Tuesday, December 31, 2024

parole/1

quello che non ho, è quel che non mi manca. [cit.]

e la potremmo chiudere qui. è l'autorevolezza dei poeti che può permettersi di condensare senso, bastano poche parole musicali.

è in sintesi sottrattiva. che sottrattiva non è un valore etico. è il modo in cui percepiamo i colori. per dire.

poi c'è tutto quello che è arrivato. specie quello inaspettato. che se sono cose belle, inaspettate, lo sono ancora di più. tutto quello che è arrivato, tutto quello che arriva è sempre lì, a disposizione. un modo per non lasciarlo scivolare via è averne contezza. non è per una smania accumulatrice compulsiva. è per sussumere quante più stille. che ci passano in mezzo, come il flusso oceanoso di neutrini che da miliardi di anni ci attraversa.

averne contezza è riconoscenza.

riconoscenza la mia parola dell'anno.  quella dell'intimo, dell'ombelico che non è ombelicale.

anche in questo caso doppia valenza.

la prima.

riconoscenza è immergersi nel fatto che, alla fin fine, si è sempre in debito con qualcuno, qualcosa. che avremo pure dei crediti, neh? ma sono i debiti di cui è prezioso far tesoro. non è debito che significa fardello, è carico lieve. riconoscenza verso quel qualcuno, quel qualcosa. che vuole indietro niente, magari. perché sono quegli orditi che non sanno che farsene del dare e avere. sono, a posto così. se poi si osserva bene non si può non scorgere la gratitudine. che dovremmo coltivarla ben di più. ne abbiamo tutte le ragioni. siamo privilegiati. riconoscenza è un bel pat-pat col principio di realtà, vieni qui e fatti abbracciare, fottuto principio di realtà. è osservare meglio nel mirino della fotocamera del nostro esserci. che è un po' tutto lì.

basta riconoscerlo.

così che viene la seconda.

riconoscenza come desinenza, sostantivo che si sostanzia del riconoscere. accorgersi. è il pezzo più importante ed interessante del: quando siete felici [o senza esagerare, qualcosa che vi si approssimi] fateci caso. che potrebbe non essere un caso. o forse sì, nel caos in cui sguazziamo, ma potremmo sguazzarci peggio. inondarsi di contezza. che non serve altro che piccole cose. riconoscerlo. uno dei doni della maturità è aver imparato bastino piccoli tocchi. piccole regolazioni micrometriche. quelle con il cacciavitino. come l'equalizzazione che ci permette di ascoltare al meglio la melodia del divenire. piccolissimi aggiustamenti, non serve altro. le movenze dell'artigiano esperto agiscono l'essenza, sono misurate. ci ha distillato la moltitudine dei gesti di una vita. riconoscere. è già tutto lì.

e poi, perché no: riconoscerci. ci può accorgere di cose nuove. forse erano lì già da prima. forse sono divenute. riconoscenza è anche nel riconoscersi.

certo. certo. poi ci sono pure i cazzi. e chi se lo scorda. fosse tutto così melassosamente piiiiendlooov saremmo fuori dal principio di realtà, il nuovo amico. ma i cazzi capitano. e di quello ci accorgiamo fin troppo facilmente. e tanto vengono da par loro.

è il resto. tutto quello che non sono cazzi. riconoscenza, e abilità nel riconoscere. spesso non è necessario aggiungere alcunché. a posto così. perché se si sta ben bene attenti, riconoscenti, a ciò che arriva diventa esercizio inutile ruminare su quello che non è arrivato. gran fatica, energia sprecata, anche no. un po' s'invecchia. un po' è il gesto dell'artigiano esperto. i rapaci  sfruttano i flussi ascensionali, poco mulinare di ali.

quello che non ho, è quel che non mi manca.

quello che non è stato, quello che non è dato, è un buffo sul nulla, appunto. c'è tutto quello che invece è arrivato, arriva, c'è. [grandissima chicca di odg, nella parte finale d'autunno. sei già tutto lì. riconoscilo]. ben più circostanziato e, soprattutto, sostanziato. è la farina, l'acqua, il lievito con cui si fa l'impasto. affondarci le mani.

riconoscerlo è uno regali più belli ci si riesca a fare. non può che sgorgarne riconoscenza.

portiamocela appresso tutta, anche nell'anno nuovo. me lo auguro. lo auguro.

Monday, December 30, 2024

parole/2

il mondo non è messo benissimo. che roba assertiva, neh? temo reggerebbe a svariati tentativi di smentita. poi, ovvio, è sempre una questione relativa. potrebbe andare molto peggio. come e quanto ci sarebbe solo da sbizzarrirsi. però il mondo non è messo benissimo. vero. mondo è un po' vago. oppure lo si può declinare in molti mo[n]di diversi. così diventa un poco meno vago. poco, ma almeno non è tutto e nulla assieme.

mondo come la nostra civiltà occidentale. mondo come gli altri mondi che bussano, knock-knock, alle nostre porte. mica tanto quelle del paradiso. mondo come ecosistema che genera effetti sulla biosfera. ecco, questo forse non è messo così male. semplicemente agisce in funzione di quello che stiamo adoperandoci noi, noi antropici intendo. piccola fetta di biosfera, però gran casinara e devastatrice. l'ecosistema mondo sopravviverà comunque. al limite qualche effetto più o meno massa-estinguente su di noi. noi antropici dico.

il mondo non è messo benissimo. e dubito che tra un anno, se ci sarà ancora questo blogghettino, ci si potrà scrivere: è stata invece tutta una gran figata. certo. potrebbero hackerarmi il blog. e così scriverci la qualunque. oppure potrei rincoglionirmi del tutto.

il mondo non è messo benissimo. come e quanto si potrebbe dare il la alle danze distopiche. e così ne uscirebbero scenari più o meno variegati. una roba da pollock. può essere che in parte ci si prenderà. in parte sarà peggio. in parte sarà meglio. dovessi scommettere un paio di copechi non punterei troppo sul meglio.

le prime due-tre cose mi vengono in mente. 

l'effetto della ri-edizione di dedonald-pannocchia. effetto nell'occidente cui apparteniamo. si è visto cosa è riuscito a fare al primo giro. ora che è ringalluzzito potrebbero sprigionarsi fuochi mefitici. con l'amico talmente ricco e solipsista che pensa di potersi comprare mezza galassia. [magari scazzeranno. gli ego gigaipertrofici hanno problemi a confrontarsi con dei loro simili. chissà cosa potrebbe succedere, scazzassero].

l'involuzione, in europa, per il gran sfavillio di tutte le istanze nazionaliste. che questi vanno d'amore e d'accordo nel dargli ai poteri forti, alle sinistre, a soros, alla mondializzazione, che al mercato mio padre comprò. poi scopriranno che il nazionalismo giusto è solo quello della loro propria nazionalità, di ciascheduno. c'è sempre qualcuno più nazionalista di altri. e scazzeranno.

del riscaldamento globale e degli stravolgimenti demografici che arriveranno mi fermo qui. non siamo pronti, non ci stanno preparando. sarà complicato, terribilmente.

la sensazione stiamo disgregando il concetto di democrazia compiuta matura. roba faticosa, siamo stanchi o svogliati. meglio qualcuno che decida più o meno per tutte e tutti. democrazia, stato di diritto: roba che sa di vecchio, si sgretola via. assieme alla [già scarsina] autorevolezza gli organismi sovranazionali. che si affannino per chi ha il culo al caldo e non troppa paura del domani. mentre qui siamo un po' tanto spaventatini. che sia oggettivo, lo spaventatinismo, o meno. la pancia ha la sua fottuta importanza.

è come se ci stessimo dimenticando delle catastrofi passate. che avevano dato il la a tutta quella serie di azioni, intenti, desideri, strutture per far sì non tornassero più. ed ora c'è una specie di amnesia di ritorno. e c'è 'sta voglia della lisergia delle cose nuove che s'approssimano. proviamole.

figurarsi che nel mio piccolissimo pensavo si proseguisse diretti, per la geodetica, verso le magnifiche sorti e progressive. che già da quando lo scrisse, di tornanti a tornare un po' indietro ce ne sono ben stati. tornate a tornare dolorose, molto dolorose. perché non dovrebbe accadere ora? non è una strada spianata. credo si stia formando un bell'ingorgo. e che si pensi che la soluzione sia uscire dalle auto bloccate con il crick in mano. già se succedesse da noi, in europa, abbiamo almeno una dozzina di secoli a ricordarci di cosa siamo capaci.

ecco perché baluginio, nello sguardo alto e altro. quello ben oltre l'ombelico di ciascheduno.

baluginio. doppia valenza.

quel soffio di luce che tremola dolce, è perché si sta spegnendo qualcosa? e chissà cosa succederà quando saremo al buio, per quanto figurato. sono gli ultimi bagliori senza più convinzione e poi, puff, più nulla? e cosa troveremo in quel nulla sarà tutto da scoprire. l'ordito che ne sarà ci impiglierà, e districarsi sarà faticoso, almeno tanto quanto doloroso? non occorre che accada per forza a qualcuno di noi. specificatamente tu e tu, ed anche tu che passi di qua. se tocchi di umanità passeranno in quel fortunale, non si può ignorarlo del tutto. o forse sì. è il buio che avanza. gli ultimi baluginii della piccola fiamma.

oppure.

quel tremolo di luce che soffia dolce, è perché rimane comunque qualcosa? quei tizzoni sotto la cenere che non riescono più, ormai, a spegnersi. perché ce l'hanno dentro abbastanza, abbastanza persone. non è per far gli snob. ma sono le avanguardie. quelli che la strada la aprono. [ricordo appppalla di questo preciso momento. l'amico luca e l'amico daniele che affondano nella neve fino alla coscia, acciocché l'amico di gomma, la fidanzata di lui di allora, ed io si possa avanzare verso le biuse, con meno fatica. uno dei capodanni più belli ricordi in assoluto]. non è detto che l'avanguardia sia per forza qualcuno di noi. specificatamente tu o tu, oppure tu che passi di qua. però qualcuno può esserci lì fuori. la piccola fiamma che balugina.

io sono un po' stanchino. e ci si fa vecchi. che abbia vissuto quanto tipo poco più di un ventenne non c'entra. o forse sì, c'entra. è più semplice riconnettersi a quell'utopista svarvolato che fui. si voleva salvare il mondo, l'amico daniele ed io. mi accontento di molto, molto meno. non fosse altro per la vigorosa stretta di mano scambiata col principio di realtà.

eppure. eppure. eppure.

eppur balugina.

e comunque, nel mio piccolissimo, che è un ombelicale buono, illumina la prima parola.

riconoscenza.

