea non sia uscito granché, nel post prima. per certi versi 'sticazzi, neh? ma volevo segnar[me]lo, nell'irrimediabile impalpabilità di questo blogghettino della minchia.

tanto più sia irritante il giochetto della incriticabilità del governo di uno stato. probabilmente il peggiore nella storia di quel paese, nato per una risoluzione dell'onu - mica poi così condivisa, peraltro. uno stato che ha inanellato una serie di errori, inadempienze, scelte nefaste, ad ostacolare la soluzione della questione palestinese. criticare le scelte dei governi non è avere in odio la popolazione, anche se quei governi li vota. figurarsi metterne in discussione l'esistenza. è talmente ovvio e scontato che diventa quasi ridicolo ribadirne l'ovvietà.

e dall'altra parte è altrettanto è aberrante chiamare partigiani i militanti di hamas, resistenza quello che fanno. non mi sfugge che da qui, al caldo e al sicuro, sia semplice farlo. a vivere là dentro intuisco sia decisamente più complesso. tanto più ora. che la preoccupazione cogente è quella di rimanere vivi. avercela o non avercela con quelli che comandano nella striscia viene dopo, al limite. 

posto che criticare il governo in israele è possibile [ascolto e sento, credo con cognizione, di una stampa molto più libera e meno asservita al potere che qui]. criticare hamas nella striscia credo stia del tutto sull'asse immaginario.

sono fascismi che si scontrano. e nello scontro giustificano la loro ragione d'essere. è fascio-terrorismo-islamista fare quello che è stato il sette di ottobre. è fascismo-vendicativo, con strategia che non sembra emergere così chiaramente, l'assedio alla striscia [al netto di non disturbarsi troppo a contenere le azioni di quei pazzi invasati di coloni, le loro razzie, nei territori occupati].

il terrorismo verso cittadini israeliani non giustifica la vendetta israeliana. il fascismo di un gruppo di fanatici islamisti è funzionale al fascismo dell'assedio. una ritorsione prolungata e disumana. con il rapporto tra i morti dell'una e dell'altra parte a darne la tara.

sembra non volersi dare un qualche limite allo sgomento. sgomento che si è manifestato - improvviso, ma non imprevedibile [e non imprevedibile non significa giustificabile] - la mattina del sette ottobre. e sgomento che non si ferma nell'agire di uno stato democratico, che non riesce a contenere la sua necessità di vendicarsi.

ci sono solo torti da entrambe le parti. mica per altro sono fascismi speculari e contrapposti.

per quanto i torti e le nequizie, più o meno storiche, rischiano di distrarre dalla necessità faccia capolino un po' di umanità. che poi è quella che è stata violata e deturpata. che siano israeliani o palestinesi: sono vittime, quelle sì ingiustificabili.

e che quindi sia tregua, che significa anche liberare gli ostaggi israeliani, ovvio. non ostante tutto. soprattutto su tutto quello che di disumano si è agito e si agisce.

hanno già sbagliato tutti. prima si fermano, prima smettono di aggiungerne altri, di torti. torti che, mi arrogo quel minimo di visione critica, mi sono piuttosto ben chiari. non dimenticando, peraltro,  l'inestricabilità della situazione di quei luoghi, per un cazzo santi. ma in questo momento va su tutto la sicurezza e l'incolumità della popolazione civile. tutte e tutti. ogni pezzettino di umanità, che siamo ciascheduno di noi, viene ben prima della sua nazionalità o in quale fottuto dio creda.

a volte è financo necessario ribadire l'ovvio.

[lo so, è da culo al caldo anche questo. ma d'altro canto noi ce l'abbiamo tutte e tutti, al sicuro. provo a non rimanerne indifferente, a quel che succede laggiù]

il capello arricciato, la complessità inestricabile, il solco strettissimo, l'inevitabilità di una scelta

sono almeno tre settimane che vorrei scriverci sopra. non mi veniva. troppo da metterci dentro, con l'inevitabile effetto di scrivere banalità. quantunque e qualunque [quasi] parole fossero. come probabile saranno anche queste.

poi ieri ho incrociato dopo un olimpiade l'amica serè. la nostra virgilio, laggiù, che di santo, quella terra, proprio non ha un cazzo. l'ho vista arricciarsi nervosamente il capello riccio attorno al dito. più nervosamente di quello che le vedevo fare laggiù. e l'occhietto triste. e la compulsione a guardare le notifiche dallo smartofono. e la voce a provare a dissimulare la tensione. però è stato l'attimo in cui ho percepito la sua angoscia. non ricevere notizie da qualcuno, da qualche ora, può significare più cose. che il pannello solare non è ancora riuscito a caricare il dispositivo. oppure che la rete non funziona. oppure che una bomba dell'aviazione l'ha fatto saltare in aria, assieme la sua famiglia e la bimba di otto mesi. avrei voluto risponderle più compiutamente. ma sentivo che la voce mi si incrinava in gola, prima ancora di pensare di farla uscire.

