stamani il bacchetta, alla radio, ci ha provato. era una sfida complessa da portare fino in fondo. soprattutto in una comunità di ascoltatrici e ascoltatori sicuramente sensibili alle sofferenze, dell'altro lato, che da quell'evento si sono generate. e che si propagano all'indietro, in un rincorrersi di cause ed effetti che si fa assordante. disperante, a guardare solo le azioni e reazioni del passato.
ecco, vedi, caro massimo bacchetta. nemmeno io ci sono riuscito. provare a pensare, oggi, a quell'evento devastante del setteottobre, e lì rimanere concentrati. senza lasciarsi andare, almeno oggi, a considerazioni - per quanto sacrosante - di quello che è stato dall'ottoottobre, quello che è stato fino al seiottobre.
fermarsi a ragionare sul pogrom. quello che è stata l'esclusiva mattanza di un gruppo di terroristi, che per ribaltamento di senso ributtante c'è chi definisce partigiani. ed il pogrom un atto di resistenza. il modo ancor mi offende.
non so quanto ci sia riuscito io. non so quanto il bacchetta l'abbia azzeccata, proporre un tema che, forse, non aveva una soluzione, neppure nel dominio complesso.
perché appunto è troppo complessa, stordente, spiazzante quella realtà. gangli intrecciati, indistinguibili, irriducibili. come una massa tumorale può avvolgere tessuti sani in modo inestricabile. il tumore è la violenza che pervade quelle terre, che di santo non hanno un proprio un cazzo. è l'odio che gli uni hanno nei confronti dell'altro: tutti figli di abramo, peraltro.
ci ho provato neh?, soprattutto oggi, a ragionare su cosa dev'essere stato il setteottobre per loro, abitanti di israele, ebrei. come ha riverberato quel pogrom.
contino ad essere convinto ci manchi un pezzo. a tutti noi col culo al caldo. e non è solo una questione congiunturale del qui ed ora. bensì il culo al caldo dell'intimo profondo di noi cristiani di occidente. importa poco quanto atei o agnostici o lontani dal professarlo. noi che facciamo parte di quella parte che ha dominato per secoli. che seppur da qualche tempo il potere sfumò [cit.], si rintanata nei meandri della morale, del senso di colpa e di espiazione. insomma noi che non abbiamo diciannove secoli di pensiero fondante che si è infilato sotto lo strato del derma e della coscienza: vogliono eliminarci dalla faccia della terra.
spreco una riga di disclaimer: non giustifica un solo morto innocente, prima e dopo il setteottobre. non vi si può prescindere però, nel ragionare fin giù nel profondo, quello che è stato quel pogrom.
solo che a noi ci mancano i diciannove secoli di pensiero fondante.
per questo credo ci manchi un pezzo, per capire davvero cosa dev'essere stato per loro: abitanti di israele, ebrei.
il governo di israele ha responsabilità e colpe incommensurabili: prima e dopo il setteottobre. specie lo scempio del concetto di umanità, dei crimini contro di essa che sta accadendo a gaza. ma il governo di israele non è il suo popolo. per quanto oggi, quel popolo, probabilmente farebbe vincere ancora a quel criminale del loro primo ministro, e gli estremisti sodali suoi. ma nessun popolo si merita un pogrom - che banale ovvietà, eh?
e a noi continua a mancarci un pezzo per capire, davvero, cosa deve aver significato per loro. è già terribile così. figurarsi con quel pezzo in più.
nel senso di si può fare. non come lo esclama lisergico il dottor frankestin. ma come lo canta il branduardi. che inizia con questa specie di giga, che credi sia un'orchestra di ghironde a suonar il motivo che [ti] trascina.
vado molto a memoria. una cosa di più di trentanni fa. l'esame di analisi III, con le certezze che si sfaldano una domenica pomeriggio di febbraio. io a ripassare quelle pagine fitte nel pulmino rosso oratoriano. gli altri in un qualche incontro giovial-parrinaro, a novara o giù di lì. mi ci ero rintanato, nel pulmino, come compromesso per voler esserci a quella cosa giovial-parrinara, e placare l'ansia dell'esame adveniente. quindi un po' all'evento, un po' sul pulmino rosso a ripassare. e poi datemi un passaggio alla stazione che me ne vo a milano. ero nel pulmino rosso e di colpo, come il verificarsi ineccepibile e teoreticamente inappuntabile di una delta di dirac, la certezza: non ce l'avrei fatta. non avrei passato l'esame. saltano i tiranti del tappeto elastico, dove rimbalzano le emozioni a ridosso di un esame. plof, si affloscia tutto. ed io mi ci ingarbuglio dentro, e prendo una culata sul pavimento. pensavo di dominarlo quel popò di pagine di appunti nonché quelle dell'amerio con la copertina con la banda verde acido. emulo in decimillesimi del professor pagani, con il suo sguardo altero, il viso aerodinamico, i baffetti rastremati, i dolcevita grigio chiari, le movenze da carmelo bene delle aule della nave del poli, l'alterità da aristocratico della matematica. pensavo di averlo fatto mio quel corso. ed invece in quel pulmino la certezza, analitica: non ce l'avrei fatta. l'equazione differenziale alle derivate parziali ben impostata, le condizioni al contorno che raccontano che no, non l'avrei passato.