Sunday, December 29, 2024

parole/0

il bacchetta qualche giorno fa ha buttato lì il giochetto della parola dell'anno. la parola per ciascun ascoltatrice e ascoltatore. la sintesi, simbolica, che è sineddoche o metonimia [come mi piace 'sta cosa della parte per il tutto]. direi che come spiegazione non serve aggiungere altro.

al solito, alle suggestioni del bacchetta corrispondono effetti variegati. di cosa ne è uscito, però, non ho ricordi distinti. lavoravo più denso del solito. o forse pochi tratteggi di cose così originali. quelle che deviano l'attenzione verso di loro, anche se si lavora più denso del solito. 

ci sono altre persone che ascoltano il bacchetta. anzi. prima gli stava anche un po' sul piloro. ora è curiosa di vedere com'è fatto. alto, dinoccolato, le ho detto. così mi ha chiesto: qual è la tua parola dell'anno?

io non ho saputo rispondere subito. come se la testa, il ruminare dei pensieri, dovessero finire altro. cosa non so. sono bizzosi, a volte. come l'attenzione della gatta, il decidere di farsi coccolare: quando le va. altrimenti ciccia. così non ho saputo rispondere subito.

non so se ci ho pensato apposta, non credo. però ad un certo punto ne sono uscite due. come avessero fatto un giro tutto loro, senza che io ci badassi. e poi me le sono trovate lì, accanto, come recapitate dalla posta pneumatica.

la prima parola è quella più dell'ombelico. che però 'sta volta ombelico non ha un'accezione per forza negativa. che la parola riguarda me medesimo, vero. ma si sostanzia osservando quel che [mi] succede appena oltre. che mi riguarda, certo. e che è il caso riguardi per bene.

la seconda parola è quella dell'altro sguardo. lì l'ombelico non c'entra proprio più per nulla. non è solo guardarci oltre. è provare ad odorare lo spazio immenso che percepisco attorno.

quella persona mi ha detto, sei verboso. la parola doveva essere una. vero. solo che me ne sono state recapitate due. vai a capirli i pensieri che fanno i giri loro. che faccio le butto? no. ma non fare il permaloso, che un po' lo sei. vero. però ci sto lavorando. già fatto un bel po' di strada. poi se non c'è giudizio, o tentativo di spiegare come stare al mondo va bene. avresti dovuto osservarla prima, la mia permalosità.

la sua non era una cazziata. tanto che si è presa la libertà di buttarla sul lieve. mi piace quando le cose d'adagiano sul lieve. una cosa tipo che è l'effetto di una carezza. oppure del più casto dei baci. a volte son situazioni che prendono la via delle cose inevitabili. però si portano appresso la sorpresa di quello che non ti aspetti.

e comunque è guerra. la sua parola, intendo. era [anche] per questo l'occhietto con la luce un po' fievole dentro. è stato un refolo freddino. che se la luce è fievole il calore può attardarsi da altre parti. mi è spiaciuto, la sua parola, dico. è stato più significativo starle vicino. come a rendere qualcosa, senza spiegare. non serve. e poi c'era un addentellato con una delle mie parole.

già. non dimentichiamolo.

io avevo le mie due. verboso che non son altro.

quella dell'ombelico, però un ombelico non ombelicale.

e quella dello spazio altro, ampio.

comincerò dalla seconda.

baluginio.

Saturday, December 28, 2024

genocidi

questo è un post che mi gira in testa da tempo. credo ne verrà fuori qualcosa di indistinto e poco chiaro.

oltre al fatto si potrebbe intitolare: semi-dotte disquisizioni, da quasi tinello buono, al caldo ed al sicuro.

perché io, come chi legge, mica è sotto le bombe, al freddo, con a disposizione un terzo delle calorie necessarie al giorno - quelle minime - e costretto a spostarsi quando arrivano ordini di evacuazione di un esercito occupante. in fondo, ai gazawi, aver contezza si tratti di un genocidio o meno credo importi poco. intuisco che il pensiero precipuo sia arrivare vivi domani. intuisco, lo faccio con pudore, quasi vergognandomi.

personalmente non ho mai usato la parola genocidio. quanto meno non ancora. a guardarla da una parte: estigrandissssimicazzi. però è un post di disquisizione dotto per un quarto, e forse un po' inutile.

genocidio è usato da molti. la maggior parte con una dose di militanza variegata. è usato - credo - come clava retorica verso israele. non so quanto verso il solo governo di quello stato. non so quanto verso gli ebrei di tutto il mondo, più o meno. li si accusa dell'indicibile: perpetrare quello che loro stessi hanno subito, ponendoli pari pari a chi eseguì l'indicibile. sarà pure retorica, ma è la clava più infamante verso di loro. immagino non si usi il termine nazisti, perché in quel caso il controsenso logico sarebbe davvero irriducibile.

basta genocidio, però. tanto che i fascisti - laici o religiosi siano - che governo quel paese ribattano con l'accusa di antisemitismo. da quei governanti fascisti in giù. antisemiti, chi li accusa di agire come coloro che gli ebrei volevano sterminarli. e così si chiude una specie di cortocircuito.

mi tiro [parzialmente] fuori. genocidio come l'accusa più infamante - pur non agendo violenza. antisemitismo per infangare chiunque non stia - acriticamente - verso chi agisce quella violenza terribile. per questo il tirarsi fuori è solo parziale.

è poi vero. la corte penale internazionale sta valutando l'accusa di genocidio. perché ne esiste una definizione giuridica. forse è una disquisizione in punta di diritto - per quanto ai gazawi credo interessi poco. sono state definite le caratteristiche di cos'è un genocidio. e negli ultimi decenni se ne sono perpetrati diversi: genocidi. è stato necessario per stabilire, se possibile, cosa può essere raffrontabile al genocidio. quello nel bel mezzo dell'europa cristiana e illuminata.

quindi si valuta se quello in atto a gaza sia un genocidio, per mezzo di strumenti giuridici, che si sono definiti partendo dall'abominio del genocidio. i dotti chiamati a discernerne discutono e discernono. pezzi importanti di umanità scandalizzati usano genocidio come l'accusa più infamante. i fascisti al governo di israele disconoscono qualsiasi organizzazione sovranazionale e tacciano chiunque non sia con loro di antisemitismo. mentre i gazawi muoiono: sotto le bombe, di stenti, e chissà quante generazioni ricorderanno quest'altra nakba. dovrebbe importare solo questa cosa qui. a culo tutto il resto.

senza dimenticare il pogrom del sette di ottobre - poiché non è da dimenticare - tutto il resto è andato tragicamente troppo oltre. non è solo diritto di difesa, a cominciare dal raffronto del numero dei morti e le devastazioni attorno.

non ho [ancora] mai usato il termine genocidio. non lo sento usare da [praticamente] nessuno tra gli operatori dell'informazione. non credo sia solo una questione di appiattimento, che nel mainstriiiim c'è, eccome se c'è. che israele non si può criticare: un po' code di paglia, un po' scelta diplomatica, un po' propaganda interna vergognosa. credo non si usi anche perché le parole sono importanti. queste parole poi.

e di parole ne abbiamo altre, per raccontare l'indicibile che sta succedendo laggiù. a cominciare da: crimini contro l'umanità, crimini di guerra. anche se le parole non sembrano bastare più, gli aggettivi sono finiti. per quello che riguarda la condizione di quell'umanità prigioniera in quel fazzoletto di terra. sono passati quattrocento giorni di guerra. ne erano passati qualche diecina e la situazione sanitaria, alimentare, di vita erano già disperate, catastrofiche, al collasso, infernali. cosa può essere dopo tutto questo, è come se si fosse afoni. finite la parole.

senza che se ne veda la fine. non ancora. con quasi la sindrome da assuefazione. un po' è autoprotezione, un po' osservare senza girare comunque lo sguardo, che sembra l'unica cosa si possa fare.

non so se sia genocidio o meno. si annichilisce l'umanità anche senza genocidi. si agisce l'ingiustizia nel modo più dis-umano senza che qualche tribunale giunga a ratificarlo. poi rimarrà il nome della storia di questi carnefici. per come hanno calpestato la dignità di quasi un paio di milioni di persone innocenti. ci fosse un dio, cui questi criminali dovessero rendere conto.

dubito ci sia, e la resa dei conti sarebbe già troppo in là. basterebbe rendessero conto alla giustizia degli uomini.

non uso il termine genocidio. non è nemmeno una questione di disquisizione dotta per un ottavo. ma che finisca il sacrificio di quelle povere persone. sono tutte noi. siamo semplicemente nati in un posto meno afflitto dalle ingiustizie costruite dall'uomo. hanno già pagato un prezzo troppo alto. lo era già dopo un giorno di guerra. ne sono passati quattrocento. senza che se ne veda la fine.

Friday, December 27, 2024

carceri

nel duemilaventiquattro si sono suicidati 88 detenuti. è quasi l,5 per mille della popolazione carceraria. il tasso medio in italia nel 2019 era 0,08 per mille. in carcere ci si suicida quasi venti volte di più. venti. per non dire degli atti di autolesionismo. per fare un raffronto: è come se dall'inizio dell'anno, nella mia hometown, si fossero suicidate 7 persone. se si fa un confronto con le località più piccole, dove magari ci si conosce un po' tutte e tutti, il dato emerge nella sua cruda fattualità. perché se nella mia hometown di cinquemila anime, dall'inizio dell'anno, si fossero suicidate 7 persone, un qualche dibattito, punto di attenzione, ragionamento, si sarebbe pur fatto.

invece sono carcerati. non dico: a posto così, ma quasi.

il tasso di sovraffollamento è del 132%. là dove dovrebbero starci 10 detenuti, ce ne stanno 13. 

dice: vabbhè, staranno un po' più stretti. eh. ma il fatto è che si sta un po' più stretti in un luoghi non esattamente ameni, confortevoli, coibentati, dove si può star al caldo d'inverno e al fresco d'estate. ed è comunque una media. se ci son posti dove son giusti, ce ne sono altri dove si sta quasi al doppio. 

dice: eh, vabbhè, il carcere sarà mica un albergo di lusso, se la gente ci finisce è perché se l'è ben meritata.

il fatto è che, se ce lo si è ben meritati, la pena sarebbe quella della privazione della libertà. che non è cosa così, da poco più che un buffetto. in milleventiquattresimi lo abbiamo sperimentato tutte e tutti, quasi un lustro fa. ce ne dovevamo stare in casa a causa di una pandemia. alla lunga non è esattamente una cosa piacevolissima. pur con tutte le comodità che, più o meno, ciascheduno ci aveva: serie tv comprese. e passarsela in un basso napoletano, non sarà stata la stessa cosa che in una casa spaziosa con ampio giardino [nel piccolissimo: matreme l'ha vissuta meglio di me. e va bene così].

la pena è la privazione della libertà: dirimente quanto semplice. tanto semplice che la capisce anche un parlamentare di forza italia, per dire. ogni aggravio è roba non degna di una civiltà giuridica matura. tutto quello che porta a qualsiasi forma di degradazione è una sconfitta, grande, piccola, dello stato di diritto. non c'è solo quello, ovvio: ma proprio perché sono persone detenute - private della libertà - per conto di uno stato, questo è più importante di quello che solitamente siamo portati a pensare. una qualche ragione ce l'avrà l'asserzione che vede direttamente proporzionali la dignità dei luoghi di detenzione dei carcerati, con quella dello stato responsabile di quelle carceri.

dice. eh, facile parlare così, te radicalscic della minchia, che non hai mai subito un torto tale per cui uno dovrebbe star in gattabuia. vediamo se anche a te, nel caso, non verrebbe voglia di buttar via la chiave. può essere, e non vorrei nemmeno verificarlo pragmaticamente. a posto così. ma il punto è che l'idea di voler buttar via la chiave può essere una reazione, comprensibile, di qualcuno che ha subito un torto, privata e puntuale. è quella più semplice. ma è una risposta sbagliata, in una visione collettiva e pubblica, prendendo come paradigma il convivere civile, regolato e rappresentato dall'istituzione che ci trascende. 

gli scellerati che ci governano vanno nella direzione abbastanza opposta. lo fanno per pungere la pancia delle persone, che non attende altro di essere punzecchiata. non lo dicono esplicitamente nei modi ufficiali e formali. ma è uno stillicidio iniziato un paio d'anni fa. qualunque problema per cui è prevista una sanzione o pena lo si affronta comunque in un modo: aumentandole. nessuna o pochissima prevenzione. fondamentale mostrare la maggiore severità possibile. illudendosi di dissuadere [ma qualsiasi studio serio puntualizzerà che l'aumento della pena non genera deterrenza], un po' per far la faccia inflessibile e pugnace, un po' per scaricare, quando capita, la questione nel carcere. in prigione, in prigione, e che ti serva da lezione. ovviamente facendo i forti con i deboli, più pisciasotto con i forti.

