Sunday, May 7, 2023

PTSS [suvvia, però in trentaduesimi]

ho in mente tre dettagli, con le rispettive sensazioni, al principio di tutto.

la prima. quando alla radio il facco rispose a gattuso sulla notizia fresca fresca: l'oms aveva decretato il sars-cov-2 2019 come pandemia.

- ah, vabbeh, occhei è ufficialmente una pandemia. [facco, che non lo diresti ma è pur sempre un medico]
- e lo dici così, come se fosse una cosa da niente [gattuso con il tono un po' allarmatino, nel cazzarare di quella trasmissione].
- eh, sarà almeno la terza o la quarta volta che succede dall'inzio del secolo. mica niente di così nuovo da questo punto di vista.

mi ricordo dov'ero e cosa stessi facendo. e non mi sentii poi così tanto rassicurato, non ostante fosse già la terza e la quarta, da inizio secolo, senza ne avessi contezza. occhei - pensai - vediamo che succede. ma queste strane vaibs. come di un timore per me, per tutti.

la seconda, poco dopo. il contributo dell'amico daniele - improvviso - nell'unica chat di gruppo uotsapp che leggevo volentieri. condivse un link. un articolo di tempo prima - fuori contesto - che raccontava dell'influenza del [boh...] 1969 [?]. si leggeva avesse fatto vittime - come ogni influenza, peraltro - messo a letto milioni di persone e ingolfato gli ospedali. il sottotesto surrettizio: c'era stato ben di peggio in passato, cazzo ci preoccupavamo in quel momento? ricordo un fastidio stizzito, che neanch'io riuscii a spiegarmi, allora. ci lessi un perculamento del clamore che stava montando in quei giorni. vorrai mica mettere che, appunto, l'influenza del 1969. risposi, sarcastico, con un paio di link. in effetti anche le pestilenze tra il '500 ed il '600 avevano causato fottutamente più morti. perché preoccuparsi ora?

la terza. quando ormai ci si teneva già a distanza. non ancora rinchiusi in casa. ma già a distanza. guardavo un video della mannoia. l'ultimo brano di un concerto della tournè sud. con la gente che a "il cielo di irlanda" si avvicina felicemente al palco. si assembra. ebbi la lancinante sensazione che quella roba lì sarebbe uscita dalla consueta, quotidiana, possibilità delle cose. come un atto che da normale si sarebbe fatto anomalo, disturbante. e provai un'improvvisa ed inaspettata nostalgia.

forse non sono così scemo. perché avevo più o meno intuito tutto. come se le cose avessero riverberato in maniera anticasuale.

poi è successo quello che conoscono anche i sassi. col cazzo andrà tutto bene. una reazione pavloviana di gente impaurita [più o meno consapevolmente] gli applausi dai balconi. col cazzo ne usciremo migliori.

nel mio piccolissimo. son stato due mesi e mezzo da solo nell'appartamentino. un cazzo a rilassarmi guardando serie tivvvvù. lavorando per ubriacarmi e far passare il tempo. un tempo che mi sembrava sospeso, alterato, straordinario nella normalità del passare dei giorni. mi sentivo al riparo, con quasi la sensazione di vivermela serenamente. un sacco di proposito per il dopo: farò, non posticiperò, festeggerò, ci ritroveremo, ci riabbracceremo, organizzeremo, non perderemo occasioni per creare la scusa del "ci sarà un'altra occasioni". dissi pure: recuperemo tutte le volte che non abbiamo fatto alllammore, ci daremo dentro consumando profilattici come non mai.

un po' me la sono raccontata. un po' ci credevo. un po' era un modo per guardare oltre quella roba lì. che sarebbe finita. ne saremmo usciti. il virus sarebbe stato sconfitto. per quanto si parlasse di vaccino da lì ad un paio di anni. già il vaccino. il viatico per accedere al mondo nuovo, quello del prima, dopo tutto quello. quello in cui avremo fatto tesoro di tutto quello che quel momento di passaggio ci stava suggerendo.