sarà [di nuovo] il periodo. sarà la stanchezza. sarà la debosciatezza. sarà che sento l'impotenza di fronte a quel gorgo oscuro. però sentivo la voce mi si incrinava in gola, prima ancora di pensare di farla uscire.

io e la mia debosciatezza e il ditino alzato verso un non meglio precisato destino contingente. ehi, cazzo, non è che si potrebbe dare una regolatina a questo e quello? "la mia non è proprio fame è più voglia di qualcosa di buono" [cit.]. ed un tocco di pensiero a ricordarmi quante millemiGlioni di persone non possono nemmeno cominciare a pensare cosa sia la debosciatezza. quando il pensiero cogente è quello di restare vivi, son cose che non stanno in cima alla pila dei ragionamenti.

così, posso intuire, non hanno tutto 'sto tempo a ragionare sulla complessità inestricabile di quella situazione. sia perché è il loro quotidiano totalizzate. sia perché basta una singola goccia nebulizzata di quella complessità, che può farsi destino per loro. e dare così la risposta alla domanda: sarò ancora vivo tra un'ora? anche se, intuisco col mio culo debosciato al sicuro e al caldo, nemmeno se la facciano quella domanda.

una complessità talmente inestricabile che, qualsiasi cosa si possa solo pensare, hai già pestato merda. figurarsi dirle. figurarsi dirle con la sicumera di chi ha capito e lo spiega. complessità inestricabile: le responsabilità che si rincorrono all'indietro, effetto da una causa. che è effetto di un'altra causa. che è effetto di un'altra causa ancora. indietro fino al 1948. e più indietro sul senso di colpa collettivo per quello che la razionalissima europa ha saputo fare, infliggere. quell'abominio talmente incommensurabile che ne siamo comunque coinvolti. possiamo rimuoverlo, ma mica ci si riesce. una tale non-estricabilità che non se ne esce. e in qualunque presa di posizione, rimane fuori qualcosa, che invece ha tutto il diritto di essere tenuto in considerazione. ma noi le analisi in una multidimensione mica siamo capaci di farne.

tanto più che, personalissimamente, il solco è strettissimo. una fascinazione inspiegabile per la cultura ebraica, quello che ha irradiato nel globo terracqueo, dalla diaspora in avanti. e la sensazione urticante di quello che, in nome di quella religione e modo di sentirsi eletti, viene compiuto. basta guardare l'evoluzione delle mappe di quelle terre: quello che è stato e di quello che è diventato. e che ho la sensazione diventerà: un popolo che ha subito l'espulsione da una terra diciannove secoli fa, ne espellerà un altro, da quella stessa terra. con un'azione pervicace, sistematica, inesorabile. come si sentono chiamati ad essere costoro. eletti.

il solco è stretto perché il confine tra antisionismo e antisemitismo è stato reso sottilissimo. surrettiziamente sottilissimo. con forzature altrettanto urticanti e fastidiose. la critica è di fatto bandita, con lo sventolio del senso di colpa che ci portiamo dentro. nun me criticà, che l'accusa di antisemitismo è un attimo. forse pure questo post fa di me un additato antisemita [però tanto è un blogghettino della minchia]. non importa cosa possa pensare di quella cultura. figurarsi la mia fascinazione.

il solco è stretto, la complessità inestricabile, il capello attorcigliato con tutta la sacrosanta inquietudine. è l'inquietudine che rende inevitabile la scelta. inevitabile, perché si può tirar fuori, dal cilindro delle possibilità, ben poco. ed il poco è considerare le vittime per quel che sono: vittime. figurarsi i bambini. e le vittime smettono di aver professato una religione o un'altra, avere avuto una cittadinanza oppure un'altra. se siano l'effetto di quale causa, o l'effetto ne determina un'altra, di causa. la scelta è prendere la complessità inestricabile e decidere che quello che è inestricato ad oggi rimane tale. e da oggi si prova a dipanare. sapendo che dal gorgo indipanato arriveranno - con molti diritti - tentativi a rendere ancora più inestricato il tutto.

ma - dal mio punto di vista - non si può fare altro che praticare la scelta della non violenza, del compromesso, del dialogo. tanto complessa, quanto con meno appiiilll. tanto utopistica, quanto necessaria. tanto più improbabile, quanto l'unica.

roba che quando ero giovane et fiducioso et pieno di belle speranze non avrei esitato un attimo a ribadire. che tenero sprovveduto ero, sembrava cosa meno semplice tra le molte più semplici. certo, comunque ignoravo la complessità. che si deve ammettere che hanno sbagliato entrambi e degli errori si prende atto, non è clava da usarsi per interposto errori altrui. e porca miseria: però sul pezzo avevo cazzo ragione. ci avevo visto giusto, tutto sommato. è semplicemente la scelta più complessa da fare. ma tanto più ovvia. proprio perché si è passati nella complessità inestricabile delle cose. nella strettevolezza del solco.