con le condizioni attuali è un qualcosa che si fa anticostituzionale di fatto: la pena e la detenzione deve essere rieducativa. con lo stato delle cose è un modo per scaricare un gran numero di ultimi. per quanto mica non lo sappiamo che là dentro non abbondano i galantuomini. ci sono terroristi, mafiosi, omicidi [tra cui autori di femminicidi], violentatori e abusanti di minori, spacciatori, ladri, violenti. oltre una grande quantità di umanità che è finita abbastanza in basso nelle varie scale sociali. ed il carcere è un posto che ci mette del gran suo per sostanziare, dandogli luogo, i gradini più bassi della società. da cui è piuttosto difficile risalire [eufemismo].

gherardo colombo [uno per cui lo stato è piuttosto in debito di riconoscenza, per quel che ha fatto durante la sua carriera] si dimise qualche anno fa dalla magistratura. l'ho sentito più volte ribadire che la scelta fu dovuta anche al prendere coscienza di come il carcere non sia la soluzione, che andrebbe abolito. mi piacerebbe ascoltarlo motivare una presa di posizione così netta. non so se giungerei ad essere appieno d'accordo con lui. di sicuro approccia alla questione in maniera diametralmente opposta ai figuri che ci governano. ribalta il punto di vista della stragrande maggioranza delle persone per cui è sacrosanto l'occhio per occhio. quindi, tecnicamente, propone idee che fanno progredire l'intelligenza collettiva, strutturano in meglio l'ethos civile. e di conseguenza porta a ri-umanizzare chi là dentro ci è finito: sia per motivi strameritati, sia come effetto di bordo della compulsione sempre più castigante, sia per rimpalli che possono avvinghiarti quando si finisce ai margini della società. è pur sempre umanità. che ha sbagliato, che può aver fatto soffrire persone che proprio non lo meritavano. ma umanità rimane. e negarne dei pezzi, di umanità, non restituisce comunque giustizia alle vittime.

far finta di dimenticarsene, collettivamente, è scartare parecchi passi indietro. che fottasega agli inetti che ci governano è una plastica, inevitabile conseguenza. quando non una perfida volontà di bassa propaganda.

dice: com'è 'sta cosa che ti interessa di carceri, per quanto in un post della minchia. in fondo a te, che te fotte delle condizioni dei carcerati? stattene col culo al caldo e goditelo.

non ho una risposta precisa. forse è la storia che in gran parte è umanità che sta sul fondo, ci è finita, e non la risale mica tanto. forse è una forma di ingiustizia che non ripara le ingiustizie che costoro hanno provocato, grandi o piccoli che fossero. forse perché, col culo al caldo, viene più facile alzare lo sguardo dal proprio ombelico. e si vede anche questo.

cose così.

[se poi qualcuno volesse leggere cose scritte meglio c'è il report di fine anno di antigone]

Wednesday, December 25, 2024

natali

l'anno precedente non era stato possibile. mancava l'investitura ufficiale della prima uscita. sarebbe avvenuta solo un paio di settimane dopo, ma non c'era ancora il crisma. quindi non si era autorizzati a parteciparvi. ci andò il pozzi, con il suo corno francese. e l'aldo, raccontarono, lo coprì di insulti, per quanto è possibile che l'aldo non fosse neppure  presente. solo lui, però, aveva facoltà di decidere se e quando. quindi il pozzi non doveva permettersi di farlo, lui ed il suo corno francese, senza il benestare dell'aldo. per fortuna non ci andai, pensai a suo tempo, sarebbe stato umiliante essere ripreso. sai che vergogna, quale onta.

quindi nessuna sbandellata la notte di natale per le vie del borgo. quelle in cui si cominciava appena dopo cena, ed era tutto un tappeggiare, entro e fuori quegli usci che si aprivano per accogliere la bandella natalizia. un bicchiere di vino, una fetta di panettone, anche se preferivo il pandoro, a quei tempi. sapevo già suonare, savasaandiirr, tutti i brani natalizi venivano proposti. li sapevo suonare da un pezzo. ma non ci andai, l'aldo non avrebbe voluto.

di lì a pochi giorni, nel nuovo anno, alla festa del paese, si fece la prima uscita ufficiale in banda. così l'aldo ne fece debuttare altri sette, della sua già lunga carriera di insegnante di musica, nonché bizzoso maestro della banda. allora i ruoli coincidevano, necessariamente, quello offriva il paesello. mi intimoriva come insegnante, cercavo di non farmi notare come bandista. non so quanto gli piacessi - per quanto diceva di me ci sapessi fare, sempre roba riportata. non ci saremmo mai presi. quando debuttammo conoscevamo tre marce del repertorio, oltre l'inno alla pietà, sennò come avremmo potuto uscire in quell'occasione. per due giorni suonammo solo quelle tre marce, oltre l'inno della processione, ovvio. la versione in fa maggiore - per noi - che solo l'anno dopo venne abbassata di un tono, che la gente in chiesa non riesce ad arrivare al mib del "saaaaalga" nel "de salga a te del/dal popolo, l'inno che non morrà" [ancora oggi non so quale sia la preposizione corretta: del oppure dal, come probabilmente il 98% dei compaesani].

ma sto divagando.

dicevo. l'anno prima non era stato possibile. quindi, ormai bandista da undici mesi, non vedevo l'ora arrivasse finalmente il natale. per poi partecipare, finalmente, anche io alla sbandellata della notte di natale. non avrei bevuto, e 'sticazzi [anche se allora, ovviamente, non ne conoscevo il significato e probabilmente non mi avrebbero permesso di usarlo]. importante era esserci in quella bandella, e suonar per i vicoli e godermi quei momenti goliardici, in cui cominciare a far tock-tock al mondo degli adulti. con medesimo diritto ed uguaglianza, quando almeno si suonava. già: non vedevo l'ora. un altro modo per vivere ancora meglio il natale, e quella roba lì accanto. mi piaceva quella festa, e non credo fosse solo per i doni che sarebbero arrivati. capitava pure ci fosse la neve, ogni tanto, allora. mica come ora che è solo nelle pubblicità e nei filmetti sdolcinatini che è un mese che alcuni canali generalisti trasmettono, specie a metà pomeriggio.

il ventiquattro sera del millenovecentottantaquattro ci sarei stato anche io, alla sbandellata natalizia.

il ventitre dicembre del millenovecentottantaquattro, però, vi fu la strage del rapido novecentoquattro. la notizia mi impressionò, ovvio. per quanto non fossi in grado di capirne appieno il senso, nella sesquipedale assurdità cui può apparire ad un tredicenne, anche un po' timido e che non diceva la parolacce. diciamolo pure: un tredicenne un po' nella bambagia, al netto dei voti a scuola e per quel po' di predisposizione per la musica. avrei potuto far la sbandellata anche un anno prima non sfigurando, se l'aldo non avesse posto il veto.

l'ermi disse che non era il caso di sbandellare. quella strage fascista non ci permetteva di farlo. non era proprio cosa. un episodio così grave, fatto in quel modo, a perpetrare una tradizione nera, e noi pensavano di andare in giro a festeggiare il natale, sbandellando? non se ne parlava proprio. lui non ci sarebbe stato, e secondo lui - guardando me - non era il caso ci andasse nessuno.

ma come, cazzo [anche se non lo dissi]: è il primo natale in cui posso esserci anch'io alla sbandellata. lui argomentò sulla gravità della situazione, sulla tragedia, sulle trame eversive. non so quanto ci capii, allora. in casa non si parlava proprio di politica, o nemmeno di un suo lontanissimo succedaneo. le cose correvano, ma noi si era nel bozzolo di quel posto tranquillo dell'hometown. l'eco del mondo arrivava comunque ovattata. e non che ci fosse poi tutta 'sta attenzione. non ultimo gli strumenti, la conoscenza di un tredicenne, per quanto molto sui generis, neh? se particolare o bamboccione non saprei dire, il confine a volte è assai labile.  

poi la sbandellata ci fu. e ci venne anche l'ermi, accanto al quale suonavo da ormai undici mesi. probabilmente nessuno si era posto troppo il problema: si va lo stesso? a parte l'ermi, intendo, che aveva ben messo un punto esclamativo in fondo al: nessuna sbandellata! salvo poi cambiare idea.

non ho ricordi così precisi. ma non credo si sbagliarmi di molto, se penso che sì, fu una cosa bellissima quella sera. a suonare, quasi un pari degli adulti, mentre si veniva accolti nelle varie tappe delle varie case che aprivano l'uscio per noi. a me pandoro, grazie.

e che bel natale. che allora sì che era un festa vera [semicit.].

i ripensamenti, le contraddizioni, gli struggimenti, l'ipocrisia, l'avversione, il timore, lo straniamento, la tristezza mascherata. tutta roba che avrebbe ammantato il natale, ma che sarebbero arrivati qualche anno dopo. le prive rivisitazioni nemmeno dopo molto, osservando dei ragazzi di origine sub-sahariana a vendere accendini fuori da un centro commerciale nel pressi di varese, al margine della visita parenti e cimiteri che si faceva - occasione in cui cercavo di comprar qualche capo di vestiario per me, sempre con la percezione fosse un po' al di là di quel che ci potesse permettere.

appunto.

tutto un caleidoscopio, mash-up di sensazioni in cui son passato in mezzo. esattamente come cambiavano le cose intorno, i contesti. o forse la mia percezione di questi, al cambiare o al sentire di cose dentro di me. a partire dal fatto che poi, la sbandellata la notte di natale, non era più 'sta gran cosa. che mio padre volesse continuare a farla, come nei decenni precedenti era un piacere del tutto suo. a seconda del volgere del mio umore una cosa di cui un po' invidiarlo, oppure compatirlo. un'altra tappa fu il passaggio allo snobismo stronzo, per quanto non obbligatorio, di cattolico rigoroso e praticante. quando pensavo di averne capito il senso profondo, del natale, pur già non sopportandolo più di tanto. anche se la potevo sciacquar via con la storia dell'ipocrisia e dello smarrimento del verso senso cristiano del.

ormai sono anni che natale nun te temo. non credo sia così casuale con il fatto che mi sia un po' centrato. con tutta la fatica per farlo, o la perplessità nell'osservare l'effetto. natale nun te temo perché ho smesso di prenderlo come paravento delle mie incompletezze, tanto meno come grimaldello per tutte le contraddizioni delle cose che non funzionano nel nostro mondo ricco. natale nun te temo perché forse in fondo non lo sto proprio più cacando.

quarantanni dopo di quella strage è tutto ovviamente più chiaro. anche il fatto non furono esattamente i fascisti, per quanto di loro presero il modo. l'ermi pensava, forse, di essere in una propaggine delle stragi nere, mentre si era già nei favolosi anni ottanta. quarantanni dopo quella strage il mondo è cambiato almeno un paio di volte, se non tre. non c'è più l'acme di una strage simile. ora però un annuvolarsi cupo, che va a coprire un po' tutto. roba sottile e pervasiva. con la percezione le cose stiano [anche rotolando] verso lidi nuovi, inesplorati nonché molto bruttini. oltre al fatto si invecchi.

quindi anche non star qui a pensare al natale, che nun te temo.

oppure che si è fatto pace. per quanto il natale di guerre non ne dichiari. che il punto è concentrarsi su quello che ci capita, per le cose positive che ci sono, intendo. e smetterla di arrovellarsi per quel che avrebbe potuto essere, ma non è. quelle son cose che stanno in universi paralleli. noi si è in questo, natale compreso. 

quindi non so se sia lo spirito del natale, nel caso esista. oppure è il combinarsi delle cose, dei contesti, a farmelo vivere financo con gratitudine. posto non mi interessi la risposta. intanto mi sto facendo un regalo interessante. vediamo quanto dura. ma intanto natale nun te temo. che magari pure è pure lui a suggerirmi: ma quanto sei pirla, fate casino sempre solo voi. se stai bene lo senti l'effetto. che forse, guarda un po', è lo spirito del natale. vale anche per gli agnostici, perché è un'eco antropologica. intanto io 'sto regalo me lo piglio. va bene anche mica solo a natale.

questo pomeriggio, quarantanni dopo la mia prima sbandellata, ho ritrovato il bandino, che sbandellava. in modo stanziale, questa volta, davanti ad un aperitivo aperto a tutte e tutti, in piazza lago. è stata matreme a suggerirmi di andarci assieme. massssì, perché no? pensa che cose che succedono questo natale. matreme ed io seduti a spizzicar roba aperitiva, guardando il lago. poi alla fine non si è neppure cenato, ovviamente. mi è pure venuto il reflusso, chissà con cosa han fatto gli spritz, o forse è che dopo un prosecco e tre di quelli non è che ci sia da aspettarsi niente di molto diverso. quindi il natale proprio non c'entra. quindi viva il natale, che va bene così!