ne ero certo. svuotato.
e quindi tutto diventa leggero. una cosa che non pesa e quindi non mi avvolge nell'irretirmi nella rete del fallimento, puntuale, di quella cosa lì. stigrandissimicazzi. anche se allora non lo si usava ancora. lo avrei provato, non l'avrei passato. pace.
così nei giorni successivi, prima dell'esame, vagolo per milano a tratti. inutile incaponirsi e consumare la tensione e dell'agitarsi. tutta energia sprecata.
così finisco in messaggerie musicali, quella in duomo, quando ancora c'era. quella dove trovavi le colonne di ascolto delle uscite del momento. con le cuffie superavvolgenti, oltre che sovraccariche dei residui tricologici di mille e più utilizzatori precedenti. tutti lì ad ascoltare a volumi pazzeschi, con chissà quali stati d'animo, umori, speranze, disperazioni, e tutto il campionario di fardelli di pensieri, oppure il semplice cazzeggiar spensierato.
prendo le cuffie ed i residui tricologici della colonnina in cui, tra le altre, c'è la chioma del branduardi, viso chinato su una dobro, blusa chiara. si può fare. faccio partire il cd, che non si sente altro rumore, cuffie superavvolgenti. e parte la giga che sembra suonata da un'orchestra di ghironde, e parte come venisse da lontano. e l'ascolto. la riascolto. mi spacco le orecchie a farla ripartire di nuovo. solo quella canzone, solo quel rincorrersi di versi che certificano che si può, coniugando quel tappeto di verbi. l'elencazione di quello che rientra nel poter fare. l'essenza, la tintura madre del declinare l'esistere, esserci, azione costruttiva, istanza fattiva, il grip con cui si avanza, passo dopo passo, nel mondo, nel divenire. la ascolto e la riascolto. ipnotizzato da quella melodia, da cui mi facevo avvolgere, come se ci ballassi dentro anch'io.
con in mente ben impressi tocchi di versi: prendere o lasciare, volere. lottare, fermarsi e rinunciare, lasciare, sbagliare, e poi ricominciare, continuare a navigare. e tutto questo turbine qui.
il contesto di quel pomeriggio era l'esame che non avrei passato, ne ero certo. a volte tutto il destino del mondo può riassumersi in qualcosa di fanciullescamente semplice. stava tutto lì il mio cruccio, la sensazione - strana eh? - del fallimento puntuale e temporaneo. era tutto molto semplice, e circonflesso nel piccolo orizzonte ricurvo degli eventi: un esame che non avrei passato. ma si potevano fare tante, tante, tante altre cose, come sussumevo da quei versi. facendo ripartire la canzone. i padiglioni auricolari ormai intirizziti. cercavo di farla mia quella canzone, si può fare. si poteva sbagliare - il totem del contesto di un'esame - e poi ricominciare. e poi continuare a navigare.
forse era tutto davvero molto più semplice, allora. forse erano i vent'anni. forse il fatto di avere tutto ancora molto, molto davanti, a divenire. era facile sentirseli addosso quei versi. occcazzo com'era quasi ovvio e scontato che era roba che si sarebbe potuta davvero fare.
poi l'esame lo passai. peraltro insoddisfatto di un ventisette. perché avrei potuto facilmente arrivarci al trenta. forse culo. forse la sapevo meglio di quanto credessi. forse perché l'avevo vissuta leggera, con il retrogusto che tanto era inutile menarsela. si poteva fare. si poteva sbagliare e poi ricominciare.
quella canzone è ripartita anche questo tardo pomeriggio. mentre attraversavo la galleria mappo morettina - i ticinesi hanno un gusto tutto loro di battezzare luoghi e situazioni. di nuovo la giga che sembra sia suonata da un'orchestra di ghironde. di nuovo il cambio di tonalità quando inizia a cantare.
fanno strano tutti quei verbi fattivi, all'infinito. rotolano come fossero teorici, come a non afferrarli, scorrono via. tipo l'asfalto sotto gli pneumatici dell'auto. come cantano strani quei verbi. ed il si può fare sembra surreale come l'esclamazione lisergica del dottor frankestin. solo che qui è tutto molto più semplice ma distaccato. come non fosse più qualcosa che fa per me.
come non sapessi più fare.
eppure. eppure. eppure.
ad un tratto e come intuissi la presenza, ancora, di un qualcosa che mi sembra una specie di gancio. un mezzo marinaio con cui riprenderli quei versi, farli ancora un po' propri. è roba tenue, appena palpabile. mentre guido è come si ricongiungesse per un attimo il disperante stigrandissimicazzista di allora, allo scivolatore perditempo di oggi, di ora, quello che sta percorrendo la mappo morettina.
come ad aver la sensazione che, da qualche parte, ci sia ancora una specie di fiammella fattiva. con cui si può fare, con cui fare. è una percezione fugace, ma non effimera. fiammella che balugina, che non è fuoco fatuo.
è un piccolo brivido rassicurante. da qualche parte, lì dentro, c'è. non è nemmeno una questione che si debba cercare granché, non funziona il raccontarselo del: marò, che confusione c'è qui dentro, ovvio non si trovi più. no. no. c'è. deve solo venire avanti. solo, si fa per dire.
però sì. si può fare. intanto riparte le giga, ad libitum.