è il passaggio più impervio ma è l'unico che porta in vetta.

Saturday, October 14, 2023

piccolo post di piccole gioie casuali [d'altri]

dopo la mostra, tempo di rincasare. decido di pigliare il tram 16. penso: vado per la fermata dopo la solita, con la scusa di passare per piazza mercanti - che mi hanno ricordato quanto sia bella.

e lì, in quella piazza stanno cantando. c'è un piccolo totem più o meno tecnologico. sembra postazione per far esibire chi ne ha voglia, o abbia fatto richiesta. in quel momento vi è una ragazzina. voce e chitarra: una telecaster pezzotta bianca e giallina. vi arpeggia e canta. scuola cantautorale, testi con metriche lunghe, armonie semplici ma mica banali.

tra un brano e l'altro ricorda dei suoi canali soscial. e se si vuole si possono scaricare i testi. quindi passa ad una rapida presentazione della canzone successiva.

mi fa simpatia. mi viene da pensare: ti stimo sorè, tu ha scritto ed hai tutta la percezione di te medesima, per proporre e cantarle, le tue canzoni.

finisce il brano. è l'ultimo. poi no, ci ripensa, ne riattacca un altro. mi colpisce più degli altri. ha una linea melodica decisamente più sui generis. il falso ritornello sembra chiudersi armonicamente, ed invece ecco l'accordo che riapre il fraseggio, ne dispiega un altro balzo. per poi ripiegare in una piccola sorpresa, oltre la previsione. questa è davvero bellina.

le sono quasi accanto, il pubblico è sul bordo della loggia, chi seduto sui tre gradini che postano alla piazza. posso osservarlo e nel contempo osservare lei che arpeggia e canta.

tra il pubblico vedo una ragazza. conosce il testo della canzone, il labiale è quello delle parole che stanno cantando. ne è coinvolta in quel cantarle assieme. sorride, le viene da accennare un piccolo danzante su quelle note. non lo fa, dentro al marsupio, agganciato al petto, vi è la sua creatura - bimba o bimbo che sia. deve essere colta da un momento di piccola gioia assoluta, mentre sta cantando anche lei, assieme la ragazzina. le si apre ancora di più il sorriso, e con un gesto tanto naturale, quanto bellissimo abbraccia la sua creatura, la coinvolge - ora sì - in quel piccolo danzare statico, oscillando i fianchi al tempo della melodia, guardando sorridente la sua creatura come la più preziosa e importante ragione di tutto di quel momento. è una specie di meta-cullamento. un'istantanea, tra le tante del pubblico che osserva, che è bellissima.

e penso che va bene così. in quel momento c'è una ragazzina che canta le sue canzoni. ed una madre che abbraccia felice la sua creatura. la complessità complessiva delle cose del mondo sembrerebbe vaticinare un disastro, cui non sfuggiremo. guerre, cambiamenti climatici, ingiustizie, gran bei cazzi advenienti. in millesimidimiliardesimi non me la sto passando benissimo. con tutto questo nuovo turbinare di incompletezza, irrisolutezza e poco grip a prender in mano la situazione. e pensieri che tornano a farsi preoccupantemente più scuri del grigio.

ma va bene così. ci sono gioie e momenti di felicità. non li intercetto io, non riesco. come se mi girassero attorno. ma ce ne sono là fuori. a posto. se qualcuno è capace di pigliarseli, a posto. davvero.

la ragazzina si chiama glicine. ha almeno quattro-cinque anni in più di quel che mi sarei aspettato. le chiedo come compone: se direttamente alla chitarra o con il pianoforte. ha un accento tra il bresciano ed il bergamasco. l'ultimo pezzo che ho cantato l'ho prodotto per intiero io. scrivo da quando ho quattordici anni, ne avrò già scritto un centinaio di canzoni. mi segua sui social. [il lei, mi fa sentire ancora più vecchio.]

certamente glicine. una di quelle che hai scritto è davvero bellina. e ho intravisto un momento di piccola gioia e felicità.

a posto così. 

 



[prequel. anche se non c'entra nulla. entro nella prima sala della mostra, una delle addette alla sala mi consiglia di lasciare lo zainetto al guardaroba, che le sale sono tante. cosa che faccio. quando torno le dico [è esercizio per smettere di aver imbarazzo a rivolgermi agli sconosciuti]: grazie del suggerimento, lei ha capito come vivo le visite alle mostre. cosìcché prosegue lei: ma lei è un artista? chi, io? sì lei! no. direi di no. ma per caso scrive? no in realtà scrivo psicopippe su un blog. e mitigo la fruestrazione di un lavoro che non è il mio, sussumendo il bello che alcune persone sanno regalarci. ah. buona visita. grazie e buon lavoro.]

