oggi sono dieci anni che sono là dentro. a volerla guardare oltre, è anche una delle tante declinazioni del fatto che solo gli idioti non cambiano mai e per nulla idea.
non ci volevo andare, là dentro. troppo il senso di fallimento per l'aziendinadellaminchia che si era trascinata giù un po' tutto: a cominciare dall'autostima. troppo il fastidio all'idea di trovarmi invischiato in situazioni da pettegolezzo alla macchina del caffè delle aziende grandi. troppo deluso ma spocchioso: un lavoro da sotto-informatico, noi che gli informatici [ingegneri, figurarsi gli altri] li guardavamo dall'alto al basso. troppo naif per l'idea che qualcuno conculcasse il mio tempo, in modo ratificato e duraturo.
non ci volevo andare.
poi la viburna, il nonnetto putativo, l'amico omar mi dissero di non fare il pirla. ognuno a suo modo, ovvio, anche se l'amico omar mi disse proprio: se non accetti sei proprio un pirla. loro in combutta con i brandelli sparsi del mio buonsenso, ad indicarmi la cosa giusta da fare, talmente ovvia che ci ho pure ragionato sopra. ah, beh, sì, poi ovviamente anche il mio conto in banca, tecnicamente ben al di sotto dello zero per svariate migliaia di eurI. era un pungolo orgoglioso, anche se con declinazioni pratiche nulle: la creditrice era matreme, che nemmeno li voleva indietro. ma era un pungolo che mi rodeva assaje.
odg si premurò di consigliarmi caldamente una seduta la sera del venerdì, al termine della prima settimana, cosa rara per lei, il venerdì. poi in quei primissimi giorni accadde anche altro, di molto tragico, la malattia si era portata via una ragazza di ventisette anni, legata alla vita professionale e amicizie tossiche che avevo sfanculato, con rabbia, mesi prima. entrai nello studio, non feci quasi tempo a sedermi, cominciai a piangere, semplicemente come l'unica cosa mi riuscisse di fare in quel momento, senza esser capace di smettere. "immaginavo avrebbe potuto aver bisogno di confrontarsi" mi disse. quando uscii, frastornato da tutta quella commozione e tensione che avevo liberato in un amen, mi resi plasticamente conto di come il uichend, di colpo, assumesse un'aura del tutto nuova. di fatto mai provata. la sera prima di iniziare la seconda settimana fui colto da momenti di angoscia.
poi quando vidi pagata la prima fattura mi vennero altre lagrime, diverse quelle. in un mese, pur azzoppato dalle giornate di festa, avevo guadagnato come l'ultimo anno e mezzo.
cominciò così, là dentro. una nuova vita. durissima, all'inizio. dura anche per come ero messo: sfiduciato, ribaltato, smarrito. e poi sì, ovvio, anche a causa la mia capadicazzo.
per mesi, ogni sera, mi chiedevo se fossi tornato lì il giorno dopo. c'era il pensiero salvacondotto che mi tenevo nel cantuccio, quello che mi ricordava: puoi semplicemente consegnare il badge con il cordoncino bianco, e te ne vai. bye bye.
ho avuto in antipatia per tanto di quel tempo, tante di quelle persone, che sarebbero uscite fuori squadre per campionati di quantomistatesuicoglioni che levati. il mio responsabile, allora, capitano di molte compagini.
per svariati trimestri, da saccente, ho considerato dei minus habens una quantità importante di quelli che nemmeno mi veniva di chiamare colleghi. alcuni dei pochi altri erano invece dissociati o sociopatici o stronzi. se ne salvavano davvero pochissimi. pensavo, per darmi un tono interiore: voi non avete idea dei cazzo di corsi che ho seguito all'università, e mi riduco a fare queste stronzate qui.
però tutto con il sorriso sulle labbra e la cortesia nel pormi a chi non mi si poneva sgarbato.