Sunday, December 1, 2024

centoventi

oggi sono dieci anni che sono là dentro. a volerla guardare oltre, è anche una delle tante declinazioni del fatto che solo gli idioti non cambiano mai e per nulla idea.

non ci volevo andare, là dentro. troppo il senso di fallimento per l'aziendinadellaminchia che si era trascinata giù un po' tutto: a cominciare dall'autostima. troppo il fastidio all'idea di trovarmi invischiato in situazioni da pettegolezzo alla macchina del caffè delle aziende grandi. troppo deluso ma spocchioso: un lavoro da sotto-informatico, noi che gli informatici [ingegneri, figurarsi gli altri] li guardavamo dall'alto al basso. troppo naif per l'idea che qualcuno conculcasse il mio tempo, in modo ratificato e duraturo.

non ci volevo andare.

poi la viburna, il nonnetto putativo, l'amico omar mi dissero di non fare il pirla. ognuno a suo modo, ovvio, anche se l'amico omar mi disse proprio: se non accetti sei proprio un pirla. loro in combutta con i brandelli sparsi del mio buonsenso, ad indicarmi la cosa giusta da fare, talmente ovvia che ci ho pure ragionato sopra. ah, beh, sì, poi ovviamente anche il mio conto in banca, tecnicamente ben al di sotto dello zero per svariate migliaia di eurI. era un pungolo orgoglioso, anche se con declinazioni pratiche nulle: la creditrice era matreme, che nemmeno li voleva indietro. ma era un pungolo che mi rodeva assaje.

odg si premurò di consigliarmi caldamente una seduta la sera del venerdì, al termine della prima settimana, cosa rara per lei, il venerdì. poi in quei primissimi giorni accadde anche altro, di molto tragico, la malattia si era portata via una ragazza di ventisette anni, legata alla vita professionale e amicizie tossiche che avevo sfanculato, con rabbia, mesi prima. entrai nello studio, non feci quasi tempo a sedermi, cominciai a piangere, semplicemente come l'unica cosa mi riuscisse di fare in quel momento, senza esser capace di smettere. "immaginavo avrebbe potuto aver bisogno di confrontarsi" mi disse. quando uscii, frastornato da tutta quella commozione e tensione che avevo liberato in un amen, mi resi plasticamente conto di come il uichend, di colpo, assumesse un'aura del tutto nuova. di fatto mai provata. la sera prima di iniziare la seconda settimana fui colto da momenti di angoscia.

poi quando vidi pagata la prima fattura mi vennero altre lagrime, diverse quelle. in un mese, pur azzoppato dalle giornate di festa, avevo guadagnato come l'ultimo anno e mezzo.

cominciò così, là dentro. una nuova vita. durissima, all'inizio. dura anche per come ero messo: sfiduciato, ribaltato, smarrito. e poi sì, ovvio, anche a causa la mia capadicazzo.

per mesi, ogni sera, mi chiedevo se fossi tornato lì il giorno dopo. c'era il pensiero salvacondotto che mi tenevo nel cantuccio, quello che mi ricordava: puoi semplicemente consegnare il badge con il cordoncino bianco, e te ne vai. bye bye.

ho avuto in antipatia per tanto di quel tempo, tante di quelle persone, che sarebbero uscite fuori squadre per campionati di quantomistatesuicoglioni che levati. il mio responsabile, allora, capitano di molte compagini.

per svariati trimestri, da saccente, ho considerato dei minus habens una quantità importante di quelli che nemmeno mi veniva di chiamare colleghi. alcuni dei pochi altri erano invece dissociati o sociopatici o stronzi. se ne salvavano davvero pochissimi. pensavo, per darmi un tono interiore: voi non avete idea dei cazzo di corsi che ho seguito all'università, e mi riduco a fare queste stronzate qui.

però tutto con il sorriso sulle labbra e la cortesia nel pormi a chi non mi si poneva sgarbato.

'sta cosa mi ha un po' disorientato da subito. riuscivo bene in cose che non mi sarei aspettato, pur facendomi cagare la grandissima parte di quelle cose. eppure mi venivano e c'era quasi un imperativo etico a farle al meglio.

così ho cominciato a costruire relazioni a partire dal: ho bisogno di capire questo, dovrei far risolvere un problema in produzione, mi dai una mano? il primo che mi ha ascoltato, con la sensazione lo facesse col cuore e senza fastidio, è stato simone, il dba. è iniziato da lui. ho abbassato le difese, e con lui è venuto naturale. il primo tassello per costruire un mio senso di esserci - tecnicamente- là dentro. non l'ho mai ringraziato abbastanza.

la prima rogna più o meno eclatante fu quando si ruppe l'input simulato. non ne sapevo un cazzo, nel giro di qualche ora sistemai e feci accreditare e addebitare i conti. fu il ghiz a darmi retta e fece alla stragrande il suo, con la disponibilità che là dentro ho trovato in pochi. ancora non capisco la genialata di non tirare a bordo una colonna portante dei sistemi windows come lui. misteri.

così sono passate, appunto, altre vite là dentro. nel senso che si sono susseguite delle personalissime ere. ovvio che poi gran parte di tutto è cambiato. passando anche per quel pomeriggio fondamentale. quando ho capito, compiutamente, l'affetto e la stima del teo. sentendomi anche un po' stronzo ed in colpa, per gli improperi dei primi tempi. una chiacchierata in area relax, con i monitor dei video autopromozionali [quanto siamo fighi, noi, che lavoriamo così qui dentro], testimoni muti di quel che ci siamo raccontati. e di come ha cominciato a cambiare il mio senso di esserci - professionalmente - là dentro. ogni tanto glielo ricordo, è il minimo possa fare.

quando iniziai l'amico alfio mi disse: comincia, fai tre mesi, poi se non ti piace smetti. sono arrivato a centoventi di mesi. ovvio che me lo son fatto piacere. che la fatturazione aiuta, minchia se aiuta, ma solo con questo non avrei resistito così tanto. ed in centoventimesi le cose sono cambiate in maniera quasi radicale.

non tutte, ovvio.

li conto ancora, i mesi. so che appena ci sarà l'occasione di cambiare vita, cambiarla sul serio, lo farò. probabilmente con un senso di grande sollievo. ma so non sarà subito. non ho un mestiere propriamente detto, fuori dall'ICT. le psicopippe, le speculazioni cervellotiche, il ragionare compulsivo non interessano - ovviamente - quasi a nessuno. poi sono gratis. e non ho né la bravura, né l'abilità, né la faccia da culo egotica per farne una professione.

e quindi nello scorrere delle cose, provo a scorrere il fatto che son là dentro, senza lasciarlo perdere. fosse solo per tutta la fatica fatta, anche per [ri]costruirmi. sarebbe da idioti non farla fruttare. anche se non avrei voluto andarci, anche se nella vita avrei voluto essere e fare altro: però ormai sono lì. e tra l'altro [un tra l'altro fondamentale], con alcune delle persone conosciute là dentro, non è più nemmeno d'uopo parlare di colleghe e colleghi. non sono tante, ovvio. ma con costoro si è andati oltre, ci si è trovati, ed è venuto naturale. a volte per delle pure [apparenti] casualità: tipo rispondere ad un call di lavoro in un momento particolare della vita di qualcuno. tutte e tutti loro hanno un significato molto, molto importante. perché, in tutto questo, un qualche senso nell'esserci - umanamente - ci dovrà pur essere. che la forma è mezzo dubitativa per far un po' di teatro. lo so benissimo che c'è. conviene coltivarlo al meglio. è cosa buona et giusta non risparmiarsi in tutto questo. senza dimenticarsi dei privilegi di cui godo, non ostante tutta la fatica.

ora lo so, compiutamente. ci son voluti, tra l'altro, centoventimesi. non esattamente i tempi di uno scaltro e veloce di testa. ma va bene così lo stesso.

proverò a ricordarmene. se poi riesco a stare abbastanza lontano dal burnout, che annichilisce pezzi di speranza, diventa anche più semplice.

domani si ricomincia, là dentro. e fanculo il sunday blues.

Monday, November 25, 2024

patriarcatismi

sono un portatore sano di patriarcato. non è colpa mia: son nato maschio. quindi è una condizione ontologica, c'è poco da girarci intorno. però lo sono e non me lo nascondo. non giuoco al chiagnaefotti di chi - tanto, poco - 'sta cosa qui la rimuove, con il trucchetto del: non sono né maschilista, né discriminatorio, né violento contro le donne, che volete da me? peggio: e allora le donne con il loro essere civettuole, profittatrici, stronze, rompicoglioni?

noi maschi siamo portatori sani di patriarcato. e non importa se lo sono anche parecchie donne. che lo agiscono, conformate, rispettose, ossequiose di una [sub]cultura radicata da parecchi secoli. la assorbiamo con il latte materno: tutte e tutti. poi noi maschi giochiamo in un altro campionato, la responsabilità è ben precipua. averne contezza è il primo passo per cominciare a sconfiggerlo.

sono portatore sano di patriarcato. ne ho avuto piena e compiuta consapevolezza con l'omicidio di Giulia Checcettin. questo non smetterò mai di ribadirlo. per l'emozione che ha suscitato, per come il padre ha saputo trasformare quel dolore e quel trauma. vero. ammazzano una donna ogni tre giorni: anzi, vi è un femminicidio ogni tre giorni. chissà quante subiscono violenza. per non dire la sistematica discriminazione che si perpetua ogni giorno, come la più inestricabile e maledetta delle normalità. un senso di trasformazione ha avuto quel femminicidio: dare importanza al fenomeno, mostrandone la montevolemerdosità. è dare centralità e dignità alle vittime di tutti gli altri femminicidi, di violenze subite, alle donne discriminate. ci sono quei ghirigori del destino che innescano effetti fottutamente non lineari. delle delte di dirac [da zero a tutto in un niente] di consapevolezza, presa di consapevolezze oltre l'importante. sembra che le cose scorrano in una normalità tossica, subendola, poi arriva prorompente il dover far rumore, a dar scossoni antropologici.

ne ho preso consapevolezza del tutto. non partivo esattamente da zero. però sì, la compiuta contezza è stata un'altra cosa. anche a tratti fastidiosa: ma come, proprio a me? che quando mi trovo a camminare, specie di sera, dietro una ragazza, se mi accorgo del mio passo troppo più rapido del suo mi fermo un attimo, rallento, cambio marciapiede, proprio per non darle minimamente la percezione di essere seguita. perché questo fastidio? semplice: è il mio essere portatore sano di patriarcato. lo sforzo nel non ignorarlo, quel fastidio. come scacciar col muovere delle dita una mosca che ti ronza attorno. guardarlo ben bene negli occhi, quel fastidio. avere un po' di coraggio, o forse solo onestà, e dirgli: adesso facciamo i conti noi due.

e quindi alcuni dettagli rilucono in modo un po' diverso.

quando arrivò, là dentro, la nuova responsabile del gruppone dei sistemisti et alter, colei che rispondeva direttamente al cio. lei con i suoi bei occhioni azzurri. lei, cui stavo talmente più sotto che in quei casi tu mica ci parli. ci sono almeno un paio di livelli in mezzo a far da interfacce. 'sta cosa qui mi rugò in maniera non esattamente serena. perché se ne stava in un ruolo piuttosto apicale, ben sopra di me e a cui rispondere, una persona che iniziava le elementari quando io mi laureavo? o anche perché fosse una donna? anzi, del mio punto di vista: una ragazza? non è una domanda retorica: davvero allora non avrei saputo rispondermi. ora forse sì, per quanto la questione di genere c'entrasse [davvero] poco. ma quel [davvero] poco c'era. portatore sano.