Saturday, October 7, 2023

luci accese e dopo spente [cit.]

oggi stetti al lido dell'hometown a leggere. seduto su una panchina. accarezzato alle spalle dal sole gentile.

mi sovviene che proprio lì correva garrula la cagnolina. si era durante l'inverno del secondo lockdown. aveva appena messo giù neve, sul prato del lido una coltre, quasi immacolata. la cagnolina correva felice, correva quanto ancora più veloce un cane della sua età, correva con la lingua a penzoloni. la combinazione spazi aperti e quel velo di bianco. si divertì. oggi ho pensato che fu l'ultima volta in cui la vidi fare cose da cane in salute e con molta gioiosa esuberanza. tempo pochissimi mesi sarebbe iniziato il lento, inesorabile declino. era l'autunno-inverno della speranza. eravamo chiusi ed ancora limitati. ma confidavo sarebbe finita e saremmo ripartiti, sarei ripartito, lasciando alle spalle quell'infarto della storia. ci credevo, ci contavo, ci fantasticavo. mentre la cagnolina correva come non dovesse aver mai a finire il fiato. ora è sotto il kiwi. da tempo so che la speranza di quell'autunno e quell'inverno è evaporata: la primavera non è stata quella che pensavo fosse.

alzo lo guardo. le fronde dell'albero lì accanto, già piuttosto dorate, non ostante il caldo anomalo. l'albero ed io osserviamo. una coppia con il loro cane che scatta, scarta, balza felice. perché può correre, perché è lì assieme ai padroni. poco più in là un papà gioca a far librar quel po' nell'aria la sua creatura. il bimbo probabilmente ride a sentirsi volare, fermarsi, tornare tra le braccia del padre. immagino il ridere sganasciato e coinvolgente che sanno regalare i piccoli-piccoli.

per quelle due coppie quali saranno ricordi di questo pomeriggio? il cane che vortica le zampe felice. i ridolini della creatura al librarsi.

e le altre persone lì con noi in quello spazio ampio. chissà quali ricordi si portano appresso. magari anche legati a questo lido. magari chi ha perso qualcuno che è altro una bestiolina d'affezione. magari chi ha perso ben altro che la speranza dopo l'inverno. magari qualcuno soverchiato da dolori importanti, mica dalla malinconia poco fiduciosa, come accade a me.

ed in quel momento percepisco di come noi si sia fottutamente di passaggio. ed il lido dell'hometown come sia uno dei millemilioni di paesaggi del nostro passaggio. luci accese e dopo spente [cit.]. la lenta stazionarietà dei luoghi. il nostro passarci in mezzo con rapidità inusitata. inconsapevoli, placidi, sicuri, arrancanti, arroganti, irrisolti, cinici, utopici, sprovveduti, egoriferiti, imbarazzati, spaesati, empatici, incuriositi, entusiasti, apatici, stronzi, buoni. più verosimilmente una combinazione lineare di questo e molto altro.

per ancorarmi un poco, in questo volgere turbinante di pensieri, alzo di nuovo lo sguardo alle fronde piuttosto dorate dell'albero. sono arrivato prima io dell'albero - occhio e croce - ma è molto probabile mi sopravviverà. chissà se era lì quando al lido ci andavo in quelle giornate che sembravano lunghissime e puccianti nel lago. c'era quando si consumava il rito dei teli spiaggi distesi mezze dozzine alla volta, posizionati secondo pattern che raccontavano le dinamiche della cumpa più o meno oratoriana. quando capii, proprio lì, su quella spiaggia, di come non sarei mai stato in grado di corteggiare una ragazza, una donna. corteggiarla nel senso di convincerla dell'inevitabilità del mio esserne innamorato [quella cosa lì, qualsiasi cosa significhi]. mentre il sole abbronzava la pelle. ed in parte il caldo mi avvolgeva in quella consapevolezza ex-ante.

il muover di fronde. una panchina dove accanto corse garrula la cagnolina. la percezione pugnace di come cambi tutto, seppure in un paeseggio che sembra immoto. cambiamenti a cominciare da tocchi di noi medesimi, nevrosi e compulsioni a parte. e di come si sia fottutamente di passaggio. noi che ci crediamo il centro di chissacccché.