'sta cosa mi ha un po' disorientato da subito. riuscivo bene in cose che non mi sarei aspettato, pur facendomi cagare la grandissima parte di quelle cose. eppure mi venivano e c'era quasi un imperativo etico a farle al meglio.
così ho cominciato a costruire relazioni a partire dal: ho bisogno di capire questo, dovrei far risolvere un problema in produzione, mi dai una mano? il primo che mi ha ascoltato, con la sensazione lo facesse col cuore e senza fastidio, è stato simone, il dba. è iniziato da lui. ho abbassato le difese, e con lui è venuto naturale. il primo tassello per costruire un mio senso di esserci - tecnicamente- là dentro. non l'ho mai ringraziato abbastanza.
la prima rogna più o meno eclatante fu quando si ruppe l'input simulato. non ne sapevo un cazzo, nel giro di qualche ora sistemai e feci accreditare e addebitare i conti. fu il ghiz a darmi retta e fece alla stragrande il suo, con la disponibilità che là dentro ho trovato in pochi. ancora non capisco la genialata di non tirare a bordo una colonna portante dei sistemi windows come lui. misteri.
così sono passate, appunto, altre vite là dentro. nel senso che si sono susseguite delle personalissime ere. ovvio che poi gran parte di tutto è cambiato. passando anche per quel pomeriggio fondamentale. quando ho capito, compiutamente, l'affetto e la stima del teo. sentendomi anche un po' stronzo ed in colpa, per gli improperi dei primi tempi. una chiacchierata in area relax, con i monitor dei video autopromozionali [quanto siamo fighi, noi, che lavoriamo così qui dentro], testimoni muti di quel che ci siamo raccontati. e di come ha cominciato a cambiare il mio senso di esserci - professionalmente - là dentro. ogni tanto glielo ricordo, è il minimo possa fare.
quando iniziai l'amico alfio mi disse: comincia, fai tre mesi, poi se non ti piace smetti. sono arrivato a centoventi di mesi. ovvio che me lo son fatto piacere. che la fatturazione aiuta, minchia se aiuta, ma solo con questo non avrei resistito così tanto. ed in centoventimesi le cose sono cambiate in maniera quasi radicale.
non tutte, ovvio.
li conto ancora, i mesi. so che appena ci sarà l'occasione di cambiare vita, cambiarla sul serio, lo farò. probabilmente con un senso di grande sollievo. ma so non sarà subito. non ho un mestiere propriamente detto, fuori dall'ICT. le psicopippe, le speculazioni cervellotiche, il ragionare compulsivo non interessano - ovviamente - quasi a nessuno. poi sono gratis. e non ho né la bravura, né l'abilità, né la faccia da culo egotica per farne una professione.
e quindi nello scorrere delle cose, provo a scorrere il fatto che son là dentro, senza lasciarlo perdere. fosse solo per tutta la fatica fatta, anche per [ri]costruirmi. sarebbe da idioti non farla fruttare. anche se non avrei voluto andarci, anche se nella vita avrei voluto essere e fare altro: però ormai sono lì. e tra l'altro [un tra l'altro fondamentale], con alcune delle persone conosciute là dentro, non è più nemmeno d'uopo parlare di colleghe e colleghi. non sono tante, ovvio. ma con costoro si è andati oltre, ci si è trovati, ed è venuto naturale. a volte per delle pure [apparenti] casualità: tipo rispondere ad un call di lavoro in un momento particolare della vita di qualcuno. tutte e tutti loro hanno un significato molto, molto importante. perché, in tutto questo, un qualche senso nell'esserci - umanamente - ci dovrà pur essere. che la forma è mezzo dubitativa per far un po' di teatro. lo so benissimo che c'è. conviene coltivarlo al meglio. è cosa buona et giusta non risparmiarsi in tutto questo. senza dimenticarsi dei privilegi di cui godo, non ostante tutta la fatica.
ora lo so, compiutamente. ci son voluti, tra l'altro, centoventimesi. non esattamente i tempi di uno scaltro e veloce di testa. ma va bene così lo stesso.
proverò a ricordarmene. se poi riesco a stare abbastanza lontano dal burnout, che annichilisce pezzi di speranza, diventa anche più semplice.
domani si ricomincia, là dentro. e fanculo il sunday blues.
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