quando la mia amica roby mi cazziò, per la storia della proposta di spegnere l'illuminazione pubblica su alcuni monumenti: per risparmiare, più che altro. io ero d'accordissimo. lei stigmatizzò quel mio favore, e lo fece anche con la sua spigolosità di persona acuta [c'è un doppio senso. se non si era capito. ma nel senso che ci sono entrambi i sensi. l'amica roby è la persona più intelligente e capace conosca sotto i quarant'anni. che dà la biada a persone che di anni ne hanno anche ben di più. tanto che, in alcuni ambiti, la differenza d'età non la percepisco. e non perché sia involuto io]. io un po' ci rimasi male. non solo perché, se vuole, l'amica roby sa uscire pungiglioni dolorosi. ma come? te la prendi con me? "che quando mi trovo a camminare, specie di sera, dietro una ragazza... [etc.]". in realtà in quella cazziata c'era il fatto non cogliessi del tutto il suo [sacrosanto] incazzo, nel non sentirsi del tutto sicura a camminare di notte. spegnere i monumenti avrebbe contribuito - tanto, poco - a farla sentire ancora meno sicura. al netto della logica formale stringente [la parte di milano con monumenti che sarebbero stati spenti è davvero minima, per lo più in centro, zone mediamente meno insicure], fu il non cogliere appieno quel disagio. che lei ha tutto il [sacrosanto] diritto di viversi, con il [sacrosanto] diritto di non volerlo più vivere. disagio che io non ho [quasi] mai percepito. un po' perché so babbeo, di certo. ma soprattutto perché son maschio. essere portatore sano ti disconnette - poco, tanto - anche da ciò.

è per questo che vivo con molto coinvolgimento, dallo scorso anno ancor di più, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. è un modo di combattere il mio essere portatore sano di patriarcato. non solo il venticinque di novembre. so che non basta, ovvio. e non è detto che qualche epifenomeno non riesca a scappar fuori ancora, qua e là. siamo tutti fallaci e perfettibili, figurarsi. però sono ragionevolmente certo che sì: non ignorerò mai più il fastidio, dovessi trovarmelo ancora di fronte. lo devo, da maschio, a tutte le donne. s'ha da fare. non ho figli da educare, specie maschi, per fare tutte e tutti passi avanti. però posso dare il piccolo contributo a cacciarlo fuori - tanto, il più possibile - da me. estirparlo. lo voglio, ci devo essere anch'io. perché "il patriarcato esiste, se non lo vedi sei tu".



Saturday, November 16, 2024

fianco

non dormo quasi mai supino. tanto meno a pancia sotto. una volta sdraiato sul letto mi giro su di un fianco. poi, se siamo in stagione fredda, mi accuccio in posizione fetale, per raccogliere il calduccio. non mi viene automatico girarmi sul fianco sinistro, se lascio andare le cose, infatti, mi giro su quello destro. quando succede è raro non pensi alla prima immagine che ho di mio padre che ormai non c'è più. disteso nel letto, sotto le coperte, di spalle rispetto l'ingresso della camera, girato sul fianco, quello destro. è raro non ci pensi ormai da diciannove anni. che in diciannove anni uno fa in tempo a farsi quasi uomo. che quindi rispetto a quel momento, quando lo vidi girato sul fianco destro, sono passate vite, quasi tutto è cambiato per rimanere piuttosto autosimilare a sé medesimo. forse faticherei a riconoscere quel me di allora, in alcuni aspetti, ambiti, convinzioni. eppure ci sono immagini, momenti, sensazioni, suoni che sono lì, anzi qui, vividissimi. quasi stessero succedendo ora. dovessi concentrarmi e pensarci intensamente so che rivivrei le emozioni schizofreniche di quel momento di passaggio. provo a deconcentrami, e de-intesificare il pensiero, per lasciarle lì sullo sfondo. forse scriverci un post non è l'idea più geniale possa sgorgare da sinapsi infreddolite dalla nebbia che c'è stata oggi, ma tant'è.

poi uno dice che non ama troppo il mese di novembre.

ieri, ad un incontro di bookcity, ascoltavo una psicoterapeuta presentare il suo libro [e comunque niente. hanno una cadenza, uno scandire, una metrica, una musicalità che le accomuna: probabilmente rassicurante. la grande intuizione potrebbe essere: perché fanno quel tipo di lavoro?]. ad un certo punto ha coinvolto noi astanti in un piccolo giuoco auto-terapeutico. e ci ha sollecitato a ri-tornare all'intuizione, al ricordo sepolto, al significato di cordone ombelicale. in senso stretto ed in senso lato. cioè anche tutto quello che ci è stato trasmesso attraverso. il senso lato era tutto ciò non propriamente ostetrico-fisiologico.

e qui sì, col senso lato, sono andato temporaneamente un po' in crisi. niente di grave, neh? ma una malinconico sguardo al pavimento e il frullare di pensieri, sensazioni. non ho potuto pensare anche a tutto quello che ha passato mio padre. ed anche quello che non mi ha passato, per quanto sia un po' più nebulescente. prova te a definire qualcosa che non c'è, o non c'è stato. forse più semplice intuire, seppur in modo molto vago, quanto invece ne avrei avuto bisogno. o quanto lo avrei desiderato allora, senza rendermene conto. piuttosto inutile immaginare cosa sarebbe successo se. mi è tornata alla mente una frase su mio padre buttata lì da matreme, una manciata di giorni fa. forse buttata lì senza troppa convinzione. o forse fottutamente illuminante. specie calandola, ex-post, nella chiave di lettura della psico di cui sopra, quella del libro: diventa esplicativa di tutta una serie di titubanze mie. che uno dice: ovvio sia così non del tuttissimo in bollissima. o meglio: i prodromi c'erano per venir un po' su così, poi le cose succedono nel corso degli anni, anche in maniera molto casuale. che nell'essere un privilegiato di questo occidente, qualche spruzzatina di sfiga qua e là c'è stata. pur non credendoci, alla sfiga. e comunque l'effetto finale è un po' questo qui.

però, basta dar tutto quest'importanza deterministica al passato, che è passato. ed anche a sapere il perché di quel che poi è stato, ora è importante il come fare le cose. ora.

facendo pace con quello che fu. anche alla luce di quello che è stato possibile. forse oltre che inutile è anche dannoso immaginare il se di cui sopra. tanto più che ora scatta quasi pavloviano il ricordo di quando mi giro sul fianco destro, prima di addormentarmi, e trovarmelo ogni tanto nei sogni. capita si litighi. ma lo sappiamo che non è lui, ma sono io, una parte di me che con lui c'entra il giusto.

sì, c'è stato un trauma. vederlo sul fianco dentro, sotto le coperte, è uno dei dettagli. un trauma accompagnato da non volermi disinteressare di quello di matreme. non è semplicissimo. ma è l'unica cosa fosse giusto [e sia giusto] fare. è come restituire un po' di quello che è passato dal cordone ombelicale, in senso lato ovvio. si diventa anche genitori dei propri, come se i ruoli in alcuni aspetti si invertissero. che poi, plasticamente, era quello che stava facendo frateme, cullandolo, l'ultima immagine che ho di mio padre da vivo.

tutto il resto lo si porta dentro, per fortuna, in maniera inevitabile. tanto più se si ha contezza di quello che di buono, molto buono è passato.

c'è dentro anche quello, lo so, quando mi giro sul fianco destro, prima di addormentarmi.

Saturday, November 9, 2024

brotherismi

e comunque 'sta storia scriva i post il giorno del genetliaco di fratteme, qualcosa dovrà pur significare. in un in intreccio, che peraltro credo coerente, con le suggestioni dei sogni che tornano abbastanza di frequente. roba che son tappeti di sensazioni tra il piacevole, il confortante, con dentro contrappunti di nostalgia leggera, e con spolverate di malinconia q.b.. e soprattutto sogni, onirici, in cui la casa dell'hometown è quella di com'era nella gioventù, quando abbastanza tutto era possibile. se lo era la casa, per sillogismo, lo siamo anche noi che vi ci abitiamo. oppure, sempre nell'hometown, la casa è nuova, recente, e dentro vi è una progettualità che è sempre la sua. quella di fratteme, intendo.

la cosa che mi sorprende è che, nei sogni, non c'è invidia, gelosia, o senso di inadeguatezza. quello sì, della gioventù. ma un certo senso di ammirazione. come se, in fondo, indicasse come si fa, o da che parte andare. anche se poi lo sappiamo che siamo noi, nei nostri sogni, anche se ci appiccichiamo le facce di altri.

c'è il fatto che sono sogni che si portano dentro qualcosa di indefinito, specie nei suoi confronti. non so se sia affetto, o rimpianto, o un mics tra le due e più cose. oppure altro, quello ad esempio che non so vivere, compiutamente, quando son sveglio. se non da lontano da lui.

anche tipo il mio non essere esattamente pensiero-azione. cosa che invece inesorabilmente è lui. ce ne ha dato la prova qualche settimana fa. sono quelle cose che sgorgano dalle situazioni che si sono sì, sclerotizzate, ma c'è ancora tempo acciocché crepe possano crearsi. da cui spuntano nuovi virgulti. non so se affetto, non so se amore fraterno e filiale, non so se riconoscenza. non so se è solo riportare un po' tutto a casa, nei legami degli affetti che si sono sfilacciati. che si erano un po' rotti, o forse interrotti, o forse no, perché poi son cose che hai dentro, non ostante le differenze, le visioni del divenire che divergono. riportare a casa, appunto, forse è anche per questo che lo sogno nelle casa della hometown. quella che fu o quella che, nuova, sta lì accanto.

poi sì è vero, scrivo imbarazzato, ed imbarazzato gli farò gli auguri, ben ammantato della mia coda di paglia. che non riesco a smontarmi dalla testa l'idea che abbia fatto molto di più io, per sfilacciare, piuttosto che l'inazione di lui. non c'era volontà, non c'era dolo. c'era tutto uno strutturarsi che è venuto fuori così, un po' pezzottato. non ostante rivendicassi una qualche forma di superiorità etico-morale, mentre cercavo di definirmi in un qualcosa che doveva essere più complicato ed articolato degli altri. scegliere l'arzigogolo, invece della linea quasi retta, come aveva imparato a spianarle lui. troppo facile così, stavo lì col ditino puntato. difatti. ora sono io con questo sottile senso di dispiacere, e forse anche un po' di colpa.

le solitudini di matreme e mie, per ragioni ovviamente diversissime, ci hanno fatto guardare quello sfilacciarsi, come inevitabile, strutturale. al limite con la piccola foglia di fico che si sfilaccia in due, con reciprocità uno a due. senza contare le altre debolezze, mimetizzate da sicumera, che l'hanno tirato anche da un'altra parte. non è stato semplicissimo. siamo famiglia un po' così. non si sente avvinghiante il legame di sangue. non credo - voglio sperare - ci sia il legame dell'affetto che prescinde quell'altro, per fortuna.

questo voleva essere un post genetliaco. non è un post da lieto fine [d'altro canto, questo blog ne è pieno. [si scherza, neh?]]. quello dove il dolly sale mentre la puntata termina col sorriso. forse non riesce nemmeno ad essere un po' genetliaco. che poi li scrivo, ma lui mica ne ha mai letto uno. e chissà se mai li leggerà. però dovesse accadere non possa farglielo sapere io, che ci pensi qualcuno dei tre o quattro che passano di qui [l'amica roby, quando eravamo ancora amici, mi disse che avrei dovuto passargli i link. poi è successo il resto con l'amica roby. non che abbia un qualche nesso causale con il fatto non glieli abbia mai passati, i link]. di certo c'è la confusione, oltre i refusi, di cosa vorrei davvero scrivergli, augurargli. che almeno qui non c'è quel senso di affettuosa estraneità che si frappone, dal vero, le poche volte che ci incrocia. affettuosa estraneità, probabile, a celare l'imbarazzo.

non è un post con il lieto fine. però, mentre provavo a raccogliere qualche idea, mi è comparsa l'immagine del kintsugi [che mica ricordavo come si chiamasse, però basta chiedere al signor gugol]. i pezzi che si ricompongono con dell'oro. dalle crepe possono spuntare virgulti. oppure i pezzi rotti si possono ricomporre, impastando anche i legarmi sfilacciati.

il genetliaco è il suo. lo auguro però tanto anche a me.