[peraltro ci avevo visto giusto, ex-ante. e per fortuna qualcuna si è convinta da sé, mica ha aspettato la convincessi io. sennò]



Saturday, September 30, 2023

pesche et inadeguate arrendevolezze [ex-ante][poi un po' divago]

vabbhe, dai. tutta una fottia di ggggggente ha voluto dir la sua su 'sta pesca dell'esselunga. potrò, a 'sto punto, dire la mia? no? persino la fratelladitalia ci ha messo il suo carico. che avrà pensato: aò, nun me par vero che posso ddì qualche frescaccia assertiva, così se distraggono dalle cose che ci ho promesso e che nun se riesce deffffà, li mortacci a quello che mo trovo come nemico, per giustificà che nun semo bbbboni.

poi io son pure meno snobbbe di elliscslain, che invece lei proprio non l'ha vista 'sta pesca dello spot.

a dirla tutta prima ne ho sentito discutere dal bacchetta [che bello risentirlo in onda. che financo un po' mi mancano i confronti in tempo reale con l'ecsamica roby. ma le relazioni vanno e vengono. che mica ci son solo quelle della pesca, di relazioni che vanno e vengono. ma tutto il caleidoscopio del volersi bene]. solo un paio di giorni dopo l'ho vista in tivvvù. non è snobbismo. è che la tivvvvù la guardo quando sono da matreme. che qui non funziona assai bene.

prima ne ho sentio discuterne, appunto. la cosa che mi ha colpito è che la clusterizzazione delle opinioni è stata la massima possibile. perché chiunque intervenuto al telefono - bacchetta ha chiesto di farlo a chi avesse avuto esperienza di separazioni con creature - ha dato l'impressione che la sua esperienza non potesse essere altro che lo esperito dalle creature coinvolte. una specie di sineddoche di paradigma. come l'hanno vissuta le loro creature è la modalità in cui le creature vivono la separazione dei genitori. mi ha colpito ma non mi ha stupito. per quanto siano sensazioni - le mie - che sgorgano da un universo parallelo - il mio - rispetto a chi è diventato genitore. credo, penso, intuisco, mi immagino che diventare madre o padre sia una delle esperienze più sfaccettatamente personali: oguno in un modo che è solo ed esclusivamente il suo, che pensa sia l'unico possibile. immagino che, per traslazione, anche far vivere alle proprie creature il trauma - sì, trauma - della separazione sia qualcosa che è solo suo ed unico, vissuto delle creature compreso. da fuori, da un universo parallelo, avrei voluto abbracciare quel padre che l'ha riassunta così: il dispiacere, il senso di colpa e fallimento di non poter più donare ai miei figli le cene tutti assieme a tavola. l'acquietarsi al pensiero che chissà come sarebbero state pessime e disturbanti quelle cene tutti assieme a tavola.

poi, 'sta pesca, l'ho finalmente vista. e non ne sono rimasto indifferente, mi ha toccato [toccante per la fratelladitalia, non sono - e ci mancherebbe - esattamente la stessa cosa]. mi ha toccato la cinica e spregiudicata genialità del creativo dell'agenzia. bisogna solo capire se a 'sto giro sono più importanti gli aggettivi o il sostantivo. cinico e spregiudicato per aver usato - sì, usato - il dolore di una bambina per uno spot pubblicitario. spot pubblicitario che ha fatto il pieno, e che ha fatto deflagrare tutto ed il contrario di tutto. e comunque se ne parla e discute: cos'altro può appagare di più l'ego di un creativo? 'sticazzi se l'avessero previsto o meno.

mi ha toccato perché mi hanno riverberato diverse frequenze di risonanza. il dolore della bambina. e per portato quello che può essere il senso di colpa di quei due genitori, così piccolo borghesi [l'esselunga di via solari, una casa in una zona non esattamente periferia della città]. ed un po' mi ci sono immedesimato, da fuori, da un universo parallelo, in quel senso di colpa: che può essere autentico, obiettivo, o affogato in una coda di paglia che sicuramente le creature ora sono più serene. naturalmente me lo immagino. che ragiono di tutto ciò - appunto - da un altro universo.

solo che poi ci ho fatto pure io una sineddoche. è che la mia è piuttosto nevrotica.

perché nell'immedesimamento in quei genitori [anche se io una casa così ampia non potrò mai permettermela] provo una specie di timore quasi paralizzante. il pensiero di una relazione che finisce, e ne soffrono anche le creature, la percepisco come un qualcosa che non so se riuscirei a sopportare. ora qui e adesso non so se avrei la forza di superarla. tale per cui mi chiedo se possa valerne la pena correre il rischio. e magari sentirsi inadeguato ed arrendermi ex-ante. dai, che a 'sto giro l'aspetto nevrotico è facilissimo da sgamare. tutta questa inadeguata arrendevolezza per un qualcosa che non potrà mai più accadere. una proiezione sull'asse immaginario di una freccia del tempo che va a far diminuire l'entropia. tutto ciò non esiste. esiste solo l'ennesimo [auto]agguato nel giustificare il sottrarsi alle relazioni: qualsiasi cosa significhino.

