Saturday, April 4, 2020

considerazioni non assembrate /10: volevo fare il medico

c'è stato un periodo [brevissimo] della mia infanzia in cui avrei voluto fare il medico. un po' perché avevo appena iniziato ad intuire quale meravigliosa macchina [quasi] perfetta fosse il corpo umano. un po' perché l'idea di guarire le persone aveva un fascino che sgorgava, senza che ne avessi chiesto di dare il la a 'sta cosa. è stato breve ma lo ricordo bene. certo, c'era il problemuccio di quella specie di aspirapolvere silenzioso che mi risucchiava tutto proprio lì, al centro dello stomaco, quando vedevo del sangue, o qualcosa di simile. intuivo potesse essere qualcosa di ostativo, ma ci si poteva lavorare. così l'occasione mi si presentò quando fratteme si ustionò una coscia con dell'acqua bollente [uno dei tanti episodi che ci ricordano di quale straordinaria combinazione di eventi favorevoli debbano infilarsi, acciocché si esca dall'infanzia più o meno tutti integri]. qualche giorno dopo chiesi di assistere al cambio della medicazione, nell'ambulatorio del nostro medico. quando non vi furono più garze a coprire la ferita, con mio fratello che - sacrosantemente - piagnucolava spaventato, non sentii quel risucchio disorientante al centro dello stomaco. "ecco, vedi - dissi tra me e me - bastava volerlo, ora posso osservare come si fa a curare". un attimo dopo mi ritrovai, stonatissimo, su di una sedia nel corridoio fuori l'ambulatorio. mia madre - infermiera, dentro pure lei l'ambulatorio - era riuscita a sorreggermi al volo, appena accortasi del mio mancamento, e che stessi afflosciandomi come un pallocino che perdeva aria. svenuto, bianco cadaverico.
quella sera, a letto sotto le coperte, un po' scornato, mi raccontai che a quel punto avrei puntato tutto sull'elettronica. e mi immaginai la pallina che correva in circolo attorno al disco rotante di una roulette [parentesi uno: invero, ho avuto fin da piccolo la malata attitudine a ricorrere a queste immagini un po' naif, quando non didascalicamente scontate]. [parentesi due: quel puntare tutto sull'elettronica fu perché, nel mio piccolo mondo tra l'infanzia e la preadolescenza, non consideravo altre alternative. allora non avevo contezza delle scienze umane e sociali. essere più brave in italiano e grammatica era una cosa tipica delle femmine, specie quella cui contendevo il titolo di primo della classe]. [parentesi tre: il puntare tutto sull'elettronica si concretizzò con lievissimo scarto soltanto tre lustri dopo. per quanto avessi avuto ben più contezza delle scienze umane e sociali, della potenza e del trambusto che la letteratura riuscisse a provocarmi dentro. mi laureai ben consapevole ci fossero molte altre cose su cui puntare, più interessanti, più confacenti al mio daimon. non potevo ancora sapere quanta frustrazione tutto questo avrebbe significato, come si sarebbe spalancata appena più avanti].
tutto questo pipponcino para-autobiografico mi è tornato in mente spesso in questi giorni.
e la storia di fare il medico. di essere un medico.
che in questo caso non è così distinta dal fatto di fare, di essere un infermiere.
penso davvero sia un qualcosa di diverso dai mestieri normali. non che i medici e gli infermieri siano necessariamente persone migliori, anzi. ma quello che fanno è davvero un'altra roba.
la prima cosa che mi viene in mente, forse banale, è perché sono in presa diretta con l'inevitabile lato vulnerabile e finito delle umane genti. e tutto il portato emotivo che si porta appresso. aver a che fare con l'uomo malato, ferito, ad un passo dalla morte, come una specie di patto costutitivo di quel mestiere, verosimilmente di quella vocazione, ce l'hanno solo loro [il prete, con tutte le varianti religiose di questo mondo, in fondo è solo un succedaneo. solo tra molte virgolette, ovvio]. c'è chi giura sulla costituzione, e tutte le varianti, quando prende servizio. loro hanno un loro giuramento. prendersi cura e far di tutto per salvare le persone.
lo pensavo anche prima, ovvio. adesso ho la sensazione che questo iato riluca in tutta la sua drammatica inequivocabilità.
ci sto pensando spesso in questi giorni, appunto. con tutto quello che stanno facendo. e quel che stanno rappresentando per tutti gli altri. il fatto stiano garantendo la tenuta di tutto il sistema. non sono gli unici, ovvio. ma c'è qualcuno che lo fa più degli altri.
oggi, mentre leggevo l'ennesima storia di una di quelle persone in primissima linea, un pensiero mi è sbucato in mezzo al magone, che a volte mi avvolge mentre leggo o ascolto di queste cose qui [parentesi quattro: faccio un po' fatica ad abituarmi alle metafore belliche, che spesso sento usare, nella comunicazione più o meno ufficiale: siamo in guerra, è una battaglia, il fronte degli ospedali, i medici in prima linea. mi disturba molto meno quando ad usarlo sono loro, i medici, gli infermieri. è tutto piuttosto irrazionale ed incoerente, mica non lo so. ma è così. tant'è].
dicevo di un pensiero. che poi sarebbe questo.
a tutto quell'ammasso globulare di emozioni, sensazioni, dolori, gioie, preoccupazioni, energie inaspettate, angosce, fatiche, ansie, sfinimenti, paure, speranze, che stanno vivendo costoro. la sconfitta per qualcuno che non ce l'ha fatta, la vittoria per qualcuno che si è riusciti a strappare alla bestia. e poi, subito a prendersi cura di un'altro: che si perda o che si vinca. senza lasciarsi coinvolgere troppo, per non perdere la lucidità che ora più che mai è necessaria. tutto quello che li sta attraversando in maniera così massiva, collettiva, senza soluzione di continuità. deve essere un grumo inimmaginabile, non del tutto chiaro a nessuno, nemmeno a loro. la sua vastità e la sua portata. tutto così assieme. tutto così [apparentemente] inarrestabile. roba che passa attraverso il loro essere più profondo, fondante. è già successo nella storia più o meno recente, mica non lo dimentica nessuno. adesso però sta passando in mezzo a costoro. qui ed ovunque 'sta cosa sta succedendo e succederà. per non dire poi di tutti coloro che si sono ammalati. dei ottanta ottantasette novantatre cento centocinque centonove centoventi centociquanta medici e ventotto  trenta infermieri [a questo momento, continuerò ad aggiornare i numeri], che sono qualcoa di più che caduti sul lavoro.
e mi è sgorgato dentro questa specie di desiderio di cose che - verosimilmente - non mi riuscirà di fare. qualcosa che, immagino, arrivi dal mio lontano. l'eco flebilissimo di quando mi sarebbe piaciuto essere un medico per guarire le persone.
ed il desiderio, dopo, è quello di aver la possibilità di ascoltare il racconto di qualcuno di costoro. percepire l'effetto di riverbero di quello che gli passato in mezzo, e a cui sono passati in mezzo. dopo. dopo averle lasciate decantare. quello che si potrà condividere, ciò che deborderà oltre quello che ciascuno di loro si porterà dentro, per sempre. più o meno consapevolmente. provare a far distillare quella esperienza collettiva di loro, che sono stati così vicino al centro di quella roba lì. un privilegio unico quanto drammatico. che nessuno, ovvio, avrebbe voluto. ma che è capitato. ed un po' sarebbe un peccato lasciar scivolar via. sono comunque cose preziose, utili per tutti e questa fottuta, ed imprescindbile, coscienza collettiva. vulnerabilissime umane genti.


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