pensavo di vivermela serenamente. invece son stati settimane e mesi segnanti. ho avuto paura, certo che ho avuto paura. con molta sincerità: non l'ho avuta pricipalmente per me. pensavo a mia madre. pensavo a tutti coloro che avrebbero potuto finirci dentro con più predisposizione. e poi nel mentre ho percepito, tutte le difficoltà, le sofferenze, le complicazioni di coloro che erano in situazioni meno agevoli delle mie. chi non lavorava, chi era costretto a farlo in una qualche forma di presenza, la fatica di studenti e insegnanti, chi condivideva spazi più o meno angusti. gli anziani nelle case di riposo, gli ospiti di variegati istituti di cura, le carceri: tutta umanità chiusa dentro, nessun contatto con gli affetti esterni. i morti, i lutti e i saluti negati, quando anche il funerale era pericoloso celebrare. e tutto quello che stavano vivendo medici ed infermieri sulla frontiera di quel mondo sottosopra.

ho provato a non rimanere indifferente, dal sicuro del mio piccolo privilegio. ma ne sono stato travolto emotivamente. credo di aver vissuto uno stress per interposto ascoltare, leggere, provare ad informarmi. e probabilmente ho vissuto [e non so ancora quanto sia finita 'sta cosa], una specie di ptss - sindrome da stress post traumatica. in trentaduesimi, ovvio. con tutto il rispetto chi la subisce e l'ha subita appieno per tutto. ma comunque un qualcosa di simile mi ha travolto. la buttai lì una volta ad odg. solitamente quando uso termini tecnici in modo improprio mi cazzia - in modalità soft, ovvio, a suo modo. quella volta abbasso rapida le palpebre, chinando appena il capo: la sua modalità di farmi capire - durante il mio flusso di coscienza - che probabilmente ci avevo preso.

ci son stati mesi in cui ripensando ad alcuni momenti, ad alcune sensazioni, la voce mi si incrinava, mi commuovevo. specie pensando a quel che han dovuto vivere - appunto - infermieri e medici. un paio di volte mentre parlavo parlando di loro. quando la mia amica francesca, pediatra, mi chiamò per il compleanno del mezzo secolo: mi disse tra l'altro fosse appena stata vaccinata, e la viveva come un privilegio che non era certa di meritare. macché privilegio - le risposi - con tutto quello che avete e state passando. ma non riuscii a finire la frase. un'altra volta con l'augusto professore, sul terrazzino mentre tramontava il sole, la voce mi si strozzò in gola, di colpo. e non riuscii a trattenere qualche lagrima. forse financo imbarazzo del mio ospite. [mica son tutti come odg, che è ben stata abituata a vedermi così].

già. poi ci sarebbe in effetti la questione del vaccino. che è tutt'altra storia. specie per il bias verso le paranoidi no-vacse.

ho ascoltato. ho letto. ho provato a ragionarci. e soprattutto abbiamo osservato l'effetto che ha fatto. quello che credo di aver capito è piuttosto semplice. è stato fatto tutto in maniera ineccepibile? no, inevitabilmente. [a partire dalla chiave di lettura dell'amico massimo, geniale a suo modo: bisognava andare in produzione il prima possibile, non c'erano cazzi. la copertura del testware era completa, fatta al meglio, ottimale? mancopppoucazz. però bisognava rilasciare in produzione, non c'erano cazzi. lo si è fatto correndo dei rischi]. ci hanno speculato sopra? certo, è il capitalismo rapace. alcune aziende son state coperte da lenzuolate di finanziamenti pubblici, col cazzo poi la condivisione dei brevetti, quindi hanno fatto gazziGlioni loro? sì, certo. ci son state reazioni avverse anche serie, financo mortali? sì, come per ogni farmaco.

avevamo alternative? no! alla quasi totalità dell'umanità che vi ha acceduto ha detto bene. e ne siamo usciti.

sono state fatte forzature sui singoli, sulle individualità, sul cittadino, per portare a far vaccinare quante più persone possibili? certo. è stato per il bene della globalità.

ed è su questa dicotomia si determina la rottura. il bene comune che viene prima delle forzature sull'individualità. anche se ci sono una moltitudine di individualità che lo contestano. ma per fortuna è stato deciso venisse prima il bene comune, che viene ancora più prima delle confutazioni. e che non ci sia la controprova è stata una fortuna per tutte e tutti: anche chi ha confutato, con molta veemenza e vibrante protesta [eufemismo].