per robustissime ragioni, inappellabili in questa vita, nessuna creatura mi passerà mai una pesca dicendomi: questa te la manda la mamma. c'è un iperspazio multidimensionale di separazione dal vivere un episodio omologo. eppure temo mi possa accadere. e quindi - tendenzialmente - mi sottraggo nei modi e limiti previsti dalla mia fantasia creativa. tutto ciò in questo di universo, in questo spazio tempo di realtà. provando peraltro una corroborata inadeguatezza.

poi dice di non essere del tutto in bolla.

figurarsi poi la questione, scaltra, delle persone un po' meno disassate: provale, le cose. comunque vada non sarà mai solo un insuccesso.

mi viene in mente il direttore di un coro. coro che dire amatoriale è volergli bene. il direttore musicalmente tutt'altro che sprovveduto, con l'orecchio molto ben fino. mi verrebbe da chiedergli: tu li senti come ognuno canti come se fosse l'unico lì dentro, utilizzando versioni personalissime di modulazioni delle note. non è un coro: è un insieme di persone che canta ciascuno il suo, spesso peraltro non azzeccando del tutto la nota. io lo so che mi guarderebbe con la sua pacata visione delle cose e risponderebbe: certo che me ne accorgo, certo che il mio orecchio lo coglie per bene. ma fanno del loro meglio e questo è il massimo che riesco a tirar fuori da loro. per questo me ne curo fino ad un certo punto. poi non vedi come sono orgogliosi di farlo? come si applicano, come si sentono realizzati nel cantare? qualcuno pensa anche di essere bravo: che sia vero o meno è un dettaglio trascurabile, in questo momento. quanto giova al suo umore, questa autoconsapevolezza? esticazzi se fondata o no [anche se esticazzi non lo direbbe, questo direttore di coro]. chi non azzecca del tutto la nota è perché non sente dovrebbe essere precisamente un'altra, quindi a posto così: c'è ragione per essere soddisfatti. un'analisi delle frequenze e le sua armoniche potrà mai togliere quella soddisfazione?

certo che me accorgo ed il mio orecchio di più. ma va bene ugualmente. perché l'alternativa è che nessuno di costoro canterebbe più, e non ci sarebbe più un coro.

però, soprattutto: tu cosa faresti, fossi al posto mio?


niente. tutta 'sta psicopippa guardando una pesca.

Saturday, September 23, 2023

intermezzo retorico migrantistico - che brava la diana santini

[disclaimer. fatico a far tutto. anche - soprattutto - scrivere: non pretenderete mica lo rilegga  neh? questa è primissima stesura. immagino refusi e complicazioni di fruizione come non ci fosse un domani]

la diana santini non è tra le mie giornaliste preferite della radio. una questione a pelle, più che altro.

però qualche giorno fa ha dimostrato di saperla fare molto bene, la giornalista.

ha attraversato lo stivale terracqueo ed atterrata a lampedusa. lampedusa quando ancora il resto del meinstriiim mica raccontava del delirio che stava succedendo là. cioè settemila migranti, in un'isola con settemila abitanti. nemmeno più nell'hotspot, anche per il semplice fatto dovrebbe contenere quattrocentocreature. quindi migliaia a zonzo.

e la diana ha fatto quello che dovrebbe fare un giornalista: osserva e racconta. e siccome è radiogiornalista ha intervistato. una sera, direttamente come viene viene, un microfono aperto con costoro. ed ho avuto la percezione, sulla novanta e cuffie nelle orecchie, di come il fenomeno migratorio si porti dietro la complicazione di un fenomeno epocale. qualcosa che io non so nemmeno come si inizia ad immaginarne la portata. ed i milioni di milioni di milioni di effetti che determina, che determinerà [con il riscaldamento globale che catalizzerà esodi, qualcuno ha idea di cosa succederà? [nelle vie calde la temperatura si alzerà. moltitudini, moltitudini. mamma mica che festa]]. ma non ho percepito solo quello. grazie alla diana che ci ha ricordato di come sappia fare bene il lavoro di giornalista. perché ho avuto la sensazione quasi fisica di averci lì accanto le creature. che è il fenomeno epocale. che coinvolge persone. e le persone eccole lì, ad ascoltarne la voce, la storia, la vita, la grandissima soddisfazione di aver messo il culo al sicuro. la complessità che non ci sta nelle mia testa. e le storie singole, due, tre, che attanagliano la mia cattiva coscienza di persona privilegiata [vicino al burnout ed irrisolta]. gli estremali che si toccano: la globalità di un fenomeno, e la vita di ogni creatura che è parte di quel fenomeno.