 



Monday, October 7, 2024

pogrom

stamani il bacchetta, alla radio, ci ha provato. era una sfida complessa da portare fino in fondo. soprattutto in una comunità di ascoltatrici e ascoltatori sicuramente sensibili alle sofferenze, dell'altro lato, che da quell'evento si sono generate. e che si propagano all'indietro, in un rincorrersi di cause ed effetti che si fa assordante. disperante, a guardare solo le azioni e reazioni del passato.

ecco, vedi, caro massimo bacchetta. nemmeno io ci sono riuscito. provare a pensare, oggi, a quell'evento devastante del setteottobre, e lì rimanere concentrati. senza lasciarsi andare, almeno oggi, a considerazioni - per quanto sacrosante - di quello che è stato dall'ottoottobre, quello che è stato fino al seiottobre.

fermarsi a ragionare sul pogrom. quello che è stata l'esclusiva mattanza di un gruppo di terroristi, che per ribaltamento di senso ributtante c'è chi definisce partigiani. ed il pogrom un atto di resistenza. il modo ancor mi offende.

non so quanto ci sia riuscito io. non so quanto il bacchetta l'abbia azzeccata, proporre un tema che, forse, non aveva una soluzione, neppure nel dominio complesso.

perché appunto è troppo complessa, stordente, spiazzante quella realtà. gangli intrecciati, indistinguibili, irriducibili. come una massa tumorale può avvolgere tessuti sani in modo inestricabile. il tumore è la violenza che pervade quelle terre, che di santo non hanno un proprio un cazzo. è l'odio che gli uni hanno nei confronti dell'altro: tutti figli di abramo, peraltro.

ci ho provato neh?, soprattutto oggi, a ragionare su cosa dev'essere stato il setteottobre per loro, abitanti di israele, ebrei. come ha riverberato quel pogrom.

contino ad essere convinto ci manchi un pezzo. a tutti noi col culo al caldo. e non è solo una questione congiunturale del qui ed ora. bensì il culo al caldo dell'intimo profondo di noi cristiani di occidente. importa poco quanto atei o agnostici o lontani dal professarlo. noi che facciamo parte di quella parte che ha dominato per secoli. che seppur da qualche tempo il potere sfumò [cit.], si rintanata nei meandri della morale, del senso di colpa e di espiazione. insomma noi che non abbiamo diciannove secoli di pensiero fondante che si è infilato sotto lo strato del derma e della coscienza: vogliono eliminarci dalla faccia della terra.

spreco una riga di disclaimer: non giustifica un solo morto innocente, prima e dopo il setteottobre. non vi si può prescindere però, nel ragionare fin giù nel profondo, quello che è stato quel pogrom.

solo che a noi ci mancano i diciannove secoli di pensiero fondante.

per questo credo ci manchi un pezzo, per capire davvero cosa dev'essere stato per loro: abitanti di israele, ebrei.

il governo di israele ha responsabilità e colpe incommensurabili: prima e dopo il setteottobre. specie lo scempio del concetto di umanità, dei crimini contro di essa che sta accadendo a gaza. ma il governo di israele non è il suo popolo. per quanto oggi, quel popolo, probabilmente farebbe vincere ancora a quel criminale del loro primo ministro, e gli estremisti sodali suoi. ma nessun popolo si merita un pogrom - che banale ovvietà, eh?

e a noi continua a mancarci un pezzo per capire, davvero, cosa deve aver significato per loro. è già terribile così. figurarsi con quel pezzo in più.

e financo in maniera simbolica, ma significativa, sembra non essere uscita dall'orizzonte degli eventi l'idea si possano sfregiare, come qualcosa di inevitabile.



Sunday, October 6, 2024

FARE

fare.

nel senso di si può fare. non come lo esclama lisergico il dottor frankestin. ma come lo canta il branduardi. che inizia con questa specie di giga, che credi sia un'orchestra di ghironde a suonar il motivo che [ti] trascina.

vado molto a memoria. una cosa di più di trentanni fa. l'esame di analisi III, con le certezze che si sfaldano una domenica pomeriggio di febbraio. io a ripassare quelle pagine fitte nel pulmino rosso oratoriano. gli altri in un qualche incontro giovial-parrinaro, a novara o giù di lì. mi ci ero rintanato, nel pulmino, come compromesso per voler esserci a quella cosa giovial-parrinara, e placare l'ansia dell'esame adveniente. quindi un po' all'evento, un po' sul pulmino rosso a ripassare. e poi datemi un passaggio alla stazione che me ne vo a milano. ero nel pulmino rosso e di colpo, come il verificarsi ineccepibile e teoreticamente inappuntabile di una delta di dirac, la certezza: non ce l'avrei fatta. non avrei passato l'esame. saltano i tiranti del tappeto elastico, dove rimbalzano le emozioni a ridosso di un esame. plof, si affloscia tutto. ed io mi ci ingarbuglio dentro, e prendo una culata sul pavimento. pensavo di dominarlo quel popò di pagine di appunti nonché quelle dell'amerio con la copertina con la banda verde acido. emulo in decimillesimi del professor pagani, con il suo sguardo altero, il viso aerodinamico, i baffetti rastremati, i dolcevita grigio chiari, le movenze da carmelo bene delle aule della nave del poli, l'alterità da aristocratico della matematica. pensavo di averlo fatto mio quel corso. ed invece in quel pulmino la certezza, analitica: non ce l'avrei fatta. l'equazione differenziale alle derivate parziali ben impostata, le condizioni al contorno che raccontano che no, non l'avrei passato.

ne ero certo. svuotato.

e quindi tutto diventa leggero. una cosa che non pesa e quindi non mi avvolge nell'irretirmi nella rete del fallimento, puntuale, di quella cosa lì. stigrandissimicazzi. anche se allora non lo si usava ancora. lo avrei provato, non l'avrei passato. pace.

così nei giorni successivi, prima dell'esame, vagolo per milano a tratti. inutile incaponirsi e consumare la tensione e dell'agitarsi. tutta energia sprecata.

così finisco in messaggerie musicali, quella in duomo, quando ancora c'era. quella dove trovavi le colonne di ascolto delle uscite del momento. con le cuffie superavvolgenti, oltre che sovraccariche dei residui tricologici di mille e più utilizzatori precedenti. tutti lì ad ascoltare a volumi pazzeschi, con chissà quali stati d'animo, umori, speranze, disperazioni, e tutto il campionario di fardelli di pensieri, oppure il semplice cazzeggiar spensierato.

prendo le cuffie ed i residui tricologici della colonnina in cui, tra le altre, c'è la chioma del branduardi, viso chinato su una dobro, blusa chiara. si può fare. faccio partire il cd, che non si sente altro rumore, cuffie superavvolgenti. e parte la giga che sembra suonata da un'orchestra di ghironde, e parte come venisse da lontano. e l'ascolto. la riascolto. mi spacco le orecchie a farla ripartire di nuovo. solo quella canzone, solo quel rincorrersi di versi che certificano che si può, coniugando quel tappeto di verbi. l'elencazione di quello che rientra nel poter fare. l'essenza, la tintura madre del declinare l'esistere, esserci, azione costruttiva, istanza fattiva, il grip con cui si avanza, passo dopo passo, nel mondo, nel divenire. la ascolto e la riascolto. ipnotizzato da quella melodia, da cui mi facevo avvolgere, come se ci ballassi dentro anch'io.

con in mente ben impressi tocchi di versi: prendere o lasciare, volere. lottare, fermarsi e rinunciare, lasciare, sbagliare, e poi ricominciare, continuare a navigare. e tutto questo turbine qui.

il contesto di quel pomeriggio era l'esame che non avrei passato, ne ero certo. a volte tutto il destino del mondo può riassumersi in qualcosa di fanciullescamente semplice. stava tutto lì il mio cruccio, la sensazione - strana eh? - del fallimento puntuale e temporaneo. era tutto molto semplice, e circonflesso nel piccolo orizzonte ricurvo degli eventi: un esame che non avrei passato. ma si potevano fare tante, tante, tante altre cose, come sussumevo da quei versi. facendo ripartire la canzone. i padiglioni auricolari ormai intirizziti. cercavo di farla mia quella canzone, si può fare. si poteva sbagliare - il totem del contesto di un'esame - e poi ricominciare. e poi continuare a navigare.

forse era tutto davvero molto più semplice, allora. forse erano i vent'anni. forse il fatto di avere tutto ancora molto, molto davanti, a divenire. era facile sentirseli addosso quei versi. occcazzo com'era quasi ovvio e scontato che era roba che si sarebbe potuta davvero fare.

poi l'esame lo passai. peraltro insoddisfatto di un ventisette. perché avrei potuto facilmente arrivarci al trenta. forse culo. forse la sapevo meglio di quanto credessi. forse perché l'avevo vissuta leggera, con il retrogusto che tanto era inutile menarsela. si poteva fare. si poteva sbagliare e poi ricominciare.


quella canzone è ripartita anche questo tardo pomeriggio. mentre attraversavo la galleria mappo morettina - i ticinesi hanno un gusto tutto loro di battezzare luoghi e situazioni. di nuovo la giga che sembra sia suonata da un'orchestra di ghironde. di nuovo il cambio di tonalità quando inizia a cantare.

fanno strano tutti quei verbi fattivi, all'infinito. rotolano come fossero teorici, come a non afferrarli, scorrono via. tipo l'asfalto sotto gli pneumatici dell'auto. come cantano strani quei verbi. ed il si può fare sembra surreale come l'esclamazione lisergica del dottor frankestin. solo che qui è tutto molto più semplice ma distaccato. come non fosse più qualcosa che fa per me.

come non sapessi più fare.

eppure. eppure. eppure.

ad un tratto e come intuissi la presenza, ancora, di un qualcosa che mi sembra una specie di gancio. un mezzo marinaio con cui riprenderli quei versi, farli ancora un po' propri. è roba tenue, appena palpabile. mentre guido è come si ricongiungesse per un attimo il disperante stigrandissimicazzista di allora, allo scivolatore perditempo di oggi, di ora, quello che sta percorrendo la mappo morettina. 

come ad aver la sensazione che, da qualche parte, ci sia ancora una specie di fiammella fattiva. con cui si può fare, con cui fare. è una percezione fugace, ma non effimera. fiammella che balugina, che non è fuoco fatuo.

è un piccolo brivido rassicurante. da qualche parte, lì dentro, c'è. non è nemmeno una questione che si debba cercare granché, non funziona il raccontarselo del: marò, che confusione c'è qui dentro, ovvio non si trovi più. no. no. c'è. deve solo venire avanti. solo, si fa per dire.

però sì. si può fare. intanto riparte le giga, ad libitum.


 
[ost: si può fare, cos'altro altrimenti?]


Sunday, August 4, 2024

reazioni

credo si sia conclusa una delle relazioni più significative abbia mai vissuto. relazione nel senso piuttosto ampio del termine. che poi forse era, appunto, la sua ampiezza a renderla strutturalmente fragile. quanto meno la sua variegazione, quanto meno nei termini di coinvolgimento sentimentale. roba non esattamente reciproca, simmetrica. e quando c'è uno sbilanciamento ovvio che una relazione mostri la sua fragilità strutturale.

tanto più non mi piace nascondermi. o peggio millantare sentimenti che non provo. non si prende in giro nessuno, in amore, o quella roba lì.