poi nel piccolissimo ho riverberato anche per quello. con alcni affetti svaporati. però non riesco [più?] ad avere a che fare con il pensiero paranoide [tecnicamente]. che figurarsi se lo giudico, neh? sarebbe come giudicare un diabetico, un depresso, un cardiopatico. però me voglio star lontano. e l'allontamento è un altro [piccolo] lutto, col [piccolo] trauma e il [piccolo] stress che ne consegue. però serve anche a ripararsi dal riflusso melmoso che ti arriva da quel pensiero: apri gli occhi [maiuscolo, per gridarlo], non capisci, sei obnubilato, devi agire con senso critico. ed il misconoscimento conseguente dalla tua intelligenza, della tua onestà intellettuale. ci si allontana anche per evitare di ricevere suggestioni la qualunque per farti cambiare idea, non ostante avessi chiesto di non farlo. che la lettura critica della complessità non la voglio imporre, ma pretendo non me la si imponga. mi sono fatto coinvolgere emotivamente. poche difese rispetto a chi quella realtà l'ha rimossa. che poi è un modo difendersi dalla complessità della realtà, il più delle volte molto poco conscia. [non percepisco questa pandemia così pericolosa come la raccontano, quindi non mi vaccinerò. cit.]

quindi, accalorato un cazzo.

ecco.

la pandemia non è finita, è roba endemica. ma è stato decretato la fine dello stato di emergenza globale. che comunque è molto meglio di come eravamo messi prima iniziasse il tutto. senza scordare i venti milioni di morti che si stimano essere quelli collegati direttamente [al netto del puntacazzismo, capzioso, surrettizio, ed anche un po' squallido suvvia, della differenza tra quelli morti con piuttosto di covid19].

ripenso ogni tanto al ex-ante. a volte la memoria fa scherzi di cosa succedeva prima. quando eravamo felici e non lo sapevamo, mi scappa anche di pensare.

ora che ne siamo al di qua - fuori chissà per quanto - mi sovvengono le differenze, appunto, col prima.

che da un certo punto di vista me la sono financo svangata più che da privilegiato. come in un sacco di altre situazioni, peraltro.

però certo che pezzi di reliqui me li porto dentro. come tutte e tutti, del resto. anche se, si sa, per un pezzo per me c'è voluta la sertralina. che le cose fossero correlate mi sembra una banalità quasi tautologica.

quell'eco di quella paura sottile, non ostante fossi ben più al riparo di una fottia di altre situazioni.

il riverbero di certe relazioni segnate con un colpo di accetta. come quando colpisci il tocco legno normalmente alle fibre. il rinculo è tremendo. se si spezza le due metà schizzano in modo imprevedibile e pericoloso. se non si spezza il segno del colpo è lacero, come dar forma al dolore.

la speranza di allora di riallaciare relazioni allontanate, complicate dalla lunga coda del far fatica a relazionarmi, ostracizzate dagli aculei del mio irsutismo così accresciuto. che a far fuori persone [relazionalmente, ovvio] ormai è un attimo. fatica e ostracismo: non esattamente un invito. con quelle già in essere, figurarsi quelle nuove. proprio ora, peraltro, che sembrerebbe essere venuto il momento di ritesserne altre, considerata la mia rete sociale avvizzita e sfilacciata. tipo quelle abbandonate sulla spiaggia, la salsedine, la sabbia il vento a farne brandelli.

l'emergenza è quindi ufficialmente finita. ne eravamo già abbastanza fuori tutte e tutti. cosa ci lascia dentro, forse, lo sa in parte ciascuno di noi. non ne siamo usciti migliori. ne siamo usciti diversi: chi più provato, chi meno, chi con più consapevolezze, chi con la necessità di rimuovere. siamo tocchi di umanità, quindi esseri complessi, finiti dentro una funzione di trasferimento complessa. ovvio che ne esca un gran casino.

l'emergenza è ufficialmente finita. siamo ormai immuni. personalmente non so se gli effetti termineranno mai. faccio più fatica di prima a far alcune cose, quando già non brillavo per. non so quanto fossi felice prima. non so quanto potrò mai comunque esserlo di nuovo.

anche se la felicità, forse, è un sentimento sopravvalutato.

ma un qualche senso, per cercar cose nuove, lo si può sempre continuare a trovare. non ostante tutto. appunto, noi siamo ben oltre quel nonostante.

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