sono una persona poco capace. ovvio mi coinvolga la vita di quella particolare creatura. anche il fatto che abbia imparato come prima parola: piano! quando si avvicinano i soccorsi: piano, soccorriamo tutti, se fate piano ci si salva tutti. anche il fatto che sia in viaggio da anni. anche il fatto che guarda di sottecchi i tunisini, che in tunisia quelli neri come lui siano vittime di atteggiamenti razzisti.

poi la diana ha smesso un po' la parte della giornalista di reportage, ed ha vestito i panni di cronaca più spiccia. financo travolta dalla meraviglia di una che viene dall'efficienza milanese. com'è possibile che non si stia facendo praticamente nulla per ovviare alla totale mancanza di accorgimenti logistici: com'è possibile che dopo qualche giorno ancora si lascino all'addiaccio centinaia, migliaia di persone, in attesa di essere imbarcati per la sicilia. come se tutto fosse lasciato quasi al caso. o quasi si decidesse di non gestire quell'aspetto. che a sfamarli, rifocillarli han fatto cose incredibili i lampedusani.

e poi il giorno dopo è avvenuto un testacoda, financo vomitevole. quando il conduttore da studio ha annunciato la notizia: un videomessaggio della presidente del conglio sull'emergenza migranti. e la diana mi ha fatto tenerezza, commentando: eh, magari annuncerà delle soluzioni pratiche per gestire questo buco logistico, che ri-aprano luoghi, che dispongano attrezzatture per non lasciarli come sembrano essere dimenticati ora. ed infatti il video della fratelladitalia a proclamare una stretta sicuritaria, cpr in ogni regione, diciottomesi di reclusione massima, pugno duro contro l'immigrazione, blocchi navali.

"diana, la prima ministra non ha annunciato esattamente quello che ti aspettavi". testacoda. financo vomitevole. in prigione,. in prigione. è solo quello che sanno fare. nemmeno: propagandare.

ancora non si sapeva dei quattromilanovecentotrentottoeurI per non finire nei cpr. non si sapeva ancora che son bravissimi a scavare.

avremmo bisogno di una classe dirigente che si attrezza per gestire il fenomeno. abbiamo nei ruoli apicali dei neofasci inetti ed incapaci.

intanto però, la diana, che gran bel modo di ricordarci sia una brava giornalista.

[che mi sarebbe piaciuto occuparmi delle istanze delle vite dei singoli me lo racconto. ma ho smesso forse di crederci.]

[e comunque aveva capito tutto lui già nel 1982.
mentre vai a capire perché, una decina di anni dopo ne rimasi così stregato]


Monday, September 11, 2023

inprigione-inprigione [e che ti serva da lezione] unodidue

come accennai all'amico emanuele: per me, bennato, è stato parzialmente fondativo. [e rivederlo ora al carroponte coi capelli ricci-corvini, come trentacinque anni fa, mi suscieterebbe un misto di malinconia e ridicolaggine. questa è un'aggiunta inutile. appesantisce.]. ascoltarlo da adolescente sbertucciare il potere. cantarne le canzoni in cui, puntuto e perculante-icastico, ne tratteggia le distorsoni, degenerazioni, marcescenze [evvvai col tris di sostantivazioni/aggettivazioni]. il sarcamo caustico con la dodicicorde, armonica, kazoo, tamburello. ovvio andassi in fissa.

non ne coglievo la semplicità, troppa. ne sopravvalutavo la portata: se gliele aveva cantate era roba andata, passata. financo solo il fatto di essere stati sgamati, quelli del potere. mica potevano far ancor quel tipo di danni.

valeva anche per in prigione-in prigione. con quel suo picchiar tostissimo sui tasti del pianoforte. dopo i dotti medici e sapienti, arrivavano quelli che risolvevano tutto - tutto - con lo sbattere in prigione, tutti - tutti. in prigione-in prigione, e che vi seva fa lezione.

pensavo bastasse il suo sarcasmo per esserne al riparo. una specie di immunizzazione acquisita per contezza. che tenero coglioncello ero.

poi sono arrivati questi qui. cioè. è un po' che fanno danni qua e là. però ormai siamo ad una specie di ordalia. questi zotici dello stato di diritto.