è - è stata - una relazione fottutamente importante, forse financo fondamentale. e tutto il bello che mi e ci ha regalato è roba che non mi leverà nessuno, tranne l'oblio di quando le cose finiranno, nel senso strutturale del termine. e tutto il bello che mi ha regalato non lo riverserei in questo blogghettino. sennò che blogghettino di contumelie ombelicali sarebbe?

scrivo solo che ho capito - davvero - che fare allllammmmmmore è cosa - davvero - bella et appagante. che di suo non è 'sta gran scoperta. è quello che ho scoperto a monte [la causa], che mi dà la contezza della bellezza delllllammmmore [l'effetto] la cosa davvero da breakthrough [dannati anglicismi], un piccolo cambio di paradigma nelle autoconsapevolezze. [e stigrandissssimicazzi esserci arrivati a questa età. e per il momento provo a lasciar da parte l'incazzo per tutto quello che mi ci ha fatto arrivare così tardi.]

di contro mi rimane anche altro, meno esaltante. anzi, forse l'ennesimo tic pavloviano a sabotarmi.

tipo che non sono fatto per stare in una relazione. dice: eh, si vede che non hai ancora trovato quella giusta. può essere. però a 'st'età nutro dei dubbi che mai ci sarà quella giusta. anche se a tratti ho financo desiderato, in modo importante, ci fosse. oppure mi rimane la quasi matematica certezza che, trovassi una che penso potrebbe essere quella giusta, poi faccia e dica cose che le fanno scappare a gambe levate, quelle giuste. ed io che rinforzo quella convinzione.

di certo, oltre le cose belle, mi è rimasto un senso di inadeguatezza relazionale. che la fanciulla si è ben prodigata a corroborare in questi mesi. i momenti di sconforto meno piacevoli, e non solo per le spigolature con cui corroborava. non lo ha fatto di certo apposta. potrebbe essere stato il suo tic pavloviano, quando ha percepito distintamente lo sbilanciamento di cui sopra. però, al netto delle cause, io questo effetto di su di me lo vivo eccome.

almeno con la dubbiosità scettica di essere un altro tentativo di autosabotarmi.

e mi sono però anche accorto, per uscire dall'inghippo del tic pavloviano, che sto reagendo in maniera controintuitiva. una specie di reazione in contro fase. come gli amplificatori operazionali, o i sistemi controreazionati. quelli in cui la controreazione è negativa: in termini di segno algebrico, non di valore etico. così i sistemi si mantengono in equilibrio.

e la reazione è che provo, ancora di più, a praticare gentilezze a casaccio e atti di bellezza privi di senso.

ci provo, insomma. cerco di essere [ancora] più disponibile, [ancora] più cortese, [ancora] più attento a quello che mi sollecita il prossimo, anche nel senso più casuale del termine. un po' è senso di cura et attenzione alle persone che, a loro modo, ne abbisognano. quello che riesco, quello che posso. un po' sono le azioni da boy scout. un po' là dentro le occasioni sono numerosissime, ogni giorno. un po' è il senso di dare il senso e mettere a terra il verso di venditti: sto meglio quando sto bene. [minchia. pensa te. venditti sono andato a citare]. un po' è ri-mettere in circolo [no. non vado a citare ligabue, e la storia del mettere in circolo il proprio amore. c'è un limite a tutto].

insomma, una reazione a quel senso di inadeguatezza. provo a convincermene cercando di intuire i ritorni che gli altri possono darmi, reazioni a loro volta di quel che è una mia reazione all'inadeguatezza a stare in una relazione. sussumo quello che arriva dagli altri, che son una specie di nebulizzazione di relazioni. ed a volte, pure l'acqua nebulizzata che ti arriva addosso regala un senso di benessere.

insomma. una specie di reazione in controreazione così. e poi per il resto vedremo.

[al netto della grandissima voglia che mi è rimasta di fare alllllammmmmmmore. leggero et taumaturgico]

Sunday, June 30, 2024

scorre

[disclaimer: questo è un post ombelicale, non ci son granché sguardi oltre le proprie piccole insoddisfazioni. anche se, al solito, non dimentico il privilegio.]

l'altro ieri è terminata tutto scorre. tutto scorre è forse la trasmissione che più amo della radio. il tema, come tutto, scorre, diverso ogni giorno scelto dal bacchetta, l'unico conduttore che poteva fare una trasmissione del genere. il tema sempre lontano dal meinstriiim dei soscial, o dell'approfondimento generalista. il tema spesso foriero di suggestioni intime, o poterla vedere dall'altro punto di vista degli altri: generatore di psicopippe che levati. quasi sempre interessante ascoltare il contributo delle ascoltatrici e ascoltatori, spesso sempre gli stessi, tanto che ormai al "pronto, sono io?" sapevi chi stava per intervenire. interessante per capire il punto di altri, per mettersi in confronto, comprendere l'alterità. a volte pensare: cazzo, questa cosa avrei voluta pensarla io. a volte pensare il rassicurante: per fortuna sono più avanti di questo stronzo. non so quanto sia un caso che gli stronzi sian stati quasi sempre maschi. non so quanto sia un caso che, quando intervenivano prevalentemente donne, la discussione incanalava vibrazioni e climi più sereni, costruttivi, cose generatrici. il testosterone fa quasi sempre male. oppure le frustrazioni, le compulsioni di alcuni. roba a volte tipo una specie di seduta psicoterapica di gruppo.

in mezzo il bacchetta, anche nel senso di omen-nomen. una specie di direttore di questa ensemble di sgarrupati improvvisatori free style. altro che free jazz. il bacchetta con la sua seconda domanda ficcante, con la sua controdeduzione, con la sua capacità di far saltar fuori la contraddizione tossica degli ascoltatori apologetici, quelli con il punto esclamativo alla fine di ogni frase. il bacchetta che a volte ha accusato il colpo a fronte di uscite davvero stronze, che buttavan lì una sua disonestà intellettuale - roba che è in contraddizione di termini con il bacchetta. il bacchetta con la sua empatia e la capacità di accompagnare gli interventi più intimi, riservati, commoventi che ogni tanto son capitati. per questo grazie al bacchetta.

il bacchetta che sosteneva tutti i giorni che la trasmissione la facevano ascoltatrici e ascoltatori, ma ci saremmo ben persi in cacofonie spaciugate e caciarone senza di lui.

mi mancherà il bacchetta di tutto scorre. a volte capita una specie di psicoradiodramma, quando termina definitivamente una trasmissione. e non è solo la questione della fine del palinsesto invernale. che percepisci un qualcosa di simile al ricordo dolce di vacanze. la levità della vacatio, che ormai non riesco più a far mia, 'ché da dentro la ruota da criceto tutto scorre ma mi torna uguale, giorno dopo giorno. quando termina una trasmissione ci si trova un po' soli, e col piccolo horror vacui che bisognerà ripianificare le sinapsi, per affezionarsi ad altre trasmissioni. poi i circuiti sinaptici sono fottutamente plastici, molto più bravi e arguti della nostra piccola paura di doverlo fare. è che costa fatica. e noi si diventa sempre più anziani. è che costa energia. ed io è come se fossi con le pile scariche scariche [dice, e ti pareva se non tiravi fuori 'sta storia [cit.]].

e soprattutto con la convinzione [qui inizia la parte di cui il disclaimer iniziale] che tutto scorra, ma mi trovo impiantato ed incastrato da qualche parte, ed io non stia scorrendo proprio un cazzo. tutto scorre, tutto passa, e mi sembra di essere ad un punto di un'imprecisata partenza, da cui peraltro vorrei muovere il culo. invece sto lì. imbrigliato, senza 'sta gran abilità di seguire il fluire, avvolgerlo e farsi avvolgere. solo ogni tanto la presa di coscienza lì, in mezzo alla pancia quasi impanicata, che a scorrere sia il tempo e basta. che è da pirla pensare di averne davanti ad libitum, in questa situazione di salute et varie et eventuali.

non è una sensazione piacevolissima. non è roba che rinforza l'autostima, al netto che a quest'età se si è ancora alla ricerca del rinforzo non vi è da star troppo sereni. o forse sì. prendendo però atto del fatto che è a posto così. non scorrerà gran ben altro.

mi hanno fatto sapere, con un nesso solo temporale, che non è mica detto che non ci si possa sbloccare da certi incastri. non ostante l'età, la strutturazione, la cristallizzazione. forse nemmeno non ostante la sclerosi. tanto, in fondo, può ancora scorrere.

me l'hanno fatto notare ed io ho percepito distintamente la serena e limpida verità di 'sta roba qui. però tutta una cosa di testa. istanza chiarissima, consequenziale e lineare, come la tesi di un teorema che va a dimostrarsi. di pancia o cuore per nulla, non l'ho proprio sentito. anzi. mi son visto davanti alla triste, inpanicante, inevitabile incapacità di metterlo in pratica. gran bella analisi, peccato le sintesi

tecnicamente potrei sospendere il tutto. fidarmi, dando i tempo a qualcosa di scorrere: è già accaduto [grazie amichetta ilà]. almeno ho il conforto dell'esperienza. ma intanto il tempo, quello sì, scorre. e ce n'è sempre meno.

ed io mi sento impigliato. mentre tutto scorre.

[e per fortuna c'è la sertralina a non farmi andare giù. che a scorrere verso il basso son ben altri cazzi. quindi mi pare già gran cosa buona et giusta].

"passerà questa pioggia sottile come passa il dolore". [me lo ricordavo, più di trent'anni fa, per un innamoramento tossico. pensa te come scorrono le cose].

in ogni caso mi mancherà tutto scorre. però mi affezionerò ad altro. tanto le trasmissioni, in sé, mica la sentono la malinconia del distacco.

[qui la sigla con la voce. il bacchetta utilizzava solo la base musicale. tanto che mi fa specie sentirla cantata, per quanto abbia un perché anche con le parole. però, per noi di tutto scorre, è altra cosa, ovvio]
 
 


Friday, May 31, 2024

bozze

elenco sparso, stropicciato, abbozzato di idee di post, che avrei in mente di scrivere, ma poi bozze sono rimaste. volevo mandare un messaggio all'amico emanuele: ehi, amico emanuele, ho qualche idea a frullarmi nella testa. ma che poi non scrivo. [dice: ma uno esstringradissimicazzi?]

quindi.

baricco è insopportabile, per molti tratti. poi alcune pagine le rileggi perché non si può fare altrimenti. una sera ho provato a decantare ad alta voce il capitolo "so di preciso quando [son diventato leggenda]". ero in metropolitana, piuttosto ubriaco, ma con la testa leggerissima. ubriaco, non del tutto impazzito. nel senso che provavo a decantarlo ad un altra persona, non ero solo. ho idea rimarrà una delle serate più significative di quest'anno. quella roba che si infila nelle fessure della memoria, e a disincagliarla ci vorrà nel caso la degenerazione dura. e quell'incaglio mi sarà lancinante, prima o poi. già lo so.

***

il fatto che nei mesi scorsi mi appassionassero i video di restauro di oggetti vecchi, malandati, arrugginiti, probabilmente buttati come irrecuperabili. gratta, smonta, sgrassa, scartavetra, spazzola. con particolare godimento vedere all'opera la sabbiatrice: sembra ri-colori, aggiungendo, in realtà sta asportando, togliendo. o con particolare ammirazione al tirar di lima, che è gesto tutt'altro che banale: poetico nel suo rotondo articolarsi, che avviluppa e dà forma a quel fuso dritto e rigido. mi son ben chiesto: come mai mi catturano così tanto? oltre al fatto l'avesse intuito l'algoritmo del signor feisbuch. probabile avessi trovato una mezza risposta. per quanto banale. io, non l'algoritmo, che in fondo è scemo, con la sola abilità di incrociare molti dati molto velocemente.

***

il paradosso lancinante, per quanto col culo al caldo, degli ostaggi del sette ottobre. che un gruppo di invasati islamisti possa, per due milioni di persone, garantirne l'agonia e al tempo stesso mitigarne il massacro. proprio grazie a quegli ostaggi. da una parte della medaglia l'obbrobrio non possano tornare a casa loro. dall'altra parte l'obbrobrio di quello che accadrebbe in quella striscia di terra abrasa, se ce ne fosse bisogno ulteriore, se quegli ostaggi fossero a casa loro. una medaglia di obbrobri. due facce non bastano. e le multidimensioni non si confanno alla banalità della violenza e la lettura strumentale delle fazioni rancorose - per quanto col culo al caldo.

***

il papa che svarvola sulla frociaggine. che da una parte speri, nei primi minuti, venga smentita. dall'altra mica non lo sai di quante istanze ti tengano lontano da quella forma di potere. senza peraltro sminuire le istanze che invece condividi, del messaggio di cui quel gesuita si fa latore. a cominciare dalla scelta del nome. pensi a qualche fuga linguistico-interpretativa. pensi al fatto che ogni tanto sbrocca nella comunicazione. già successo. un filotto di device retorici a mitigare una delusione che sgorga, forse inattesa come quelle parole. mica puoi negare sgorghi. e poi un papa che dichiara: ho sbagliato. può sembrare banale. invece è qualcosa di significativo. cambia poco a tutto il contesto, neh? però è significativo.

***

un romanzo sulla prima guerra mondiale. che è probabile che un vecio, dopo due anni di trincea, appena prima e appena dopo caporetto, non pensi quelle cose. o almeno non le pensi così. come le penserebbe uno che sa, più o meno, come ha buttato il secolo breve. che è un vantaggio mica da ridere. però un romanzo che mi ha segnato. facendomi tornare indietro di un quarto di secolo. di alcune mezze idee, quelle del vecio, che mi sgorgarono all'inizio del servizio civile. e poi la lettura forse facile facile della complessità delle cose. roba che si può concedere ai ventenni, o qualcosa in più. però è la forza della passione delle idee che gli altri simili ti riconoscono. è cominciato così, con il mio nonnetto putativo.

***

il novedimaggio celebrano la vittoria della grande guerra patriottica. che è un modo di ricordare della vittoria di un popolo, al costo di carneficine. e dipende da quale parte guardi la medaglia di cui sopra. e forse le cose sono inevitabilmente inintrecciabili. ed il novedimaggio si celebra anche la giornata dell'Europa. che può sembrare retorica vuota, o qualcosa di simile. ed invece quell'idea di fondo ci ha quanto meno garantito ottantanni di pace, o qualcosa che le si avvicina molto. che forse è meno retorico, a considerare gli effetti molto pratici. talmente pratici che la diamo per scontata, quasi ontologica. e invece forse non è per forza così, o potrebbe non esserlo poi così per sempre. senza perder di vista il fatto che è roba che è accaduta da noi, col culo al caldo. e che potranno esserci altre guerre patriottiche. perché ci metteremo troppo a capire quanto sia ontologicamente stronza l'idea di guerra.

***

che la stanchezza non passa. però non mi sveglio più angosciato di notte. anche se è tutta una questione di neurorecettori che vanno o non vanno. anche fare allllammmmore, peraltro. una questione di neurorecettori intendo. però è molto bello ugualmente. quindi a posto così.

***

che la solitudine ho imparato da amarla, forse per pragmatica preparazione a quel che sarà. però, vai a capire perché, è anche bello sacrificarne pezzettoni. tipo la frutta fresca di certe marmellate di quando ero molto giovane. e tutto sembrava possibile. poi invece, necessario imparare [anche] ad abbozzare.

Wednesday, May 1, 2024

lavoratori

una volta il lavoro dava identità, ora dà povertà. [cit.]

'sta cosa qui, la questione dei working poor, è un qualcosa che mi strugge assaje. uorchinpuur, come ne direbbero quelli bravi di là dentro, che poi significa lavoratori poveri, che fa un altro effetto. che poi non ne direbbero là dentro, che là dentro è tutto un scialacquare di raccontar di cose fichissime et bellissime et comportamenti virtuosi che si seguono. o che si dovrebbero seguire. 'ché, là dentro, si è dentro una bolla. come ne esistono un sacco di altre di bolle. che poi sarebbero millemila goccioline nebulizzate che si addensano in questa bollosa vicinanza et colleganza, nel senso di essere colleghi. tutti a condividere spazi e [la maggior parte de] il loro tempo, oltre che antipatie e simpatie, idiosincrasie e comunanze [poche].

più o meno tutte e tutti più o meno consapevoli si sia privilegiati, in un certo senso. che ci sarà pure il paradosso di sentirsi privilegiati ad essere ingranaggi del capitale, con il tempo conculcato, ad offrire intelligenze [moltomolto] variegate con [moltomolto] variegate soddisfazioni e realizzazioni, quando non frustrazioni.

si sia privilegiati, con [moltomolto] variegate consapevolezze, poiché esistono masse di lavoratori che di privilegi ne hanno [moltomolto] variegatamente di meno, fin quando il [cosiddetto] privilegio di un lavoro non ce l'hanno più.

fino a quando una lavoratrice o un lavoratore dalla giornata di lavoro torna a casa infortunato [moltomolto] variegatamente. oppure proprio non ci torna più. sono, in media, uno ogni sei ore. ed in effetti non è che ce ne si indigni più di tanto.

infortuni e morti sul lavoro che non sono una fatalità. non è una cosa buttata lì, così. lo spiegano quelli bravi e studiati. la filiera dei subappalti, poca prevenzione, pochissimi controlli, scarsa cultura della sicurezza sul lavoro. che coinvolge ben tanto anche i lavoratori, neh?

in certe di quelle bolle è come se proprio si abitasse in pianeti diversi. molto meno rischioso a starsene dietro un piccì tutto il tempo. per quanto possa arrivare a sembrare frustrante starsene dietro un piccì tutto il tempo.

e poi, di nuovo, la questione dei lavoratori poveri. che qui la fatalità c'entra tipo me in un consesso di fasci. è il rotolamento sempre più impetuoso di logiche e politiche iniziate, guarda caso, mentre io muovevo i primi passi nel mondo del lavoro - al netto delle frustrazioni che han cominciato a camminarmi appresso. logiche che la chiamavano mobilità sociale, ed invece è diventata precarietà. probabile lo fosse già in nuce. è il rotolamento ingrossato da politiche che non si disturba il manovratore, come ebbe a dire fiera la fratelladitalia nel suo discorso di insediamento. destra sociale un cazzo. dimentica del fatto che mediamente l'uomo è avido, figurarsi i manovratori. quindi, mediamente, penserà ai cazzi suoi, poi a quelli che lavorano per lui. per quel che rimangono risorse. dice: l'hai riassunta tranchant, può essere. ma declinala su dividendi agli azionisti, emolumenti ai board, che crescono vortiginosi, e salari che nel frattempo si assottigliano. e ci siamo, abbastanza no?. 

precarietà, part-time forzati, sfruttamenti e compensi insulsi. ecco i lavoratori poveri. delocalizzazioni, speculazioni finanziarie su aziende produttive. ecco gli espulsi dal lavoro. 

sono in tanti, sono nebulizzati ma sono valanga. non ce ne accorgiamo troppo. specie perché siamo nelle nostre bolle, che i salari sono variegatamente corpacciosi. poi un po' perché nascosti dal meinstriim, un po' perché ci abbiamo un po' tutti i nostri cazzi. piccoli grossi siano, un po' perché di cazzi più o meno grandi è pieno il mondo.

un po' perché gli sciamannati che governano annunciano il giuoco delle tre carte: un sacco di lavoratori in più, importa poco quanto precari o sottopagati.

infortuni e morti sul lavoro. lavoratori poveri. sfarinamento del lavoro. in fondo è smentire un pezzo dell'articolo 1 della Costituzione. che non è che sia troppo ideale e irrealizzabile. è che si va dalla parte opposta, per scelte se non volute, almeno che sono un po' laissez-faire.

sono un privilegiato. mica non lo so. non ostante parli di là dentro e conti i mesi dall'inizio. non ostante le frustrazioni e la sensazione di irrealizzazione. sono un privilegiato in mezzo a privilegiati. in mezzo a molti altri privilegiati. in mezzo ad altri che privilegiati non lo sono affatto.

le lotte di classe non ci sono più. anche e soprattutto perché si sono liquefatte le classi. anzi, nebulizzate, che così certe cose funzionano di meno ed il manovratore tutto sommato se ne compiace. se ha un senso la festa dei lavoratori - oggi - è proprio in questo. ricordarsi, ogni giorno, del privilegio, e lavorar di conseguenza. ricordarsi di coloro che il privilegio non ce l'ha. e ricordarsene ogni volta che ci perculano, che è giusto lasciar fare al manovratore. anche questa, credo, è coscienza di classe. seppur nebulizzata. 

non sarà mica tanto semplice, neh? 

però bisogna provarci.

Saturday, March 30, 2024

pasque

ho financo provato a passare in collegiata. chiusa, non ostante fossero passate da poco le diciassette. mi piace passare in collegiata il sabato di pasqua. ne si intuisce plasticamente il significato pesach, passaggio. tutto è ancora sospeso dal venerdì, giorno in cui i paramenti, viola, vengono lasciati cadere, il tabernacolo è vuotato, il sepolcro accoglie chi deve accogliere. nel sabato di pasqua, la collegiata, è simbolicamente in un limbo. poi, nel mentre, alacri pie e pii preparano l'altare, tornano a far spalancare i paramenti, bianchi, acciocché tutto sia pronto per la grande veglia pasquale, la più importante delle veglie.

per questo mi piace passare in collegiata, nel sabato di pasqua. perché io mi son fermato lì, è una sensazione di attinenza: spirituale e non [più] religiosa. certo che ci credevo, allora. o quanto meno ero convinto di. poi intuii fosse tutto il miscuglio di cose, dalla primavera - stagione - in avanti, speranza, fiducia, senso di esserci, chiamate ad aver un posto nel mondo. che sintetizzavo nella [credevo] fede nella resurrezione, redenzione, e tutto il resto. e la pasqua, quella pasqua, ne era il climax e il punto fondante assieme.

al netto che la veglia pasquale, credo, mi emozionerebbe ancora oggi. senza dover per forza crederci.

e invece, come al solito da anni, a breve le campane si scioglieranno a festa. ed io sarò sul soppalchino ad ascoltarle. non credo più con quello struggimento dei primi tempi, come una specie di eco che si smorza, per quanto non sia del tutto spenta. ancora: non credo sia necessario crederci, sono gli antri interiori, che l'educazione sentimentale ha modellato in certi modi. ed è un po' inutile abiurare anche quello. è solo prendere atto ci siano altre pasque.

il suono le campane che si sciolgono arriverà smorzato, chissà che effetto farà. smorzato perché piove, piove intenso e convinto. non si chiama maltempo, tanto più con la fame d'acqua, che venga costante ma non tutta assieme, che si ha. certo, non aiuta l'umore, l'unica cosa positiva è sapere che servirà, l'acqua. ma anche in questo caso è un po' una specie di attinenza: piove fuori e dentro nuvole, peraltro senza essere riuscito a passare in collegiata. per quanto non so quanto potesse servire, passare in collegiata intendo. le nuvole dentro non servono, ma è ben inutile far finta non vi siano. e non solo riempiendo post per ribadirlo, anche perché si può ribadire - sussurrandolo - che possono passare. anche se adesso piove, anche se il suono delle campane che si sciolgono arriverà smorzato.

dopo aver trovato chiusa a collegiata ho fatto due passi. ho scattato alcune foto, al lago e quel che si intravvede dell'altra sponda. sembrano foto in bianco e nero. anche questa sembra attinenza.

poi, se guardi bene, i colori si distinguono. poco, ma si distinguono. come fossero un sussurro.