quelli che una qualsiasi notizia turba il sentimento comune la risposta è: aumentiamo le pene. decretazione ad inasprire, inventarsi reati più o meno nuovi o stravaganti. fottesega se reati e pene esistono già, basterebbe applicarli. devono dar l'impressione del law-and-order, anzi no: legge ed ordine, che ad usare l'inglese han decretato si piglino multe. potessero mettere fuorilegge il riscaldamento globale o la pandemia lo farebbero, aumentando gli anni di carcere, ovvio: il massimo possibile fino a non travolgere il muro di contenimento del ridicolo. basta mettere in galera. ignorando - o facendo finta - chi, come, perché si arriva a comportarsi in modi che si stabilisce essere [ancora] più criminosi. ignorando - o facendo finta - che nel carcere, in galera lo stato dovrebbe agire per rieducare e riabilitare chi là dentro ci finisce, e prima o poi vi uscirà. invece no, basta alzare le pene. come se l'unica visione in prospettiva fosse: ce li mettiamo dentro, e si butta la chiave. semplice ed efficace. si parte dal fondo e non si ha la percezione di quel si dovrebbe fare da quel fondo. si parte dal fondo e lì si rimane, capendone poco un cazzo. importante è dar la percezione di tranquillizzare le inquiietudini della ggggente: state sereni, lì mettiamo in carcere risolviamo il problema e non ce ne dobbiamo più preoccupare.

quello coi capelli di kevlar ricordava ai suoi venditori che le italiane e gli italiani vanno trattati come dodicenni. questi ci considerano come decenni, che peraltro vanno cresciuti ad essere anche un po' stronzi.

è 'sta cosa qui che davvero mi manda il fumo incazzoso in testa. il perculamento surrettizio. l'affrontare la complessità di qualsiasi problema di tipo sociale, soltanto dal punto di vista ancor più repressivo. facendo credere sia risposta sufficiente, bofonchiando capacità di affrontare le situazioni. come se non ci fosse quasi unanimità, tra chi ne sa, che la pena funziona come deterrente più o meno come funzionerei io come direttore controllo qualità di un profumificio.

è un raggiro che mi fa infuriare, prima di definirne l'incapacità di essere dei rappresentanti dello stato di diritto. in prigione-in prigione, e che vi serva da lezione: i personaggi della canzone son dei montesquieu a confronto.

 

[due chiose a chiudere.

son stato alla presentazione di questo libro: la cattura, con il procuratore de lucia, che ha coordinato le ultime indagini che hanno condotto all'arresto di messina denaro. una percentuale di ufficiali superiori dei carabinieri che levati. ma dopo il nonnetto le stellette non mi impressionano più. de lucia ha accennato a due episodi, dopo la cattura, appunto. il primo colloquio con il capo di cosa nostra - stragista - cui ha chiesto conferma fosse stato trattato bene, e che sapevano della sua malattia di cui si sarebbero presi cura. ed il momento in cui è iniziata la traduzione da palermo a l'aquila, quella immortalata dalle foto: non è ammanettato, ha al suo fianco un solo carabiniere in divisa ordinaria e solo dietro un carabiniere dei ros, con la maschera a coprire il viso. episodi che testimoniano il comportamento di rispetto della dignità delle persone da parte dello stato, financo un criminale stragista. che l'istituzione può permettersi e deve agire proprio perché ispirato ai principî dello stato di diritto. un principio altissimo e bellissimo. ho avuto un piccolo groppo in gola. e nel mentre però mi sono ricordato dei tanti stefano cucchi entrati in carcere vivi e restituiti morti. la loro custodia, che oltre essere cautelare è stata anche mortale. mi è sovvenuto che la percentuale di suicidi nelle carceri, sul totale della popolazione che le affolla, non è lontanamente paragonabile a quella delle persone che stanno fuori. stesso discorso per l'utilizzo degli psicofarmaci. i principî altissimi enunciati dal procuratore, e la realtà complessissima e complicatissima delle carceri. e gli zotici che basta metterli in prigione-in prigione.

il partire dal fondo di una situazione complessa, peraltro finendo di acclarare di capirne poco un cazzo, mi pare anche di intravvederla in un qualcosa di molto distante. ma con un approccio di stato etico anche qui. la faccenda dell'aver a cuore la natalità. dove l'approccio è, da una parte, di raccomandare di scopare solo in modo conforme a quello che può portare alla riproduzione. tutto il resto sarebbe da evitare - visto che vietarlo sarebbe complicatino, altrimenti: in prigione-in prigione. non possono dirlo espliciti, perché sarebbero spernacchiati troppo rumorosamente. c'è un limite anche alla loro limitatezza politica. dall'altra sono le mancette a chi figlia. come se l'una tantum economico funzionasse da sprone - il duale della pena come deterrente. si parte dal fondo. tutto quello che sta prima: nebbia fittissima. dagli asili nido, alle reti che possono permettere anche alle madri di lavorare, ad incentivre una responsabilizzazione anche dei padri. nebbia fittissima. o forse un disegno ben preciso: scopate conformamente, riproducetevi, figliate. tanto poi, al focolore e all'educazione, ci pensa la mamma. che è 'sta cosa di voler lavorare come i padri? e visto che siamo buoni: qualche mancetta qua e là.]